Dietro la democrazia israeliana: decostruire il sistema militare israeliano

Memo. Di Mariam Barghouti

Il 21 gennaio 2015 la corte militare israeliana ha condannato Malak Khateeb, di 14 anni, a due mesi di prigione. Lina Khattab, 18 anni, che aveva appena iniziato il suo primo anno di università, è stata arrestata dal sistema della giustizia militare israeliana il 13 dicembre 2014. Dopo un mese e mezzo Khattab non aveva ancora ricevuto alcuna condanna. Per di più il giudice ha rifiutato di rilasciare Khattab su cauzione. Durante la quinta udienza il giudice ha affermato: ”Se la libero adesso, sarà trattata come una celebrità.”

Secondo il ministero palestinese per la questione dei prigionieri circa il 70% delle famiglie palestinesi ha avuto prima o poi qualche membro arrestato da Israele. Creando il sistema dei tribunali militari, Israele ha dipinto l’immagine di se stesso come uno Stato giusto e democratico che agisce in base a un principio di legalità. Tuttavia quello che non si dice è il modo sinistro in cui questi tribunali sono organizzati.

Per i palestinesi la percentuale delle condanne da parte dei tribunali israeliani è del 99,7%. Raramente i palestinesi hanno la possibilità di essere riconosciuti innocenti e rilasciati. I tribunali militari incaricati dal governo israeliano hanno lo scopo di spezzare la volontà di resistenza dei palestinesi; una tattica per garantire che non ci sia un cambiamento di paradigma nelle dinamiche di rapporti di forza impari.

Attraversando il campo militare di Ofer, a oriente della Cisgiordania, dopo aver superato due posti di controllo, si viene accolti da mura di cemento grigio e da un recinto di filo spinato. I soldati israeliani in divisa sono presenti dappertutto ed ogni movimento che si fa è minuziosamente controllato dalla guardia di turno.

Benché fossimo lì per ascoltare l’udienza di Lina Khattab, era come se anche noi fossimo stati incarcerati. Il padre di Khattab, mentre cammina avanti e indietro fuori dall’aula del tribunale cercando di calmarsi, spiega: “Guardate qui, è proprio come in carcere. Il recinto, la porta con la guardia, non puoi entrare o uscire senza il loro permesso, sei sottoposto al loro arbitrio. E’ esattamente come in una prigione.”

I tribunali sono stati costruiti per ribadire il discorso coloniale, per cui Israele ha il controllo delle vite dei palestinesi sia dentro che fuori dalla prigione. Attraverso questo intricato sistema di tribunali militari Israele cerca di imporre una punizione collettiva sia ai detenuti che ai loro familiari, mettendo tutte le persone coinvolte in una condizione di ansia e di impotenza.

Appena sono inseriti in questo sistema, i palestinesi devono sopportare costanti maltrattamenti, disumanizzazione e umiliazioni da parte della polizia israeliana. Tra il 2009 e il 2014 l’organizzazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem ha registrato 64 testimonianze di palestinesi, 54 dei quali minori, su violenze contro di loro durante gli interrogatori quando sono stati presi nell’ingranaggio del sistema della “giustizia” di Israele.

La stessa Khattab ha testimoniato di maltrattamenti, per cui è stata aggredita verbalmente e fisicamente da agenti israeliani durante la sua detenzione. Non c’è giustizia nei tribunali militari israeliani. Il giudice agisce semplicemente come un simulacro e il pubblico ministero utilizza ogni stratagemma per giustificare l’incarcerazione del detenuto.

I palestinesi, ammanettati, siedono dietro un’area transennata, cercando di decifrare il processo in corso, che si svolge in ebraico. I traduttori forniti dalla corte non sono mai sufficienti, e non si preoccupano molto di tradurre correttamente durante tutta l’udienza. C’è un subdolo rifiuto dell’esistenza dei palestinesi. Al contrario i palestinesi sono costantemente trattati come oggetti e considerati semplicemente come “l’altro”.

