Economia palestinese: il settore privato.

 
Economia palestinese: il settore privato
Sam Bahour e Iyad Joudeh, Arab News, 1 Agosto 2007
 

La Striscia di Gaza e la West Bank, compresa Gerusalemme Est, sono terre occupate da Israele che hanno portato disperazione a tutti. Il capitolo più recente di questa storica saga è stata la conquista di Gaza da parte dei militanti di Hamas. Mentre il mondo si interroga su come gestire questo ultimo episodio una cosa è sicura,  il Giugno del 2007 passerà alla storia come un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese. Se questo punto di svolta porterà seri miglioramenti verso una reale stabilità nella regione può essere stabilito solo se i donatori cambieranno atteggiamento nel loro sostegno ai Palestinesi, e solo se la comunità internazionale affronta i perduranti limiti posti da Israele allo sviluppo palestinese. In questa analisi dovrebbe essere posto in primo piano il settore privato, che è la sola area in cui uno sviluppo sostenibile può essere realizzato. Come tale, una porzione di ogni donativo dovrebbe andare a sostenere il settore privato palestinese.

 Il Primo Ministro uscente britannico, Tony Blair, non ha sprecato tempo nel farsi assegnare un nuovo incarico — inviato speciale in nome di ciò che viene chiamato il Quartetto del Medio Oriente, un gruppo composto da USA, Russia, UE, e le Nazioni Unite. Non avrebbe potuto scegliersi una sfida più grande, o un conflitto più volatile, o un periodo più delicato. E’ recente nella memoria di tutti il fallimento dell’ultima persona che ricoprì l’incarico, l’ex presidente della Banca Mondiale James Wolfensohn. Wolfensohn era una persona di statura internazionale, senza la macchia del fiasco della guerra in Iraq, una persona pratica e alla mano, che cominciò ad occuparsi del conflitto con spirito missionario per interrompere lo stallo nello status quo e mettere le cose in movimento per ridare vita all’economia palestinese. Ci volle appena un anno perché Israele marginalizzasse e rendesse frustrato Wolfensohn che si dimise nell’umiliazione. La strada che Blair deve fare è decisamente in salita, ma vi sono delle opportunità da cogliere se si adotta un nuovo approccio, basato sulla sostenibità e non solo la sopravvivenza dei Palestinesi.

 Da quando l’occupazione della Striscia di Gaza e della West Bank è iniziata oltre 40 anni fa, Israele ha sempre sistematicamente legato l’economia dei territori occupati alla sua. Prima degli Accordi di Pace di Oslo, questo legame forzato era estremamente evidente nelle restrizioni poste da Israele alle attività d’affari palestinesi e nel suo controllo sulla libertà di movimento della forza lavoro palestinese. Per quasi un decennio prima di Oslo, Israele ha rilasciato permessi di lavoro a decine di migliaia di lavoratori palestinesi per permettere loro di entrare in Israele e trovare lavoro. La manodopera palestinese era impiegata in Israele nel settore delle costruzioni, dell’agricoltura, negli alberghi e cose del genere. Trattati come manodopera di seconda classe, i lavoratori palestinesi erano esposti a condizioni di lavoro che permettevano alle attività israeliane di beneficiare dei bassi salari, senza dover applicare le normative sul lavoro vigenti in Israele. Molti lavoratori palestinesi sono finiti persino a lavorare nella costruzione degli insediamenti illegali israeliani che stavano minacciando l’esistenza delle comunità palestinesi. Per i Palestinesi, l’essere pronti al lavoro ovunque, sotto l’occupazione israeliana, era una questione di sopravvivenza.
 
Le autorità di occupazione israeliana hanno anche posto tasse sulla popolazione occupata ed usato una porzione di queste tasse per inondare le aree palestinesi di infrastrutture e merci. Ciò ha creato ulteriore dipendenza palestinese sull’economia dell’occupante.
  
In violazione degli obblighi previsti dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, i firmatari di questa Convenzione chiave — compreso USA, Gran Bretagna e Russia (la ex URSS) — hano permesso a Israele, la forza occupante, di creare una strutturale dipendenza economica dell’economia palestinese, mentre allo stesso tempo applicava un labirinto di restrizioni sulla capacità palestinese di dar vita ad una funzionale economia autonoma. Invece di esigere da Israele il rispetto del diritto internazionale, queste nazioni, ed altre, hanno continuato a registrare, anno dopo anno, le violazioni israeliane al diritto internazionale, mentre contemporaneamente pagavano la maggior parte dei costi dell’occupazione.

