Gaza-Middle East Eye. Di Maha Hussaini.
Niveen Gharqoud ha visto solo uno dei suoi cinque figli negli ultimi quattro anni. È stata tagliata fuori dagli altri da quando li ha mandati a vivere con il padre, a circa 100 chilometri di distanza, a Qalqilya, una città nella Cisgiordania occupata..
Gharqoud, 39 anni, che vive con i suoi genitori e con il figlio più piccolo a Juhr al-Deek, nel centro della Striscia di Gaza, ha presentato dal 2018 alle autorità israeliane cinque distinte richieste di permesso di uscita nella speranza di riunirsi a suo marito e ai figli in Cisgiordania. Non gliene è stata concessa nessuna.
“Sono passati quattro anni dall’ultima volta che ho visto i miei figli. Prima dormivo con loro in cinque su un letto, e ora non riesco a vederli se non attraverso lo schermo di un cellulare”, ha dichiarato Gharqoud a Middle East Eye.
“È doloroso accettare l’idea che i miei quattro figli si prendano cura di se stessi senza una madre, mentre il padre lavora per la maggior parte del tempo”.
Politica di separazione.
Gli abitanti della Striscia di Gaza assediata hanno bisogno di permessi di uscita da parte delle autorità israeliane per entrare nella Cisgiordania occupata attraverso il confine controllato da Israele a Erez, l’unico valico per le persone che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto dei Territori palestinesi occupati.
Nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni legislative, Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza. Israele ha subito imposto all’enclave costiera un blocco soffocante, limitando il movimento di persone e merci dentro e fuori Gaza, in base a quella che il governo israeliano chiama “la politica di separazione”.
Secondo il governo israeliano la politica mira a limitare i viaggi tra Gaza e la Cisgiordania per evitare il passaggio di “una rete di terroristi” fuori dalla Striscia.
“Anche se il governo israeliano vuole ridurre quello che chiama il passaggio di terroristi nei Territori palestinesi occupati, la sua politica di separazione imposta a oltre due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza è semplicemente una punizione collettiva, proibita dal diritto internazionale umanitario”, ha detto a MEE Mohammed Emad, Il direttore del dipartimento legale dell’organizzazione per la difesa [dei diritti umani] Skyline International for Human Rights, con sede a Stoccolma.
“Tali restrizioni sono imposte ai civili in modo casuale e arbitrario e portano alla separazione di dozzine di famiglie”. Famiglie come i Gharqoud.
Una famiglia divisa.
Niveen ha sposato Sami Gharqoud a Gaza, 18 anni fa. Nel corso del loro matrimonio lui ha svolto vari lavori di manovalanza in Israele.
“Si spostava tra Gaza e la Cisgiordania”, dice Niveen. “Lavorava lì e veniva a trovarmi ogni tanto.
Non ha assistito a nessuna delle nascite dei nostri cinque figli, e non mi ha mai visto incinta se non nelle foto e attraverso le videochiamate”, racconta Niveen a MEE.
“Andavo in ospedale con mia madre, trascorrevo da sola tutto il dolore [del travaglio], partorivo e tornavo a casa. Veniva a trovarci solo dopo il parto di ogni bambino, rimaneva un paio di settimane e poi ripartiva di nuovo per la Cisgiordania”. Ma dall’inizio dell’attuale blocco, Sami ha fatto visita alla sua famiglia a Gaza solo una volta.
“Prima dell’ultima guerra a Gaza [nel 2014] sono andata a trovarlo in Cisgiordania, sono rimasta lì per circa sei mesi e sono rimasta incinta dell’ultimo figlio, Ameer”, racconta Niveen. Questa è stata l’unica volta in cui ho potuto far visita a Sami. Poi sono dovuta tornare a Gaza, perché le [autorità israeliane] mi hanno permesso di portare con me in Cisgiordania solo due dei miei quattro figli. Non mi hanno volutamente consentito di portare tutti e quattro i bambini. Volevano costringermi a rientrare a Gaza. Quindi sono stata obbligata a tornare”.
