Rappresentante Onu per i Diritti umani, situazione in WB: Israele contro ogni legalità

Pchr. Dichiarazione ad opera dell’incaricato speciale delle Nazioni Unite riguardo la situazione dei diritti umani nei territori occupati palestinesi da 1967 ad oggi.
Amman, 20 febbraio 2012

Signore e signori, buongiorno e grazie per essere venuti.

Questa conferenza stampa giunge a conclusione del viaggio di 10 giorni da me sostenuto, in qualità di incaricato ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi in regime d’occupazione dal 1967.

Durante la mia visita, ho avuto modo di incontrare rappresentanti del governo e di organizzazioni governative, nonché membri della società civile e rifugiati palestinesi.
Vorrei anzitutto esprimere la mia gratitudine ai governi di Egitto e Giordania per la loro disponibilità e collaborazione. Sfortunatamente lo stesso non si può dire del governo israeliano, il quale, come altre volte in passato, si è rifiutato di cooperare in merito a questa missione del Consiglio ONU per i Diritti Umani.

Nonostante ciò, mi prefissai di sostenere incontri nei territori palestinesi occupati, in particolare nella Striscia di Gaza. Sfortunatamente l’attuale instabilità nel nord del Sinai rese impossibile il trasferimento dal Cairo alla capitale della Striscia. Fu per me causa di grande sconforto non poter essere né testimone diretto della situazione di Gaza né interlocutore per un gran numero di persone informate sui fatti, che comprendeva rappresentanti dei prigionieri palestinesi nonché ex detenuti appena rilasciati secondo gli accordi di scambio d’ostaggi sottoscritto con Israele.

Tuttavia fui informato in modo completo circa le preoccupazioni legate alla situazione umanitaria della città di Gaza, aggravatesi in conseguenza del blocco cittadino imposto da Israele. I civili di Gaza con cui ebbi l’opportunità d’incontrarmi, misero in evidenza quelle che ritenevano essere prove evidenti degli illegittimi sforzi israeliani tesi a separare la Striscia dalla Palestina, costringendo i cittadini di Gaza a rifornirsi dei beni di prima necessità attraverso i tunnel che mettono in comunicazione con l’Egitto. Vorrei ribadire che, secondo quanto stabilito dalla legge internazionale, la Striscia di Gaza fa parte del territorio soggetto all’occupazione israeliana. Secondo tale realtà di fatto, Israele ha sì il potere di imporre le proprie decisioni, ma anche il dovere di rispettare quanto stabilito dalla quarta convenzione di Ginevra, secondo cui il dovere fondamentale della forza d’occupazione è quello di proteggere ad ogni costo la popolazione civile di Gaza, che conta ben 1,5 milioni di individui.

Durante la mia visita, mi sono preoccupato dello stato di salute di Khaled Adnan, ormai al suo 65° giorno di sciopero della fame. Secondo quanto mi fu riferito, Adnan era stato prelevato violentemente da casa sua alle 3.30 del mattino, sotto gli occhi di sua moglie e dei suoi figli. E’ stato poi sottoposto, sia in carcere che durante ripetuti interrogatori, a continui soprusi ed umiliazioni. E’ stato trasferito più volte da un istituto all’altro, sbattuto in cella d’isolamento e lì lasciato per periodi eccessivamente prolungati, il più delle volte ammanettato. Come segno di protesta nei confronti delle violenze subite nonché della pratica di “detenzione amministrativa”, applicata anche ad altri palestinesi, Adnan ha iniziato uno sciopero della fame e si è rifiutato di rispondere ad ulteriori interrogatori.
Sono stato informato che lo stato di salute di Adnan è già irreparabilmente compromesso e che il detenuto rischia di morire da un momento all’altro. La risposta della giustizia israeliana si è dimostrata completamente inadeguata alla situazione creatasi.

Io stesso sono rimasto stupefatto di fronte alle informazioni rilasciate dal governo israeliano circa le condizioni di Adnan. Cito testualmente quanto dichiarato ieri dalle autorità di Tel Aviv: “Il prigioniero non è sospettato di aver preso parte attiva in azioni terroristiche… Non è affatto in pericolo di vita”. Non c’è alcun bisogno di spiegare quanto tali dichiarazioni dimostrino come il rifiuto israeliano alla liberazione immediata di Adnan contravvenga ai basilari istinti umanitari.
Sulla base di quanto riferitomi, Adnan, durante la sua detenzione, ha subito vessazioni e torture del tutto rispondenti ai maltrattamenti inclusi ed intesi nella Convenzione Contro la Tortura, sottoscritta da un gran numero di paesi, Israele compreso.