Quando gli Accordi di Pace di Oslo vennero firmati nel 1993, ci fu una riorganizzazione economica a cui si diede il nome  di Protocollo Economico di Parigi. E proprio come gli stessi accordi di Oslo lasciavano intatto il controllo finale da parte di Israele su tutti gli aspetti chiave dell’economia palestinese, il Protocollo Economico di Parigi istituzionalizzava l’interesse economico dell’occupante in questo accordo bilaterale con i Palestinesi.

Dopo gli accordi di Oslo il ruolo degli stati donatori nel finanziare lo "sviluppo" palestinese si trasformò in una sottoscrizione internazionale all’occupazione israeliana, riducendo, e molte volte annullando, i costi sostenuti da Israele per l’occupazione. In breve, che se ne rendessero conto o no, i fondi dei donatori acquisirono un ruolo complice nel determinare la situazione sotto i nostri occhi oggi.

 
Per lo più il settore privato palestinese è un fenomeno recente. Dal 1967 fino agli accordi di Oslo la comunità degli affari era ridotta e strettamente connessa ai fornitori israeliani, i soli ammessi ad avere un contatto con la comunità palestinese. ll numero di ditte palestinesi private era basso e di ridotte capacità. Non si pensava a produrre per l’export date le restrizioni e i limiti posti dagli Israeliani. Nondimeno, gli embrioni di un’attività economica privata, capace di mantenere se stessa mentre il mondo guardava dall’altra parte, divennero le fondamenta sulle quali la comunità degli affari palestinese si strutturò.

Con l’avvento degli Accordi di Pace di Oslo il settore privato palestinese prese una dinamica nuova, assai più complessa. Una manciata di società di investimento vennero stabilite per facilitare un flusso di capitali dentro l’economia. Con la nuova speranza che il processo di Oslo potesse terminare con la fine dell’occupazione israeliana, molti Palestinesi vennero a lavorare in Palestina, il che introdusse nel mercato nuove competenze ed esperienze. Questa nuova classe professionale aveva una visione globale e differenti know-how, dato che proveniva da tutti gli angoli del pianeta, dove
la Diaspora palestinese si era dispersa.

Appena le ditte del settore privato cominciarono ad operare — la prima compagnia palestinese di telecomunicazioni, nuovi alberghi, e un settore della tecnologia dell’informazione — gli studenti palestinesi hanno iniziato a concentrarsi sul nuovo insieme di capacità necessarie per l’assorbimento nel mercato del lavoro. L’economia palestinese, sebbene piccola, era in rapida trasformazione, muovendosi da pratiche tradizionali a quelle moderne, da una base agricola ad una basata sui servizi e sull’esportazione.

 
Appena le nuove società hanno iniziato a capire che avevano interessi e problemi comuni, specialmente per quanto riguardava i rapporti con l’Autorità Palestinese di recente formazione, così come le perduranti limitazioni poste dall’occupazione israeliana, si iniziarono a creare associazioni imprenditoriali. La maggioranza di queste erano create secondo una dinamica che saldava soggetti dei settori esistenti e know-how con i nuovi arrivati che giungevano da una differente posizione vantaggiosa ad un’economia in sviluppo. Altre associazioni ancora portarono compagnie e persone a riunirsi per la prima volta per stabilire settori nuovissimi in Palestina, come l’Associazione per l’Information Technology Palestinese. Tutto questo ridefinì il baricentro palestinese sullo sviluppo economico e la dinamica degli interventi dei donatori che stavano guidando la gran parte delle attività d’affari.

Nonostante che il denaro dei donatori fosse il combustibile che permetteva all’economia palestinese di farsi strada, i donatori non videro mai nello sviluppo del settore privato un’alta priorità per la costruzione di una funzionale società palestinese. I donatori assistirono la creazione di associazioni di settore e fornirono assistenza a livello delle singole ditte, in qualche misura, ma non ci fu mai un approccio strategico al settore privato. Molti nella comunità internazionale furono svelti a criticare il numero crescente di dipendenti pubblici palestinesi, ma pochi o nessuno ebbe la lungimiranza di vedere che un forte settore privato palestinese era la sola maniera di fornire un’alternativa al pubblico impiego.

