Essere donna in Palestina. Intervista con la psichiatra Samah Jabr

PIC. Samah Jabr è una delle rare psichiatre in Palestina. Attualmente è direttrice dell’Unità Salute Mentale che coordina i servizi di igiene mentale in tutta la Cisgiordania, il suo lavoro si estende all’intera comunità palestinese che soffre per l’oppressione e l’occupazione israeliana. Grazie alla sua esperienza di medico e di terapeuta, può testimoniare i maltrattamenti e i traumi subiti dalla popolazione palestinese. Ha accettato di rispondere alle domande di Femmes Plurielles a proposito dell’impatto dell’occupazione sulla vita delle donne.

Che cosa significa, per lei, “essere una donna in Palestina oggi”’?

Nella nostra attuale situazione, la nostra identità palestinese fa di noi dei sospettati, la nostra umanità è annientata, l’oppressione e l’espropriazione portano all’imprigionamento dei nostri uomini palestinesi e alla loro riduzione in schiavitù, tramite lo status di lavoratori negli insediamenti israeliani. Così, le donne palestinesi diventano le custodi del capitale sociale e della rete di rapporti che permette la sopravvivenza di questa comunità frammentata e lacerata di fronte ai traumi subiti. Le donne palestinesi rappresentano la maggioranza degli studenti universitari e una quota significativa della forza lavoro.

La maggior parte delle lavoratrici sono attive nei settori del servizi (sanità e istruzione) così come nel settore agricolo. D’Altronde, l’alto tasso di fertilità delle donne diviene un’arma di resistenza contro la volontà dell’occupazione di eliminarci come nazione su queste terre. Questi ruoli diversi fanno delle donne palestinesi le costruttrici e le custodi della vita umana.

Quali sono le principali difficoltà incontrate dalle donne? Come vengono superate?

Come negli altri Paesi colonizzati, quando i Palestinesi falliscono nella loro opposizione contro le violenze verticali e l’oppressione provenienti dalla potenza occupante, questa violenza e questa oppressione diventano orizzontali. La violenza e l’oppressione, cioè, si esprimono sotto forma di conflitti interni, di regressioni e di violenze domestiche. Le donne, considerate fisicamente e socialmente più deboli, diventano allora le vittime di questi uomini umiliati e di questa comunità in fase di regressione. Nella mia esperienza, vedo spesso donne che soffrono perché traumatizzate, depresse, ansiose.

Sono vittime della violenza basata sul genere, violenza che è in realtà il prolungamento, la conseguenza di un’oppressione strutturale e di una violenza politica. Il miglioramento della salute mentale e la “liberazione psichica” delle donne palestinesi dovrebbe andare di pari passo con gli sforzi per liberare il territorio palestinese. L’emancipazione femminile è una chiave per il progetto di liberazione.

Come psichiatra che esercita la sua professione, quali questioni considera primarie oggi in Palestina?

In Palestina, le ingiustizie, le umiliazioni e i traumi sono costanti e riguardano tutti gli aspetti della vita palestinese, causando danni alla personalità individuale come al sistema dei valori della comunità. Quando visito nella mia clinica donne affette da depressioni legate alle violenze subite, non prescrivo loro un antidepressivo perché diventino indifferenti alla violenza. Al contrario, lavoro con loro perché possano decidere cosa fare agendo sui fattori che le hanno condotte alla depressione. Quando incontro un bambino che è stato abusato, la mia responsabilità etica è quella di informare dell’esistenza dell’abuso e di fare di tutto perché l’abuso sia fermato.

È molto importante anche lavorare sul trauma. Finché l’ingiustizia e l’umiliazione persisteranno, noi medici e psicoterapeuti resteremo soltanto un palliativo. L’occupazione è in effetti un problema di salute mentale oltre che un problema politico. Nel frattempo, cerco di promuovere l’indipendenza e la libertà di spirito delle mie pazienti attraverso l’educazione e la presa di coscienza psicologica. Ma c’è un’altra priorità per arrivare alla “liberazione psichica”: essere finalmente indipendente. Sfortunatamente, senza questo, la gente è costretta a molti compromessi sul proprio spirito e sui propri valori. L’indipendenza è il solo modo di risolvere davvero il problema.

La resistenza e la resilienza sono concetti chiave per i/le Palestinesi di oggi. Perché?

La resistenza dei/delle Palestinesi all’occupazione è un diritto umano legittimo che deve essere rispettato e sostenuto dalla comunità internazionale. Il dovere dei Palestinesi è quello di ripensare e riformare i propri metodi di resistenza per preservare la dimensione morale della loro situazione attuale. Sono convinta che la resistenza abbia un valore umano e terapeutico. Ricorda a una nazione oppressa che essa è ancora viva, con una volontà e una capacità di azione, che i suoi membri non sono semplici ombre o oggetti passivi che si fanno divorare da qualunque forma di aggressione e di umiliazione senza opporre resistenza.

Lo sciopero della fame di circa un centinaio di prigionieri politici palestinesi cui sono negati i diritti umani fondamentali è un esempio di questa sana volontà e capacità di agire. La resilienza è la capacità duratura di un individuo o di una comunità di reagire alle avversità e di utilizzare le proprie risorse per sopravvivere e ridimensionare l’impatto delle crisi sulla propria vita. L’educazione, la fede e i legami familiari sono le risorse e il capitale della resilienza palestinese, che noi chiamiamo Sumud. Quando incontrate dei/delle Palestinesi, non sembrano persone traumatizzate.

Vi parlano dei loro problemi di lavoro, dei loro figli, raccontano dei problemi politici e si vantano della propria cucina. La loro fede nel diritto di vivere decentemente sulla terra dei propri genitori e nonni li aiuta a dare un senso a questo trauma insensato e alle sofferenze politiche, trasformandole in resistenza e resilienza.

Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai cittadini belgi?

Chiedo ai cittadini, ai movimenti popolari, ai rappresentanti del Belgio e del mondo intero di sostenere l’idea che i Palestinesi e gli Israeliani sono uguali, creando una pressione che ponga fine a questa occupazione che nuoce a tutte le parti implicate, che disumanizza l’occupante più dell’occupato, che cancella la sensibilità dell’opinione pubblica internazionale e minaccia la pace mondiale.

Non è lasciando gli Israeliani impuniti dei loro crimini davanti al diritto internazionale che l’Europa si riscatterà delle sue colpa di fronte all’Olocausto. Al contrario, è sostenendo la resistenza e la resilienza palestinese, finché Israele non sia condotto davanti alla giustizia internazionale, che l’Europa e il mondo potranno agire secondo la massima:” Mai più questo!”

Traduzione di Federica Pistono