Deputata palestinese malata di cancro. Ma Israele non la fa uscire

Un detenuto palestinese in carcere in Israele ha diritto alle cure mediche, un membro del parlamento palestinese nemmeno a quelle. Khalida Jarrar, del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), ha scoperto che essere una deputata può rivelarsi una condizione persino peggiore di quella di un prigioniero politico quando si vive sotto occupazione straniera.

Jarrar, 47 anni, una delle donne palestinesi più impegnate in politica e nella società, non sta bene. «Da qualche tempo accuso forti dolori alla testa, problemi alla vista, debolezza perenne. Temo di essere gravemente ammalata», dice con un filo di voce. Un mese e mezzo fa il suo medico le consigliò esami approfonditi e urgenti al cervello. I primi test erano stati preoccupanti e voleva andare fino in fondo. A Ramallah, dove la parlamentare vive e lavora, come nel resto della Cisgiordania, però non ci sono le attrezzature necessarie per svolgere questo tipo di indagini. Occorre andare all’estero. «I medici mi dissero che in Giordania avrei potuto finalmente sottopormi agli esami richiesti e mi sollecitarono a partire subito», racconta la deputata del Fplp. Il ministero della sanità palestinese accetta di coprire le spese e prenota a suo nome un check completo in un ospedale di Amman. Ma ai vertici dei servizi di sicurezza israeliani decidono che Jarrar non può viaggiare, anche se ammalata, perché fa parte di un’ «organizzazione terroristica». Il fatto che la deputata non sia mai stata coinvolta in fatti di sangue non cambia la sua condizione agli occhi delle forze di occupazione.

I giorni passano, la malattita rischia di aggravarsi e di non essere più curabile. Così Jarrar si rivolge a un amico, l’avvocato Mahmud Hassan dell’associazione Addamir. In seguito a una lettera inviata da Hassan, l’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania risponde, per iscritto, che nulla impedisce alla donna di recarsi ad Amman. Assicurazione che viene ribadita per la terza volta lunedì 30 agosto, giorno in cui Jarrar arriva al ponte Allenby con la Giordania, con tutti i documenti necessari. Ma dopo un’ora di attesa, una poliziotta israeliana le nega l’autorizzazione, senza fornire spiegazioni. Interpellato dalla giornalista Amira Hass di Haaretz, un portavoce dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) ha spiegato che «Khalida Jarrar è attiva nell’organizzazione terrorista Fronte popolare per la liberazione della Palestina, quindi per motivi di sicurezza non può recarsi all’estero». Tutto qui.

Poche parole che potrebbero costare la vita alla parlamentare palestinese.

I dirigenti politici israeliani amano ricordare, a coloro che denunciano le pesanti conseguenze dell’occupazione dei Territori, che nei suoi ospedali vengono curati non pochi palestinesi (vero) e che i suoi medici assistono arabi ed ebrei alla stessa maniera (vero)*. Ma l’abnegazione e la professionalità dei medici israeliani non cancellano le sofferenze che tanti malati palestinesi gravemente infermi devono affrontare a causa delle forti restrizioni che i servizi di sicurezza applicano ai movimenti della popolazione civile sotto occupazione. Soprattutto quella di Gaza. Il «Comitato popolare contro l’embargo» lo scorso 7 marzo rese noti dati secondo i quali durante i mille giorni di blocco di Gaza almeno 500 ammalati palestinesi sono deceduti per non aver potuto viaggiare all’estero e ricevere cure adeguate. Dati non ufficiali ma la stessa l’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea che l’assedio israeliano di Gaza viene pagato ogni giorno a caro prezzo soprattutto dai palestinesi più deboli: donne, anziani, bambini e ammalati.

Di Michele Giorgio su Il Manifesto del 09/09/2010

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