+972 Magazine. Di Yuli Novak. Gli afrikaner bianchi nel Sudafrica del dopo-apartheid hanno dovuto crearsi un’identità nazionale che non fosse basata sull’asservimento di altri esseri umani. È un problema che, prima o poi, anche gli ebrei israeliani dovranno affrontare. (Da Zeitun.info).
“Il fatto è che noi siamo malati, molto malati” scrisse Jean-Paul Sartre ai francesi nel 1957 commentando la cecità della sua società verso le proprie responsabilità nei confronti del dominio coloniale in Algeria. Il fatto è che anche noi siamo malati. Molto malati. E ammettere la propria malattia è, secondo me, la fase più difficile.
Essendo cresciuti in Israele, dove c’è un sistema politico che proclama esclusivamente l’idea sionista, noi crediamo orgogliosamente in una chiara distinzione fra il “nostro” sionismo, come è stato applicato entro la Linea Verde, e il progetto dei coloni al di là dei confini antecedenti al 1967 [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Ma, per quanto sia difficile ammetterlo, questa logica è artificiale e ci sta accecando.
Negli ultimi anni ho passato molto tempo in Sudafrica. Mi sono particolarmente interessato a un gruppo che costituisce meno del 10% popolazione: gli afrikaner bianchi, i discendenti degli europei arrivati nella parte meridionale del continente africano tra il XVI e il XVII secolo. All’inizio del Ventesimo secolo, quando il colonialismo inglese in questa regione stava concludendosi, gli afrikaner ottennero il controllo politico sulle terre. Nel 1948 instaurarono l’apartheid, un sistema politico durato 50 anni prima della sua abolizione nel 1994.
Negli anni dell’apartheid solo pochissimi afrikaner riuscirono a riconoscere la propria malattia (oggi ammessa da quasi tutti quegli afrikaner che desiderano relegarla a una cosa del passato). Quei pochissimi si trovavano davanti a un’impasse scoraggiante poiché si rendevano conto che qualcosa nella narrazione della propria formazione proprio non quadrava, che la logica del dominio dei bianchi sui neri, nonostante tutte le giustificazioni che venivano offerte, non poteva essere valida.
Riconoscerlo significava dover fare i conti con i presupposti più essenziali del proprio ambiente sociale, familiare e professionale. Sovvertire la giustificazione dell’apartheid voleva dire voltare le spalle a famiglia, nazione e Stato. Erano considerati, correttamente, come dei traditori. Ma non avevano mai tradito la madrepatria, solo il suo regime.
La loro impasse era soprattutto interiore: non avevano una narrazione per immaginare se stessi alternativa a quella del regime. Il Movimento della Consapevolezza nera che si stava sviluppando in quel periodo in Sudafrica offriva una solida struttura all’identità della lotta contro l’apartheid che però non si rivolgeva a loro in quanto bianchi. Dato che il regime si equiparava al nazionalismo afrikaner, ne conseguiva che essere contro l’apartheid voleva dire essere anti-afrikaner. Quindi essere un afrikaner contro l’apartheid voleva dire andare contro se stessi. Un afrikaner me l’ha spiegato: “Dovevamo chiederci: cosa significa essere chi siamo, afrikaner, senza l’apartheid? Scoprimmo che non avevamo una risposta.” Questa è l’essenza della malattia.
“Cosa significa essere ebreo-israeliano senza il sionismo?” Una domanda che non mi sono mai posto.
Il regime sionista (il sionismo come è stato praticato, non la sua versione ideologica o filosofica del come “sarebbe potuto essere”) non ha mai fatto molto per la democrazia. Già nei suoi primi anni il regime israeliano si adoperò per mantenere una maggioranza ebraica, con la Legge sulla proprietà degli assenti e la Legge del ritorno, e per applicare un sistema duale tramite l’apparato militare imposto sulle zone arabe nel nuovo Stato di Israele. Nel 1967 al nostro progetto nazionale si è aggiunta una sfida nuova, ma vecchia: insediarsi e controllare territori oltre la Linea verde riconosciuta internazionalmente. Alla sinistra sionista ebraica venne dato un nuovo problema con cui fare i conti: “l’occupazione dei territori” che, anche se in linea con l’originaria logica di insediamento alla base del sionismo (“il nostro diritto alla terra”), era molto più sgradevole agli occhi degli ebrei su posizioni di sinistra e a quelli del resto del mondo.