 
La comunità internazionale seguì collettivamente e presto la politica di separazione adottata da Israele, che venne pubblicamente dichiarata in un discorso dell’ultimo Primo Ministro israeliano Ariel Sharon tenuto ad una conferenza a Herzliya il 18 Dicembre 2003. L’allora Primo Ministro Sharon disse: "Se non progrediamo verso la pace in un periodo di mesi, allora Israele inizierà un percorso di disimpegno unilaterale dai Palestinesi". Questa politica di separazione unilaterale si materializzò immediatamente in una drastica riduzione di manodopera palestinese ammessa all’interno di Israele, dai più di 160.000 lavoratori dei primi anno 90 ai circa 20.000 nel 2003. Funzionari israeliani resero pubblico che intendevano ridurre a zero il numero di lavoratori palestinesi in Israele per il 2008. Mentre l’indicazione più visibile che Israele stava cambiando marcia era l’accelerazione nella costruzione della Barriera di Separazione sulle terre della West Bank, ci sono aspettative realistiche che il concetto di separazione si materializzi presto in molte altre aree come la salute, il commercio, i servizi bancari, le telecomunicazioni, i trasporti e molto altro ancora. Nell’assenza di alternative strategiche, l’implementazione israeliana della separazione unilaterale può solo condurre al collasso totale del nascente ma già esausto settore privato palestinese.
 
Mentre Israele andava avanti con i bulldozer il settore privato palestinese si piegava e subiva il colpo maggiore del martellamento israeliano sulla comunità palestinese. Essendo per lo più gestito fuori dal paradigma dello sviluppo, il settore privato palestinese era abbandonato a se stesso nel trattare con lo sforzo israeliano di mettere in ginocchio la società palestinese. Dopo essere stato legato strutturalmente al mercato israeliano per decenni, la decisione di Israele di separarsi unilateralmente dai Palestinesi arrivò in un momento di massima instabilità. L’eliminazione della manodopera palestinese impiegata in Israele fece fare in 24 ore un salto al tasso di disoccupazione nella West Bank e nella Striscia di Gaza.
 
Il furto di terra realizzato con il Muro di Separazione ha separato i contadini dalle loro terre, causando enormi tensioni sull’agricoltura palestinese. L’esercito israeliano e le azioni politiche per indebolire il nascente ‘governo’ centrale palestinese ha fatto precipitare l’economia in caduta libera. Con le condizioni economiche e di sicurezza che diventavano intollerabili, l’emigrazione palestinese, o il desiderio di emigrare, ebbero un picco. I Palestinesi tennero elezioni nella speranza di rimettere le cose in carreggiata. Come risposta ai risultati elettorali, Israele ha messo in atto una politica di divieto d’accesso agli stranieri, Palestinesi o no, che ha costretto molti lavoratori a lasciare il paese ed ha assestato un serio colpo al settore dell’educazione, che ha impiegava molti stranieri. L’elenco delle azioni israeliane per indebolire la società israeliana è lungo e variegato, e con un chiaro proposito: bloccare lo sviluppo palestinese ed impedire l’autonomia palestinese, economica o di altro genere. Ora, a seguito degli eventi della Striscia di Gaza del mese scorso, speriamo che la comunità internazionale ha compreso una lezione chiave: che il ruolo del settore privato palestinese nello sviluppo sostenibile non è uno spettacolo collaterale, ma piuttosto la sola concreta piattaforma che può creare una funzionale società palestinese. In media, i donatori hanno versato 350-450 milioni all’Autorità Palestinese tra il 1994 e il 2000. Dal 2001 al 2007, la media è stata intorno ai 650 milioni all’anno. La somma supera i 7 miliardi di dollari, la quota procapite più alta del mondo, se si fa eccezione per Israele che è sussidiato pesantemente dagli USA. Di questi fondi, meno del 5% sono stati investiti nello sviluppo del settore privato. Anche con questo misero sostegno dei donatori il settore privato ha dato prova di determinazione sfidando la crisi. Le conquiste del settore privato palestinese si incontrano in ogni settore e molti semi di una stabile economia sono stati piantati, ma ora hanno bisogno di essere coltivati. I settori economici produttivi sono stati organizzati, le compagnie hanno sviluppato l’esperienza per resistere alle crisi, ed è stata assimilata una maggiore comprensione delle limitazioni della crescita economica sotto l’occupazione israeliana.
Della parola "funzionale" è stato fatto uso e abuso nel tentativo di definire come uno stato palestinese dovrebbe essere. Persino il nuovo interesse del Presidente Bush a realizzare uno stato palestinese si presenta con la specificazione che esso sia "funzionale". Che cosa significa "funzionale" in Palestina? La funzionalità di ogni futuro stato palestinese deve riguardare il contesto del settore privato, quello che può creare reali opportunità di lavoro, sviluppare prodotti competitivi e servizi per il mercato locale, come anche per l’esportazione. Il settore privato palestinese deve ess
ere capace di assorbire i laureati dell’università, mentre stabilisce il carattere basato sulla conoscenza della nostra economia, mentre assorbe le decine di migliaia di lavoratori dell’edilizia che Israele ha all’imporvviso reso disoccupati dopo averli costretti a dipendere per decenni dall’economia israeliana.
 
