Due pesi e due misure: i morti palestinesi non contano quanto quelli israeliani

Un
italiano medio, che poniamo legga regolarmente un quotidiano ed ascolti
ogni giorno uno o due telegiornali a diffusione nazionale, potrebbe
essere portato a ritenere che, in questi giorni che precedono le
elezioni palestinesi (25 gennaio), l’unico fatto di rilievo accaduto
nella regione sia stato l’attentato di Tel Aviv del 19 gennaio.
Giovedì scorso, infatti, un palestinese 22enne originario di
Nablus,appartenente alla Jihad islamica, si è fatto esplodere nei
pressi della vecchia stazione degli autobus a Tel Aviv, provocando una
trentina di feriti di cui, tuttavia, solo uno versa in gravi condizioni.
Come sempre accade in questi casi, tutti i quotidiani del mattino
successivo hanno riportato con grande risalto la notizia, che già era
stata ospitata il giorno prima nei servizi di apertura dei principali tg di prima serata.
Altrettanto naturalmente, a livello internazionale, vi è stata la corsa
per dichiarare l’unanime sdegno e la condanna per l’ennesimo atto
terroristico.


Così, il giorno stesso, il Segretario Onu Kofi Annan ha inviato
le sue più profonde condoglianze al Governo e al popolo di Israele; così,
sempre nella stessa giornata, il portavoce della Casa Bianca Scott
McClellan ha condannato "questo atroce attacco" nella maniera
più forte, richiamando ancora una volta l’Anp al suo "dovere"
di smantellare le infrastrutture del terrorismo. Prima e dopo questa
fatidica data del 19 gennaio, prima e dopo
questo "atroce attacco", il silenzio più assoluto: non è
quindi accaduto nulla di importante? Non proprio.
La stessa sera del 19 gennaio, le forze di occupazione israeliane,
posizionate vicino alla colonia di Tilim, a sud di Hebron (West Bank),
hanno ucciso il 20enne Ziad Zohour, impedendo alle ambulanze di
raggiungere il corpo del palestinese (WAFA, 19 gennaio ore 21:07).
Sabato, 21 gennaio, soldati dell’Idf hanno aperto il fuoco contro tre
palestinesi che, dalla Striscia di Gaza, cercavano di entrare
illegalmente in Israele per cercare lavoro, uccidendone uno e
ferendo gli altri due (Ha’aretz, 22 gennaio); in un analogo
"incidente", il 2 dicembre del 2005, era morto il 15enne Sayid
Abu Libdeh.
Domenica sera, 22 gennaio, un elicottero israeliano ha lanciato un
missile contro un veicolo civile nei pressi del valico di Karni, a est
di Gaza, uccidendo un palestinese e ferendone altri sette; l’attacco era
mirato a colpire alcuni esponenti delle Brigate Salah ed-Din (l’ala
militare dei Comitati di resistenza popolare), e
tuttavia l’unica vittima, l’incolpevole Mohammad Abdul-Al, non era
affatto affiliato ad alcuna organizzazione della resistenza palestinese
(IMEMC, 23 gennaio).
Lunedì sera, 23 gennaio, soldati israeliani dell’unità di
fanteria Golani hanno aperto il fuoco contro un gruppo di ragazzini nel
villaggio di Al Mogheer, vicino Ramallah (West Bank), uccidendo il
13enne Mundal Abu-Aliya e ferendo altri due minorenni, avendoli
scambiati per dei militanti che volevano piazzare un ordigno
esplosivo lungo la strada (Ha’aretz, 24 gennaio).
In accordo alle statistiche ricavabili dal sito web della Mezzaluna
Rossa, dal 19 al 23 gennaio sono stati uccisi 5 palestinesi e 14 sono
rimasti feriti, portando il totale delle perdite palestinesi,
dall’inizio della seconda Intifada, alla ragguardevole cifra di 3.787
morti e di 29.395 feriti (le analoghe cifre riguardanti gli
israeliani ammontano rispettivamente, alla data del 15 gennaio, a 1.084
e a 7.633).
Eppure di tutto questo, di questi ennesimi crimini perpetrati
dall’esercito israeliano, nessun notiziario ha dato conto, nessun
periodico della carta stampata ha riportato la notizia sia pure in un
breve trafiletto, e non ho avuto il piacere di vedere Filippo Landi o
Claudio Pagliara, con annessa faccia da lutto di circostanza, comparire
in video per raccontare l’ennesimo assassinio di palestinesi innocenti.