Permettetemi di ricordare al governo israeliano che tali maltrattamenti non solo rappresentano gravi violazioni dei diritti umani nonché veri e proprio crimini di guerra, ma sono anche passibili di condanna ad opera dell’organismo giudiziario internazionale. Tale giudizio non si estenderebbe solamente agli aguzzini di Adnan, ma giocoforza coinvolgerebbe le autorità israeliane responsabili della politica detentiva, nonché dell’applicazione della ormai famigerata “custodia amministrativa”.
Ribadisco il mio appello al governo israeliano affinché riconosca senza indugio i diritti del detenuto Adnan sulla base di una vera e propria emergenza umanitaria. La condizione patita dal prigioniero, infatti, ne imporrebbe la scarcerazione immediata, anche nel caso fossero state raccolte sufficienti prove di colpevolezza a suo carico. Ormai però è troppo tardi e la cosa più clamorosa è che ancora mancano le prove di un presunto coinvolgimento di Adnan in azioni di resistenza.

Ad ogni modo, indipendentemente dal caso in questione, occorre che venga fatta piena luce sul sistema detentivo israeliano e che venga, se non abolita, limitata l’applicazione della “custodia amministrativa” a coloro a carico dei quali esistono sufficienti prove perché possano essere considerati pericolosi per la società.

Il caso di Adnan rappresenta perfettamente quelle che sono le modalità secondo cui Israele incarcera persone prive d’accusa. Israele definisce tale pratica “detenzione amministrativa”, ma sarebbe più corretto definirla per quello che è in realtà, una “detenzione in assenza d’accusa” o “detenzione arbitraria”. Questa pratica viola la legge internazionale, comprese le convenzioni di Ginevra, sottoponendo al regime detentivo gente a carico della quale non esistono prove di colpevolezza e infrangendo così i basilari diritti dell’essere umano.

Una fonte attendibile mi ha informato del fatto che sarebbero circa 300 i palestinesi detenuti in tali condizioni nelle carceri israeliane. Ho richiesto che mi vengano fornite informazioni riguardanti ciascuna di queste persone e ho intenzione di elaborare in merito un’accurata indagine da presentare alla prossima seduta del Consiglio sui Diritti Umani.

Durante il mio viaggio sono stato inoltre informato sulle condizioni dei circa 4000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, e il quadro che mi è stato descritto è veramente agghiacciante: vessazioni verbali e psicologiche, negazione del supporto medico, vasto uso di periodi di isolamento eccessivi, sovraffollamento in celle decrepite, proibizione alle visite dei parenti. E’ vergognoso notare come tali abusi vengano denunciati ormai da anni, senza che vi sia mai stato un intervento per la loro eliminazione.

Da parte mia, continuerò ad indagare ed informare circa le condizioni dei prigionieri palestinesi. Vorrei infine ricordare che le violazioni dei diritti dei prigionieri, siano essi palestinesi o meno, necessitano un intervento immediato della comunità internazionale.
Uno degli obiettivi della mia visita era quello di indagare sulla condizione dei rifugiati palestinesi. Sono rimasto sconvolto dalle difficoltà e le avversità che accompagnano la vita dei rifugiati. Ho avuto la possibilità di incontrare diversi di loro.

Descrivendomi la loro situazione, hanno sottolineato più volte il fatto che la condizione di rifugiati costituisce una violazione prolungata dei diritti umani, che paradossalmente rimane inconsistente alla luce della modalità di formulazione della quarta convenzione di Ginevra, la quale parla di uno stato d’occupazione “temporaneo”. Un’occupazione prolungata complica la possibilità di fruizione di diritti basilari come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale e alla salute.

E’ un enorme impedimento alla volontà di famiglie che desiderano crescere i propri figli in una condizione di normalità, la quale presuppone un ambiente stabile e sicuro. Tutti i rifugiati con cui ho avuto modo di parlare hanno riaffermato il proprio impegno per l’autodeterminazione palestinese nonché il desiderio di ritornare nella loro terra e viverci in pace, al fianco degli Israeliani.