Uno sviluppo funzionale deve essere visto attraverso lenti differenti da quelle dell’assistenza. Il 7 Dicembre 2006 dodici agenzie ONU insieme a 14 ONG che operavano nei Territori Occupati palenstinesi hanno lanciato un appello di emergenza per 453,6 milioni di aiuti per far fronte agli accresciuti aiuti umanitari palestinesi previsti per il 2007. Questo è il maggiore appello per un’emergenza dell’assistenza umanitaria mai lanciato nei territori occupati della Palestina e il terzo nel mondo per ordine di grandezza. Il contesto in cui questo appello maturava fu riassunto da Kevin Kennedy, il coordinatore degli aiuti umanitari dell’ONU a Gerusalemme che disse: "Due terzi dei Palestinesi nella West Bank e nella Striscia di Gaza ora vivono in povertà. Un crescente numero di persone sono incapaci di soddisfare i propri bisogni alimentari quotidiani e le agenzie riportano che servizi di base some la salute e l’istruzione si stanno deteriorando e peggiorano ulteriormente". Tutto ciò prima degli eventi del mese scorso a Gaza, che hanno solo esacerbato la crisi umanitaria.
Senza un orizzonte politico con gli Israeliani, e dopo aver sofferto lo schock degli eventi di Gaza e del loro squallido seguito, il settore privato a Gaza non deve essere dimenticato in questo momento cruciale. Gisha, un centro legale israeliano per la Libertà di Movimento, ha appena diffuso dati impressionanti sull’economia di Gaza, dopo la presa del potere da parte di Hamas. In base ad essi: "il 75% delle fabbriche di Gaza sono state chiuse per via del blocco delle frontiere. Il resto delle fabbriche stanno operando al di sotto delle proprie capacità, a tempo determinato, fino ad esaurimento delle scorte"

L’85% dei residenti di Gaza è già dipendente dagli aiuti per il cibo — e il numero sta crescendo.

Vi è una seria mancanza di materie prime, incluso farina e zucchero per consumo familiare e industriale, e i prezzi delle materie prime sono saliti dal 15% al 34%.

Approssimativamente 30.000 lavoratori manifatturieri sono sul punto di perdere il lavoro (i dipendenti dell’industria costituiscono il 10% della forza lavoro a Gaza, e in media, ogni lavoratore sostiene una famiglia di sette persone. A Gaza la disoccupazione ha raggiunto il 35%).

 
Israele ha cancellato dai suoi computer i codici di dogana usati per identificare le merci in entrata a Gaza, e ha emesso ordini per non consentire alcuna importazione all’interno di Gaza, con l’eccezione degli aiuti umanitari, come le donazioni di cibo, medicine ed equipaggiamento medico".

Gisha conclude, "Questa politica sta distruggendo il settore dell’iniziativa privata, creando un nuovo regime assistenziale a Gaza, e trasformando un numero crescente di abitanti di Gaza in soggetti dipendenti dalle agenzie di assistenza internazionale e dalle istituzioni di carità religiose".

A oggi l’87% dei residenti di Gaza vivono sotto la soglia di povertà. L’opportunità di guadagnarsi da vivere con dignità e di costruire una società che funziona normalmente sta sparendo. Secondo il Presidente dell’Associazione degli Industriali d’Israele, Shraga Brosh, "Il boicottaggio della Striscia di Gaza… avrà come risultato un disastro umanitario, alimentando incendi e conducendo al deterioramento della situazione della sicurezza — una situazione che sarà distruttiva per l’economia israeliana".

 
La situazione è volatile. La politica interna palestinese è posta sotto i riflettori come se la protratta occupazione militare israeliana fosse un fattore irrilevante nel creare le condizioni di un collasso della società palestinese. La comunità dei donatori ha una responsabilità storica verso i Palestinesi, specialmente dopo tanti anni di osservazione da lontano dell’occupazione israeliana, ed un decennio di pagamento dei conti di Israele mentre le azioni di Israele continuano senza freno. La sfida per i donatori oggi è trasformare l’assistenza ai Palestinesi in assistenza sostenibile, uguale per priorità rispetto all’assistenza umanitaria, ma sostenibile nel senso di creare un ambiente che permetta al settore privato di assumere il suo ruolo fondamentale di fondamenta di un futuro stato.

Sam Bahour dirige Managing Partners of Applied Information. Iyad Joudeh dirige Solutions for Development Consulting. Entrambi operano a Ramallah.  

 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Arab News e viene ripubblicato col permesso dell’autore.
 

Tradotto dall’inglese da Gianluca Bifolchi, un membro di  Tlaxcala  (www.tlaxcala.es), la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft per ogni uso non-commerciale : è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne l’autore e la fonte.

 

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