Sami non ha mai incontrato il suo figlio più piccolo, Ameer, che ora ha sei anni.
Niveen ha cercato di ricongiungersi al marito dalla nascita del loro ultimo figlio, nel 2014, ma le autorità israeliane non le hanno permesso di recarsi in Cisgiordania.
Nel 2016 ha deciso di mandare i suoi figli dal padre, dopo che i suoi parenti e amici le avevano detto che questo l’avrebbe aiutata a ottenere in seguito un permesso di riunificazione familiare.
“Mio padre ha preso i miei quattro figli e ha viaggiato attraverso il confine di Rafah [con l’Egitto] fino alla Giordania. Ma li ha lasciati al ponte Allenby [che collega la Giordania alla Cisgiordania] perché non poteva attraversarlo – la sua carta d’identità dichiara che vive a Gaza, a differenza dei miei figli e del loro padre, i cui documenti indicano che vivono in Cisgiordania.
“Ora non posso mandare Ameer a ricongiungersi con i suoi quattro fratelli. La mia figlia più grande, che ora ha 17 anni, si assume già la responsabilità dei suoi tre fratelli e si prende cura di loro. È ancora una bambina, ma è sommersa da tutte quelle responsabilità”.
I quattro figli di Niveen a Qalqilya vedono il padre appena una o due volte a settimana a causa del suo lavoro e trascorrono il resto della settimana da soli. Ogni volta che hanno bisogno di qualcosa, i bambini chiamano la madre a Gaza.
“Circa due anni fa, mia figlia mi ha chiamato urlando”, ricorda Niveen Gharqoud. “Diceva che dell’acqua bollente era caduta sul viso del fratello minore mentre lei stava cuocendo alcune uova per dargliele da mangiare. Non sapevo cosa fare – ho chiamato la loro vicina e l’ho pregata di andare ad aiutarli.
“Questa non è stata l’ultima volta in cui è successa una cosa del genere”, continua Niveen. “Qualche giorno fa, Malak [la sorella maggiore] mi ha chiamato spaventata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di aprire la porta del loro appartamento. Non ho potuto fare altro che dirle di chiudere bene la porta e di accendere la televisione per fare rumore.
“Ho i numeri dei vicini per le situazioni di emergenza, perché qui io sono impotente, mentre il padre è assente per la maggior parte del tempo”.
Gharqoud spera ancora di riuscire a raggiungere i suoi figli e il marito a Qalqilya, ma dice che le autorità israeliane “non rispondono nemmeno alle mie domande per il permesso di uscita, le lasciano in sospeso”.
Quando un permesso di uscita viene negato o resta sospeso, i palestinesi della Striscia di Gaza devono aspettare tre mesi prima di poter presentare un’altra richiesta.
Una lunga storia di separazioni.
Nel luglio 2003 il parlamento israeliano approvò una legge che impedisce il ricongiungimento familiare dei cittadini israeliani sposati con palestinesi dei Territori palestinesi occupati.
Secondo Amnesty International la legge costituisce un “ulteriore passo nella politica israeliana di lunga data che ha l’obiettivo di limitare il numero di palestinesi a cui è consentito di vivere in Israele e a Gerusalemme est”.
Israele è da tempo criticato per le politiche di separazione dei bambini palestinesi dalle loro famiglie, compresi quelli della Striscia di Gaza che vengono inviati per cure mediche nei Territori palestinesi occupati.
I dati raccolti dalla ONG Physicians for Human Rights Israel (Medici per i diritti umani) hanno rivelato che vengono respinte più della metà delle domande presentate nel 2018 da genitori che cercano di accompagnare i propri figli per cure mediche nei Territori palestinesi occupati.
Nel 2019 circa un quinto dei bambini inviati per cure mediche dalla Striscia di Gaza viaggiò senza i genitori.
Un rapporto pubblicato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha nel 2020 affermava che nell’isolare la Striscia di Gaza e nell’imporre ai palestinesi restrizioni di movimento tra città e villaggi, Israele ha “perseguito una strategia del divide et impera” per ostacolare le possibilità, da parte dei palestinesi, di mantenere unite la vita sociale e familiare.