Né, in sede internazionale, si è potuta registrare una sola nota
ufficiale di biasimo o di condanna, nessun invito rivolto ad Israele a
tenere stretto il guinzaglio dei cani assassini di Tsahal (pardon, a
evitare di recar danno alla popolazione civile palestinese).
Ma per registrare il fatto più grave dobbiamo fare un passo indietro e
tornare ad una decina di giorni fa.
Domenica 15 gennaio, nel villaggio di Roujib, vicino Nablus (West Bank),
il 21enne Fawazi Dwaikat verso le 2:30 del mattino era ancora in piedi,
e stava di guardia alla propria casa e all’automobile, a
causa della rivalità scoppiata tra la propria ed un’altra famiglia del
villaggio, rivalità che aveva dato luogo ad alcuni incidenti e
danneggiamenti.
All’improvviso, truppe israeliane della Brigata Shomron sono piombate
nel villaggio e, visto il giovane affacciato alla finestra, hanno aperto
il fuoco uccidendolo.
Nei successivi, terribili istanti, gli altri membri della famiglia sono
accorsi per vedere cosa fosse successo e per soccorrere Fawazi, ma
anch’essi sono rimasti vittime del fuoco assassino dei militari
israeliani: la madre, la 47enne Nawal Dwaikat, è stata colpita a morte,
il padre, il 52enne Munjed Fawaz Dwaikat, è stato ferito
gravemente da quattro pallottole al torace, mentre altri tre fratelli e
sorelle di Fawazi sono rimasti anch’essi seriamente colpiti (PCHR press
release, 15 gennaio ore 10:30 – Ha’aretz, 15 gennaio).
Il colonnello Yuval Bazak, comandante della Brigata, ha dichiarato in
seguito che i soldati israeliani avevano aperto il fuoco legittimamente,
poiché erano stati fatti oggetto di colpi di fucile provenienti da tre
differenti luoghi dell’edificio.
Versione assolutamente ridicola, per due motivi: il primo, perché la
successiva perquisizione della casa ha fatto saltar fuori solo un
fucile, e dunque, a meno che il povero Fawazi non avesse il dono
dell’ubiquità, egli non poteva sparare contemporaneamente da tre stanze
differenti; il secondo, assolutamente decisivo, è che Fawazi
è stato assassinato in una stanza in cui la luce era accesa, ed è
chiaro che chi cerca di tendere un agguato a qualcuno non sta certo in
una stanza ben illuminata ed in vista.
Ma anche a voler dar credito alla versione israeliana, risulta comunque
l’ennesima grave violazione delle norme di diritto umanitario, che
impongono la salvaguardia della popolazione civile nel corso dei
combattimenti, e non consentono certo di massacrare a piacimento intere
famiglie.
A proposito, le autorità israeliane hanno aperto un’inchiesta
sull’accaduto, affidandola proprio al colonnello Bazak: un’inchiesta su
un assassinio affidata al capo degli assassini, fantastico!
Di tutto questo nessuna notizia, nessun resoconto dai media, nessuna
presa di posizione dell’Onu, del Quartetto o di qualche Governo
occidentale, il silenzio più totale, come se nulla fosse accaduto o si
trattasse della banale quotidianità della vita nei Territori occupati,
un fatto assolutamente "normale".
Ma no che non è "normale"!
Non è "normale" che l’esercito israeliano compia
quotidianamente razzie e incursioni all’interno dei Territori
palestinesi, devastando e uccidendo impunemente.
Non è "normale" che, all’alba di una qualunque domenica,
un’intera famiglia debba essere praticamente annientata, senza alcun
motivo e alcuna colpa.
Non è "normale" che una povera madre palestinese di 47 anni
debba essere uccisa per aver tentato di soccorrere il proprio figlio, e
debba giacere sul tavolo di un obitorio con il corpo crivellato da
ben 15 (quindici!) pallottole.
Un tempo avevo fiducia nella coscienza civile del popolo israeliano, un
tempo avrei pensato che crimini come questo avrebbero contribuito a
risvegliare le coscienze, a imporre la punizione dei colpevoli, a
promuovere lo stop dei raid assassini e il ritiro delle truppe di Tsahal
dai Territori palestinesi.