Tengo a sottolineare che fu in base a mio preciso desiderio che tentammo di intavolare dialoghi anche con rifugiati non residenti in Giordania. La situazione in Siria rese impraticabile una tappa in quel paese. Ritengo invece un peccato che il Libano abbia rifiutato di ricevere la delegazione e, a livello personale, mi sorprese molto riscontrare questa identità di comportamento tra Libano ed Israele nel rifiutare qualsiasi collaborazione con la nostra missione tesa a fare luce sulle violazioni israeliane a danno dei palestinesi.

Un altro importante obiettivo fu quello di raccogliere informazioni circa la persistente negazione israeliana all’autodeterminazione palestinese. Noi naturalmente riconosciamo l’autodeterminazione come uno dei diritti fondamentali dell’uomo. I palestinesi ne hanno dunque diritto, come gli Israeliani e qualunque altro popolo della Terra. E tale diritto non è negoziabile. Non è una questione semplicemente territoriale. I rifugiati di Giordania, di Siria, del Libano hanno il medesimo diritto all’autodeterminazione che rivendicano anche i palestinesi della Striscia, della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Le informazioni che ho raccolto confermano la volontà israeliana di negare il diritto di autodeterminazione ai palestinesi. Il quadro da esse dipinto è eloquente: insediamenti in continua espansione, confisca delle terre palestinesi in costante crescita, aumento della violenza ad opera dei coloni, incremento nel numero delle abitazioni palestinesi rase al suolo, oltre ad altre misure finalizzate al trasferimento forzato dei palestinesi hanno l’effetto di rendere sempre meno realizzabile e giustificabile l’autodeterminazione da parte di questi ultimi.
Con l’abbattimento di 80 abitazioni nel solo 2012, Israele dimostra di avere tutta l’intenzione di superare il numero di demolizioni coatte totalizzato nel 2011. E’ una vergogna che ben il 30% di tali operazioni abbia riguardato l’abbattimento di case famigliari. Senza contare il fatto che molte di queste abitazioni appartenevano a rifugiati. Risulta chiaro come questa politica di sistematica estromissione dei palestinesi dalle loro case e dalle loro terre sia finalizzata all’annessione della Cisgiordania ad Israele, se non completamente, almeno in buona parte. Tutto ciò aggravato da fatto che il governo di Tel Aviv fornisce maggiori quantità di acqua a quanti risiedono negli illegali insediamenti ebraici rispetto alle comunità palestinesi. A tal riguardo, le situazioni in cui versano Gerusalemme est, il villaggio di al-Walaja e la quasi totalità delle comunità stanziate lungo la valle del Giordano necessitano del sostegno e della protezione della comunità internazionale.
La crescente violenza ad opera dei coloni ebrei nei confronti dei Palestinesi e le loro proprietà deve essere inserita nel contesto della strategia israeliana finalizzata all’estromissione dei Palestinesi dalla loro terra. Ho avuto modo di sentire terribili racconti su Israeliani che attaccano e minacciano ripetutamente i Palestinesi, donne e bambini compresi, o che si appropriano delle loro risorse primarie, come l’acqua. La situazione di Hebron è recentemente peggiorata, ma condizioni simili possono essere riscontrate in varie località della Cisgiordania così come in diversi quartieri di Gerusalemme est. La condiscendenza del governo di Tel Aviv nei confronti di tali atti di violenza colonica conferma la volontà di quest’ultimo di appropriarsi della Cisgiordania in un modo completamente inaccettabile ed illegale.
Un incoraggiamento alla mia missione è pervenuto dalla Lega Araba, che ha la possibilità di far valere la sua voce in modo efficace, sfruttando al meglio la politica di maggiore apertura alle dinamiche regionali inaugurata dalla nuova presidenza, affinché si pervenga al riconoscimento e all’applicazione dei diritti del popolo palestinese. Dal colloquio tenuto con rappresentanti della Lega Araba, è emersa una decisa volontà di cooperazione affinché la comunità internazionale si risolva ad intervenire quanto prima.
Signore e signori,

Deve essere sottolineato che le violazioni descritte questa mattina, che discriminano ed avviliscono un popolo intero, fanno parte di una ben pianificata strategia messa in atto dal governo israeliano. Bisogna porre fine a questa occupazione, che dura ormai da 45 anni, affinché i palestinesi possano finalmente godere dei propri diritti sotto l’egida della legge internazionale. Solo così si potrà realizzare un progetto sostenibile di pace e sicurezza che coinvolga entrambi i popoli.

Grazie.