Le autorità israeliane al momento attuale non hanno risposto ad una richiesta di commento.
Separazione traumatica.
Il figlio più piccolo dei Garqouds, Ameer, accompagnò suo nonno e i fratelli al valico di confine di Rafah quando aveva tre anni. Una volta arrivati al confine, si rese conto che suo fratello più vicino d’età, Muhammed, e altri tre fratelli, se ne stavano andando senza di lui. A differenza di loro, Ameer era troppo piccolo per viaggiare senza un genitore.
“Quando è tornato a casa, era così scioccato che è svenuto”, ha detto Niveen. “Da allora ha tanta paura di essere lasciato solo da non recarsi neppure a scuola.
“Qualche mese fa sono andata al matrimonio di un parente. Quando sono uscita [da casa] Ameer ha iniziato a urlare ed è svenuto, pensando che tutti gli mentissero e che io fossi andata in Cisgiordania abbandonandolo”.
Per evitare di lasciarlo solo a scuola e temendo che la sua ansia possa peggiorare, Gharqoud ora gli impartisce le lezioni a casa.
“Da quando ha visto i suoi fratelli andarsene, è diventato così bisognoso di attenzioni che mi segue ovunque, per assicurarsi che non lo abbandoni”.
“Manca la cucina della mamma”.
“Tua sorella mi ha detto che l’altro giorno non sei andato a scuola, perché?”, Niveen ha chiesto a Muhammed, il figlio di 10 anni, nel corso di una videochiamata.
“Mi sono svegliato, ho cercato i miei pantaloni e non sono riuscito a trovarli, quindi non ho potuto andare”, ha risposto.
“Se avesse una madre al suo fianco questo non sarebbe mai accaduto”, dice a MEE Niveen, seduta nel suo soggiorno.
Con Sami ancora in quarantena dopo essere risultato positivo al coronavirus, Niveen si assicura anche che i suoi figli abbiano fatto pranzo.
“Di solito mangiamo panini o ordiniamo il cibo a domicilio perché non abbiamo nessuno che cucini per noi. Ma Malak a volte chiama mamma e chiede alcune ricette per darci da mangiare”, racconta a MEE Muhammed, 10 anni, il quarto figlio dei Gharqoud.
Niveen dice che evita di inviare foto di riunioni di famiglia ai suoi figli in modo che non si sentano abbandonati o desiderino “cibo che non possono avere”.
“Malak cucina bene”, afferma Muhammed, “ma mi mancano i piatti di mamma, che solo lei sa preparare bene”.
Malak, che ha festeggiato il suo 17° compleanno a febbraio, ha assunto il ruolo di sua madre: tenere sotto controllo gli studi dei fratelli e assisterli nelle loro necessità quotidiane.
“Qualche settimana fa, il suo vicino di casa di 23 anni ha chiesto la sua mano in matrimonio”, riferisce Niveen. “In una situazione normale, non accetterei mai l’idea di permettere a mia figlia di sposarsi a quell’età. Ma dal momento che non ha nessuno che si prenda cura di lei voglio che si senta emotivamente stabile con qualcuno su cui può fare affidamento.
“Inizialmente eravamo d’accordo sul suo fidanzamento, ma Malak rifiuta ancora di accettare finché non potrò unirmi a loro e incontrare il [suo] ragazzo”.
Niveen dice che i suoi figli potrebbero facilmente tornare a Gaza, ma lei si rifiuta di riportarli a vivere lontano dal padre. Non è sicura, nel caso tornassero, che potrebbero ottenere un permesso per ripartire, e il viaggio attraverso la Giordania e l’Egitto è troppo costoso.
“I miei figli stanno crescendo e hanno bisogno del padre nella loro vita. Sono divisa a metà; li voglio qui con me, ma voglio anche che vivano in un ambiente sano con me e il loro padre insieme”, ha confidato a MEE.
“Cosa c’è di così difficile nel permettere a me e a mio figlio di sei anni di riunirci con la nostra famiglia?”
(Foto di Mohammed A. Alhajjar)