Effetto “primavere arabe”: la Libia sta per implodere

109559621Di Nicola Nasser. Globalresearch.ca. A quasi tre anni dalla “rivoluzione” del febbraio 2011, la crisi della sicurezza si aggrava ogni giorno di più, minacciando la Libia con un’implosione che può realisticamente far parlare di rischio dell’unità geopolitica del Paese arabo nordafricano, divenendo una crisi sostanziale. Chiaramente, lo status quo è insostenibile.

Lo scorso 10 ottobre Patrick Cockburn ha scritto sul britannico Independent che “due anni dopo la cattura e l’uccisione del leader libico Muammar Gheddafi, la Libia sta per implodere”.

L’industria petrolifera libica è diventata il bersaglio di violenti attacchi e di proteste civili, che hanno portato alla chiusura dei terminali d’esportazione a est e a ovest, dando vita al mercato nero del petrolio. Le “Guardie della sicurezza” nei porti principali sono in sciopero, e vendono il petrolio per conto loro malgrado il 67% delle vendite dovrebbe essere riservato agli stipendi degli impiegati del settore al 31 ottobre scorso. Il ministro libico del petrolio, ‘Abdulbari ‘Ali al-Arousi, aveva spiegato al Financial Times, lo scorso 29 aprile, che le interruzioni nella produzioni e nell’esportazione del petrolio erano costate al Paese circa 1 miliardo di dollari nei soli 5 mesi precedenti.

L’11 novembre scorso la Reuters ha comunicato che i dimostranti hanno chiuso l’oleodotto delle esportazioni verso l’Italia – unico cliente – nel complesso di Mellitah, circa a 100 chilometri a ovest di Tripoli. Il giorno prima la Reuters aveva segnalato che l’auto-proclamatosi governo autonomo della Cirenaica aveva fondato una ditta regionale denominata “Lybia Oil and Gas Corp”, per vendere il petrolio indipendentemente dopo essersi impadronito di molti porti nell’est del Paese, dove i più importanti porti petroliferi (Sidra e Ras Lanuf) erano bloccati dai manifestanti.

La Libia è il maggiore fornitore singolo dell’Europa. Tagliare i rifornimenti verso l’Europa alla vigilia di un inverno che si prevede molto rigido può essere un ottimo pretesto per invitare un intervento militare europeo nel Paese, la qual cosa sarebbe l’unica possibilità di sopravvivenza rimasta al governo provvisorio del primo ministro ‘Ali Zeidan. Vale la pena osservare che, mentre la missione Onu di supporto in Libia non può essere di alcun aiuto, la Francia, l’Italia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, che hanno capeggiato la campagna della Nato di rovesciamento del precedente regime, l’8 novembre scorso, in una dichiarazione congiunta, hanno espresso la loro preoccupazione sull’”instabilità in Libia e sulla minaccia che essa rappresenta alla transizione verso la democrazia”, e hanno sottolineato il loro appoggio “alle istituzioni politiche elette”, ossia al governo di Zeidan.

Ironicamente, lo scorso 10 novembre Zeidan aveva avvisato i suoi compatrioti di un possibile “intervento di forze esterne” per proteggere i civili, in base al capitolo 7 dello statuto delle Nazioni Unite, in quanto “la comunità internazionale non può tollerare uno Stato del Mediterraneo centrale che sia fonte di violenza, terrorismo e assassinii”: la qual cosa fu lo stesso pretesto per l’intervento militare della Nato, che contribuì a creare, o che creò tout court, la crisi della sicurezza innanzitutto distruggendo le infrastrutture militari e di polizia del governo centrale, e trasformando il Paese in uno sponsor del terrorismo regionale in generale, e in’esportatore di armi e di jihadisti verso la Siria in particolare.

Gli avvertimenti di Zeidan a un intervento esterno possono anche essere interpretati come un’implicita minaccia di richiesta di aiuto per governare in situazioni di insicurezza, nel caso il Paese dovesse implodere.

Lo scorso 30 agosto Forbes segnalò che la “protezione energetica” libica stava venendo meno, e citò Zeidan dicendo che il suo governo avrebbe “imposto l’ordine con la forza” se si fosse trattato di difendere il petrolio e l’industria del gas, e che le guardie petrolifere erano state incrementate, arrivando a 18 mila membri. Ma i suoi sforzi e le sue minacce non hanno fatto da deterrente negli attacchi agli oleodotti, alle raffinerie e ai terminali dell’esportazione, e a inizio settembre egli ha minacciato di bombardare da mare o da terra qualsiasi petroliera che fosse entrata nelle acque territoriali libiche illegalmente.