Oggi, tuttavia, gli israeliani sono capaci di restare scioccati soltanto
per la devastazione di qualche uliveto ad opera dei coloni, mentre,
contemporaneamente, il legislatore della Knesset appronta provvedimenti
legislativi che inibiscono i palestinesi residenti nei Territori
occupati dal poter citare in giudizio lo Stato israeliano
per le uccisioni, i ferimenti e le devastazioni compiute dai soldati e
dalle forze di sicurezza (Human Rights Watch, world report 2006).
Ma questa mia fiducia nella coscienza collettiva israeliana è morta già
da tempo, con l’assoluzione dell’assassino della piccola Iman al-Hams.
Iman era una palestinese di 13 anni che il 5 ottobre del 2004 stava
andando a scuola a Rafah e che, lungo la strada, era stata ferita da
colpi d’arma da fuoco provenienti da una postazione dell’unità di elité
(!) Givati; mentre era a terra, il comandante dell’unità, il Capitano
R., le si era avvicinato e l’aveva liquidata con un colpo
alla nuca, per poi scaricarle nel corpo un totale di ben 17 pallottole:
un atto atroce che forse neanche le Waffen ss in tempo di guerra
avrebbero compiuto.
Il successivo processo – nel quale il Capitano R. era chiamato a
rispondere di reati minori come l’uso illegale delle armi e l’ostacolo
alla giustizia – ha mandato assolto l’assassino della povera Iman, che
peraltro era già stato "assolto" dal Capo di Stato Maggiore
israeliano Ya’alon, che non aveva trovato nulla di "immorale"
nella condotta del valoroso soldato.
E di crimini come questo, dell’assassinio di Iman al-Hams e di Nawal
Dwaikat come di quello di tanti altri palestinesi inermi ed innocenti,
il popolo israeliano porta su di sé la piena responsabilità morale e
un giorno sarà chiamato a risponderne, non foss’altro che davanti al
tribunale della Storia.
Secondo l’ong israeliana B’tselem, i palestinesi uccisi dall’esercito
israeliano nel corso del 2005 sono stati 197, di cui 54 minorenni; tra
questi ben 124, al momento della morte, non partecipavano ad alcun
combattimento: per quasi il 63% dei casi, dunque, si tratta di
assassinii a sangue freddo, assolutamente
barbari ed illegali.
La stessa percentuale, relativa al periodo 29.9.2000 – 31.12.2005, sale
addirittura al 70%, laddove si consideri che dei 3.386 palestinesi
uccisi da Tsahal (676 minori di 18 anni), soltanto 1.008 sono stati
uccisi in combattimento.
Secondo Human Rights Watch, le autorità israeliane hanno avviato
indagini criminali solo per meno del 10% dei casi di uccisioni di civili
palestinesi nei Territori, e soltanto in un caso si è avuta una
condanna a otto anni di reclusione per una uccisione illegale, emessa a
carico dell’assassino del pacifista inglese Tom Hurndall,
avvenuta a Gaza nel 2002: si può quasi considerarla un
"riguardo" nei confronti dell’amico Blair!
Il vero è che Israele mantiene costante la sua politica di investigare
sulle uccisioni di palestinesi solo in presenza
di "circostanze eccezionali", circostanze che mai, tuttavia, né
Tsahal né il Governo israeliano hanno inteso precisare: è chiaro che,
in tal modo, si conferisce ai soldati dell’Idf una vera e propria
licenza di uccidere, garantita dalla più totale impunità.
Parafrasando Massimo Fini, "se la differenza fra guerriglia e
terrorismo sta nel fatto che nella prima l’atto violento è diretto
contro obiettivi militari mentre il secondo colpisce indiscriminatamente
militari e civili", allora possiamo senz’altro definire gli atti
criminosi dell’esercito israeliano come espressione di un vero e proprio
"terrorismo di Stato".
Con la differenza che il "terrorismo di Stato" israeliano è
molto più letale e devastante del terrorismo kamikaze palestinese.
Con la differenza che, mentre Stati Uniti e Ue minacciano di
interrompere gli aiuti economici all’Anp qualora Hamas assuma un ruolo
attivo nel futuro Governo palestinese, nessuno si sogna lontanamente di
interrompere l’imponente flusso finanziario americano che sostiene
Israele, né di mettere in discussione i rapporti commerciali
privilegiati attualmente in vigore.
Con la differenza che, mentre del terrorismo palestinese si parla sempre
e con grande risalto, del "terrorismo di Stato" israeliano non
viene mai fatto alcun cenno e viene negata ogni minima informazione.

Vittorio
(da Al Awda-Italia)

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