Ciò è evidente nel modo in cui il pubblico ministero si rivolge ai detenuti: non li guarda mai negli occhi e usa lo stesso linguaggio per presentare ogni detenuto palestinese al giudice, senza nessuna attenzione alla specifica accusa contro di lui. Il prigioniero è descritto come un delinquente che mette a rischio Israele, uno che non ha un posto nella società perché potrebbe incoraggiare comportamenti violenti – indipendentemente dal fatto che abbia realmente commesso i reati che di cui è imputato.

Di solito in imputazioni come il lancio di pietre o aver partecipato ad una manifestazione, le prove prodotte dal pubblico ministero sono basate su testimonianze di soldati israeliani. Raramente viene indagato se sono accuse vere o false, piuttosto c’è il consueto stratagemma di opporre la loro parola a quella dei palestinesi. Nei tribunali militari israeliani la parola di un soldato israeliano mette in secondo piano le prove presentate.

Va rilevato che Israele è stato creato a partire dal suo esercito e dalla perpetuazione dello sciovinismo.  Di conseguenza, queste testimonianze sono viste come la parola di quelli che proteggono lo Stato e garantiscono la sicurezza di Israele. Mettere in dubbio la loro parola vuol dire mettere in dubbio l’eticità dell’esercito, e quindi riconoscere che il loro sistema  possa essere sbagliato.

Una donna palestinese spiega che “quando loro (l’esercito israeliano) ci hanno arrestati, uno di loro mi ha detto: ‘sto per rovinare la tua vita.’” In seguito è stata arrestata sulla base della testimonianza di un soldato. I soldati israeliani sono ben consapevoli della loro immunità nei tribunali israeliani e, che dicano o meno la verità, la voce dei palestinesi non è considerata attendibile dal tribunale.

Mentre si presenta propangadisticamente alla comunità internazionale dando l’illusione di democraticità e giustizia, Israele continua a rafforzare la sua oppressione nei confronti dei palestinesi, provocandoli in continuazione al fine di sfruttare la costante frustrazione per giustificare la continuazione dell’occupazione.

Che tu abbia 10 o 60 anni, sei una minaccia per lo Stato. Non è un atto per garantire la giustizia, ma un’ulteriore dimostrazione di colonialismo, ideata per spezzare la volontà dei palestinesi. Un tentativo di renderli succubi dello status quo.

Dopo la quinta udienza in tribunale, la famiglia di Lina Khattab è uscita dall’aula del tribunale dicendo: ” Stanno cercando di spezzarla. Vedono il suo sorriso e la sua determinazione a lottare e cercano di spezzarla. Questa non è giustizia, è un tentativo di portarla alla disperazione.”

Tutto ciò è emblematico dell’idea di democrazia da parte di Israele. La routine del sistema dei tribunali militari evoca il ricordo della politica di “spezzare le ossa”, utilizzata durante la prima Intifada in base agli ordini dell’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Lo scopo di quella tattica non era di uccidere i palestinesi, ma di renderli incapaci di continuare qualunque ulteriore azione contro l’occupante – per bloccare i loro sforzi di resistere e ricordargli che sono ancora vivi per concessione dell’occupante.

Mentre l’esercito israeliano colpisce i palestinesi fisicamente, il sistema della giustizia militare israeliana cerca di produrre un effetto simile a livello psicologico, cioè riprogrammando i processi cognitivi dei palestinesi perché cedano al potere dispotico che controlla i territori. I tribunali sono semplicemente una finzione con la pretesa di essere un potere democratico, con giudici puramente simbolici e celle asfissianti. Si continuano a scrivere fogli e a preparare dossier, mentre sempre più palestinesi sono processati da questi tribunali farseschi.

Mariam Barghouti è una traduttrice e scrittrice palestinese della Cisgiordania.

Traduzione di Amedeo Rossi