La nostra malattia non è cominciata nel 1967. Per quelli che non vogliono mettere in dubbio la narrazione che la sovranità sulla terra debba essere esclusivamente ebraica, narrazione con cui si fa iniziare “una storia diversa” nel 1967, è un modo conveniente per non guardare in faccia il male. Noi possiamo dire a noi stessi che curare i sintomi dell’occupazione, se solo fosse possibile, avrebbe spianato la strada per continuare il progetto sionista “senza macchia”.
In anni recenti gli eventi sul terreno ci hanno impedito di continuare a raccontare a noi stessi questa storia. Quasi tutti i partiti politici che rappresentano gli ebrei israeliani riconfermano ai cittadini palestinesi la loro esclusione da una collaborazione autenticamente egalitaria al governo di Israele. Mentre si sta rapidamente avvicinando l’annessione de jure di vaste parti della Cisgiordania sostenuta da buona parte dell’opinione pubblica ebraica, sta diventando sempre più difficile distinguere fra “Israele” e l’“occupazione.”
Un buon punto di partenza potrebbe essere la domanda esasperante che ci viene spesso posta dalla destra: “Che differenza c’è fra Ramat Aviv (il quartiere di Tel Aviv costruito sulle rovine del villaggio di Sheikh Muwannis) e Kiryat Arba (l’insediamento in Cisgiordania vicino a Hebron)?” È una domanda che anche noi dovremmo avere il coraggio di farci, non per sfida, ma con coraggio, umiltà e sincerità. Perché, appunto, qual è la differenza quando si guarda attraverso la lente delle giustificazioni nazionali e storiche fra l’applicare il sionismo a Giaffa o a Lydda [due città con una nutrita minoranza di palestinesi, ndtr.] e imporre lo stesso regime su Betlemme o Nablus?
Il malessere che proviamo quando affrontiamo questioni simili è un sintomo su cui vale la pena di riflettere, dato che ci porta più vicino alla nostra vera malattia: noi non abbiamo un’identità nazionale o di gruppo che non coinvolga né dipenda dal soggiogare i palestinesi alla supremazia ebraica. Temo che non l’avremo mai.
La sinistra ebraico-israeliana non ha mai prodotto una narrazione alternativa a quella del regime. Quando sono stati fatti dei tentativi, sono rimasti ai margini e non sono mai stati adottati su larga scala come base per una lotta di liberazione più ampia (e da questo regime dobbiamo liberarci anche noi ebrei israeliani, non solo i palestinesi).
Presentare idee simili oggi in Israele può essere considerato tradimento, eppure è fondamentale analizzarle a fondo e sinceramente se vogliamo far nascere una nuova politica e una nuova identità nostra, nel cui nome combattere. Questa nuova identità politica ebraica dovrà riconoscere gli errori del passato senza farsene dominare. E ci libererà non solo da un’identità definita da paure e minacce, vere e immaginarie, ma anche dalla certezza, repressa e difficile da esprimere a parole, che anche noi siamo malati, molto malati.
Quest’articolo è stato originalmente pubblicato in ebraico su Haaretz.
Yuli Novak è un’attivista israeliana, nata e cresciuta in Israele; fra il 2012 e il 2017 è stata direttrice di ‘Breaking the Silence’ [‘Rompere il silenzio’ un’organizzazione di soldati ed ex soldati israeliani che si oppone all’occupazione, ndtr.].
Traduzione dall’inglese per Zeitun.info di Mirella Alessio