“Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”: la storia dei canti di resistenza nella società palestinese

English.alaraby.co.uk/. Di Emad Moussa. (Da InvictaPalestina.org). Proseguendo nei loro sforzi per criminalizzare l’attivismo palestinese nel Regno Unito, l’ultima diatriba del Partito conservatore è stata la minaccia di vietare i canti palestinesi, sostenendo che sono pro-Hamas. Ma qual è la vera storia dei canti palestinesi?

Secondo il Segretario di Stato per l’Istruzione del Regno Unito Nadhim Zahawi “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera” è uno slogan antisemita di Hamas che giustifica l’azione della polizia. Un “appello a distruggere Israele”, affermano i gruppi filo-israeliani.

Ma per i palestinesi e i loro sostenitori, le accuse sono dettate dalla politica  e ingiuste. Lo slogan esiste da molto prima che Hamas venisse fondato e in effetti è antico quanto la lotta palestinese contro il sionismo.

“Cantare, e cantare per la Palestina, è convinzione comune, è connettersi e preservare le radici storiche, la cultura e la geografia della Palestina”

La frase è presente in diverse canzoni folcloristiche e rivoluzionarie palestinesi e ha molteplici derivazioni arabe, le più comuni delle quali sono: min el-maiyeh lel mayieh (dall’acqua all’acqua – riferendosi al Mar Mediterraneo e al fiume Giordano).

La frase è inoltre strettamente correlata alla cultura e alla formazione dell’identità del popolo palestinese: sottolinea il legame con la terra, chiede la decolonizzazione, la libertà e la fine del regime di apartheid in Palestina, sostituito con uno stato  unitario con uguali diritti per tutti.

Ma in Palestina, come indica la controversia attorno al questo slogan, è difficile separare la cultura dalla sfera politica all’interno della quale opera. Poiché questa sfera è eccessivamente dominante, ha prodotto espressioni culturali e artistiche ugualmente dominanti per sfidare la struttura di potere in atto.

Manifestanti palestinesi cantano slogan mentre si radunano nella città di Ramallah, situata nella Cisgiordania occupata [Getty Images]

Particolarmente visibile tra queste espressioni culturali è il canto.

Sociologicamente, il canto ha una connotazione religiosa. Si riferisce a espressioni iterative, a volte melodiche, come le preghiere, le recitazioni e le suppliche, al contrario del canto più strutturato.

Ma nel contesto rivoluzionario, di cui la Palestina fa parte, il canto e lo scandire slogan cadono sotto lo stesso ombrello di “espressioni culturali musicalizzate”.

Il canto è generalmente inteso come suoni monotonici e iterativi,  purtuttavia equivale a cantare espressioni armoniche e tonali. In altre parole, il canto rivoluzionario e lo scandire slogan sono contestualmente indistinguibili, usati in modo intercambiabile e servono allo stesso scopo: mobilitare le masse e sfidare i rapporti di potere.

Questo è il motivo per cui il canto palestinese non è una forma indipendente di espressione culturale; piuttosto, una parte intrinseca e il prodotto di diverse generazioni di patrimonio musicale.

Le informazioni sui modi musicali in Palestina prima della prima guerra mondiale rimangono scarse. Gran parte di ciò che sappiamo proviene dalle memorie del musicista palestinese Wassif Jawahariyyeh (1897–1972), che ripercorse la vita culturale in Palestina tra il 1904 e il 1917.

Come evidenziato da Jawahariyyeh, durante l’ultima parte del diciannovesimo secolo la Palestina costituiva un passaggio per i musicisti in viaggio tra l’Egitto – l’allora fulcro della cultura araba – e il Levante. Questi artisti tennero concerti nelle principali città palestinesi come Gerusalemme e Giaffa, influenzando così la produzione musicale in quelle regioni.

È anche noto che l’istituzione di Radio Gerusalemme nel 1936 ebbe un ruolo significativo nel favorire le produzioni musicali, attirando musicisti dalla Palestina e dai paesi arabi vicini, che venivano a rappresentare  o a registrare il loro lavoro.

 “Il canto palestinese non è una forma indipendente di espressione culturale, è piuttosto una parte intrinseca e il prodotto del patrimonio musicale di diverse generazioni”

Un punto di svolta critico fu la Nakba del 1948, quando la maggior parte dei palestinesi divennero profughi interni e nei paesi vicini. Le loro espressioni musicali tradizionali avrebbero presto assunto il carattere dell’epoca: disperazione e perdita.

