Electronic Intifada. Murad Lashin è un ingegnere informatico – disoccupato – che sogna di lavorare nella Società Elettrica israeliana. Sarebbe una grande opportunità, ma ammette che non esiste per lui alcuna possibilità di assunzione.
Di recente, un comitato parlamentare ha dimostrato come, nonostante la minoranza “araba” [ovvero palestinesi, ndr] costituisca il 20% dell'intera popolazione dello Stato israeliano, solo l'1,3% (circa 12.000) è impiegato dalla società.
Il rapporto del comitato vuole dimostrare come i cittadini arabi coinvolti nel settore pubblico, compagnie statali e ministeri siano meno del 2% del totale degli impiegati.
Nonostante dieci anni fa il governo israeliano si fosse espresso impegnandosi per l'assunzione di un maggior numero di “arabi”, non si registra alcun progresso, così Sikkuy – gruppo per l'uguaglianza civica – denuncia questa situazione nell'ambito delle discriminanti politiche israeliane contro una larga fetta di popolazione “araba” qualificata.
Lashin ha 30 anni e viene da Nazareth. Dichiara di sperare in un lavoro nel settore pubblico, dopo un lungo periodo di contratti a breve termine nel settore privato della tecnologia.
“Ovunque mi presenti, mi viene chiesto se abbia espletato o meno il servizio militare. Dal momento che gli arabi sono esentati, gli impieghi più dignitosi restano una prerogativa degli ebrei”.
Ahmed Tibi, in passato alla guida del comitato parlamentare per l'impiego arabo nel settore pubblico, ha confermato l'esiguità della partecipazione degli arabi nei settori governativi israeliani. “L'assenza di arabi ai vertici di posizioni decisive vuole escludere la possibilità che essi prendano parte al processo decisionale a livello ministeriale”.
La Legge per un'Equa Rappresentanza (Fair Representation Law), approvata proprio sotto pressione dei partiti politici “arabi”, risale al 2000 e si poneva lo scopo di affrontare la questione della mera rappresentanza araba nel settore pubblico d'Israele.
La legge resta però lettera morta, e fino al 2004 non fu presa alcun iniziativa per la sua implementazione.
In realtà, in quell'anno non fu fatto nulla di concreto ma il governo israeliano promise di portare – entro quattro anni – l'impiego di “arabi” qualificati al 10% del totale del personale statale (ministeri, apparati statali, assemblee di compagnie statali). Il termine di quattro anni fu poi portato al 2012.
Il nuovo rapporto dimostra che, ad oggi, su 57.000 lavoratori nel settore pubblico il 6% solo è costituito da “arabi”.
Bisogna fare attenzione, perché questi numeri – specifica Tibi – si riferiscono agli “arabi” che lavorano nell'erogazione di servizi (sanità, educazione e welfare) rivolti strettamente alla comunità “araba”.
Anche Avishai Braverman, Ministro per le minoranze, ha espresso scarsa fiducia nelle promesse del governo.
Continua Tibi: “Non è forse un grande discriminazione del tempio democratico israeliano il fatto che, ad esempio, nel Parlamento siano solo 6 (1,6%) gli impiegati 'arabi' su un totale di 439?”.
Similmente, su 84.000 professioni impiegate nell'industria tecnologica, gli “arabi d'Israele” sono solo 500, afferma Yossi Coten, direttore di un programma di aggiornamento a Nazareth.
Ovviamente, una simile distribuzione del lavoro, si riscontra anche presso i dipartimenti strategici del governo israeliano: uffici ministeriali, quello degli esteri, tesoreria, commercio e industria, agenzie di stato come la Banca di Israele, amministrazione fondiaria e Autorità per le risorse idriche.
L'OECD, alla quale Israele ha aderito solo una settimana fa, ha riportato che lo scorso anno erano 15.000 gli “arabi” qualificati in stato di disoccupazione e spesso forzati a ripiegare su altri profili professionali come l'insegnamento.
L'assenza/scarsità di “arabi” nell'impiego statale si riflette nella mancanza dei servizi pubblici e delle risorse allocate alla comunità “araba”, afferma Tibi.
La povertà delle famiglia “arabe” è tre volte superiore a quella delle famiglie ebraiche.
Yousef Jabareen, direttore del centro di studi politici Dirasat di Nazareth, sostiene che, qualora il governo rivedesse questa situazione e destinasse più posizioni d'impiego ai lavoratori “arabi”, si risolverebbero anzitutto due problematiche: l'alta disoccupazione tra gli “arabi” qualificati e la mancanza di influenza e partecipazione della comunità “araba” sulle politiche nazionali.
“La discriminazione contro gli arabi è stata costruita all'interno della struttura istituzionale dello Stato ebraico“.
Sulle reazioni al rapporto in ambienti governativi: alcuni deputati lo hanno accolto con ostilità. Yariv Levin, a capo del Comitato parlamentare e membro del Likud, si è così espresso:
“Il rapporto ha suscitato grande delusione poiché ignora una realtà fondamentale e cioè che, gran parte degli 'arabi di Israele' non dimostrano fedeltà allo Stato“.
Saleem Marna, 37 anni, laureato in ingegneria da 10 anni presso la prestigiosa Università Technion di Haifa, ha ammesso di aver rinunciato a trovare il suo lavoro sia nel pubblico sia nel privato.
Saleem è sposato con quattro bambini e, da poco, sta tentando di emigrare in Canada, dove spera di non rivivere simili discriminazioni per il fatto di essere un “arabo”.
Hatim Kanaaneh, medico laureatosi ad Harvard, ha lavorato per il Ministero della Salute israeliano fino a pochi anni fa, quando è andato in pensione.
Kanaaneh, autore del libro Doctor in Galilee, ricorda che nel corso della sua carriera non ha mai incontrato “arabi” che occupassero posizioni superiori di grado a quella di fisico distrettuale. E nonostante il Ministero della Salute sia quello con il maggior numero di lavoratori “arabi”, anche qui, nessun “arabo” ha mai ricoperto posizioni di un certo livello.
“La gente è ben consapevole che questa cruda realtà è ancora più tangibile con l'attuale governo israeliano”.
Anche Kanaaneh ammette che questo comporta danni tra la “comunità araba”: ricorda che quando lavorava per il Ministero della Salute, il tasso di mortalità dei bambini “arabi” era il doppio di quello dei bambini ebrei. Negli ultimi venti anni lo stesso dato è aumentato (per i bambini “arabi”) del 25%.
Già lo scorso novembre un'altra statistica era stata resa pubblica: in essa si denunciava il disagio vissuto dalla “comunità araba” a causa della disoccupazione, e dimostrava che l'83% degli uomini d'affari israeliani erano dichiaratamente contrari all'assunzione di “arabi” qualificati.
Articolo di Jonathan Cook, 21 maggio 2010