Poiché la maggior parte dei rifugiati palestinesi proveniva da zone rurali, il loro folklore musicale locale sarebbe diventato un elemento determinante nella cultura post-Nakba. Questo folklore è per lo più orale, i suoi compositori e scrittori sconosciuti; in quanto tale, è flessibile e adattabile.

Le canzoni d’amore tradizionali e i cosiddetti “canti di flirt” “anashed al-ghazal”, come il famoso “ya zarif al-toul” (Oh, quello meravigliosamente alto), sarebbero stati riadattati, quasi senza modifiche liriche o tonali, per indicare il desiderio per la patria perduta e l’inevitabile ritorno ad essa.

In effetti, il senso di perdita che seguì alla Nakba è stato (e continua ad essere) incorporato in tutte le espressioni culturali palestinesi, inclusi poesia, romanzi e arti visive. Ma sono le espressioni musicali, forse in virtù della loro natura tonale e iterativa, a divenire le più popolari e a raggiungere un pubblico più vasto. A partire dagli anni ’50, ciò fu favorito dalla disponibilità delle radio a transistor.

L’istituzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1964, seguita dall’occupazione israeliana del resto della Palestina storica nel 1967, trasformò il senso di perdita in sfida e resistenza armata nella forma dei fedayn, combattenti per la libertà. Questo inaugurò quella che divenne nota come la “musica rivoluzionaria palestinese”.

Il gruppo “Al-Bara’em “(Flower Buds) fu tra le band più importanti associate alla nuova musica nei primi anni ’70. Durante la diaspora, l’OLP creò il proprio ensemble con sede in Libano, “al-Ashiqeen” (The Lovers – un riferimento alla patria e al martirio).

Queste espressioni musicali fiorirono insieme (e presero in prestito da) quella che in seguito divenne una piattaforma sistematica per “la cultura della resistenza”, come la poesia di Mahmoud Darwish, i romanzi di Ghassan Kanafani e i dipinti di Ismail Shammout.

La prima Intifada del 1987-93 – la più grande e persistente protesta di massa palestinese contro l’occupazione israeliana dal 1967 –  portò alla combinazione di folklore ed espressioni musicali rivoluzionarie.

La crescente popolarità del modello islamico di canto, tipicamente noto come “al-nasheed al-Islami” che  coincise con l’istituzione di Hamas nel 1987, arricchì le cosiddette espressioni musicali di resistenza.

“Il canto esiste da molto prima che Hamas fosse fondato. In effetti, è antico quanto la lotta palestinese contro il sionismo”

Ad esempio, un nasheed (canto) tradizionale come “sabbal oyounoh mad eidoh” (colui che allungò gli occhi), che in origine era un canto nuziale, fu riadattato durante quel periodo per diventare l’immagine dello shaheed (martire). Tuttavia, il nasheed è stato occasionalmente composto con un tono rivoluzionario, sottolineando il sacrificio e la resistenza come dinamiche inseparabili dell’identità nazionale palestinese e della lotta contro il colonialismo.

La stessa tendenza continua ancora oggi, anche se i mezzi di produzione sono diventati più accessibili al grande pubblico grazie ai social media e alle risorse online.

Al giorno d’oggi è comune nelle manifestazioni o nei cortei funebri sentire la folla cantare nasheed rivoluzionari o ripetere melodicamente slogan come: “Andremo ad Al-Quds, martiri a milioni”.

Per gli islamisti, il canto a volte acquisisce un sottofondo religioso, in cui i manifestanti gridano: “Il nostro obiettivo più alto è morire per amore di Dio”. Vale a dire: morire per il nobile obiettivo della liberazione, significa anche essere sulla retta via di Dio.

Ma la mobilitazione di massa non è l’unico obiettivo del canto: riguarda anche, forse soprattutto, l’autoconservazione. La maggior parte dei palestinesi sono espropriati, apolidi e per sempre minacciati dall’oblio fisico e psicologico.

Cantare e cantare per la Palestina, è convinzione comune, è connettersi e preservare le radici storiche, la cultura e la geografia della Palestina. Questi sono visti come potenti strumenti per deviare i continui tentativi di Israele di sradicare ulteriormente i palestinesi.

Come dire: cantare è resistere, e resistere è esistere.

Il dottor Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica della Palestina/Israele.

Traduzione di Grazia Parolari per Invictapalestina.org