La Libia è il secondo maggior produttore di petrolio in Africa e il quarto maggior fornitore di gas del continente, ed essa domina il settore petrolifero del Mediterraneo meridionale. Secondo la Corporazione nazionale libica del petrolio, oltre 50 compagnie internazionali di petrolio erano presenti in Libia prima della “rivoluzione”. Il potenziale del paese è molto promettente: l’austriaca Omv ha dichiarato il 21 ottobre scorso di aver fatto un buon investimento con il rinvenimento di nuovi giacimenti dal 2011. Lo scorso 18 ottobre Paolo Sciaroni, l’amministratore delegato dell’Eni – il maggior partner straniero della Libia –  ha dichiarato che tutto andrà economicamente bene in Libia: “Cinque milioni di persone e due milioni di barili al giorno significano che questo Paese può essere un paradiso, e dubito che i libici non vogliano cogliere quest’occasione per divenire la nuova Abu Dhabi, il nuovo Qatar o un nuovo Kuwait”.

La copia libica della “zona verde” irachena

Ma i libici sembrano determinati a mancare “questa opportunità”. La Libia “rivoluzionaria”, che ricorda l’Iraq “democratico” creato dagli Usa 10 anni dopo l’invasione statunitense, ancora non riesce a offrire ai suoi abitanti i servizi fondamentali. La disoccupazione reale è stimata oltre il 30%, l’economia è ferma e la frustrazione è in aumento. I giorni dei sussidi di Stato di Gheddafi –  quando alle giovani famiglie erano concessi vantaggi gratuiti per l’abitazione, le cure mediche erano pagate dallo Stato e l’istruzione gratuita era disponibile per tutti –  sono passati. Circa 1 milione di sostenitori del regime di Gheddafi sono sfollati interni, e altre centinaia di migliaia sono fuggiti all’estero.

I resti delle infrastrutture istituzionali di legge, ordine e sicurezza ce la fanno appena a proteggere il governo centrale, simbolico, a Tripoli, ricordando la “zona verde” assediata irachena di Baghdad. Alla fine dello scorso ottobre la Banca centrale libica è stata rapinata in pieno giorno di 55 milioni di dollari. Oltre 100 militari superiori e comandanti di polizia sono stati assassinati.

“La Libia non si trova solamente a un incrocio. Siamo a una rotonda; stiamo guidando in cerchio senza sapere quale uscita prendere”, ha detto il ministro libico dell’Economia, Alikilani al-Jazi, lo scorso settembre, nel corso di una conferenza a Londra, come riportato dall’Australian il 14 ottobre.

Lo scorso 30 agosto il gruppo di base in Svizzera Petromatrix ha dichiarato: “Stiamo assistendo al collasso di Stato in Libia. Il Paese si sta avvicinando alle guerre locali per le entrate petrolifere”. Quattro giorni più tardi Patrick Cockburn ha dichiarato al britannico Indipendent che “i libici sono sempre più alla mercé delle milizie, e le autorità governative si stanno disintegrando in tutto il Paese”.

Ironicamente, 250 mila miliziani pesantemente armati, che rappresentano l’ostacolo principale alla creazione e al rafforzamento di un governo centrale, sono finanziati dal governo. Karen Dabrowska ha scritto sul Tripoli Post lo scorso 31 ottobre che “notabili locali, gruppi tribali, islamisti e milizie fanno a gara nell’impedire al centro di estendere la sua autorità nei loro territori, e questo spiega perché raggruppamenti sociali disparati si uniscano temporaneamente per impedire al centro di guadagnare potere su di essi”.

Adfer Rashid Shah, della Jamia Millia Islamia, Università centrale di New Delhi, ha scritto lo scorso 15 ottobre che la Libia post-Gheddafi è uno Stato finito.

Il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, seguendo i pesanti combattimenti nella capitale libica, ha dichiarato a la Repubblica lo scorso 7 novembre che “il Paese è completamente fuori controllo e la situazione sta peggiorando”, facendo capire che l’azienda gas-petrolifera italiana, Eni, si sta preparando a chiudere i pozzi di petrolio.

Il sequestro del 10 ottobre di Zeidan, dall’hotel Corinthia di Tripoli, considerato dal britannico Economist il più breve colpo di stato, ha evidenziato la crisi della sicurezza del Paese. Lo si è interpretato come una “rappresaglia” per il rapimento di 5 giorni prima di Abu Anas al-Libi, sospettato di essere collegato con al-Qa’ida, da parte delle Forze speciali statunitensi: evento che ha evidenziato l’incapacità del governo centrale di collaborare, coordinato all’”alleato” americano, al suo arresto, e a difendere la propria sovranità contro una evidente violazione degli Usa.

Lo scorso luglio Zeidan minacciò l’uso della forza da parte del suo governo, a Bengasi, la culla della “rivoluzione” e l’attuale centro del tribalismo, del separatismo, dei ribelli islamisti, della decentralizzazione governativa, dell’omicidio di militari dell’esercito regolare e degli attacchi contro le missioni diplomatiche straniere, che per lo più hanno chiuso i propri consolati nella seconda più grande città della Libia, luogo in cui nel settembre 2012 venne ucciso l’ambasciatore degli Stati Uniti.

Prima di visitare la città orientale, la scorsa settimana, al fine di promettere rinforzi e aiuto logistico alle locali forze di sicurezza, Zeidan vi ha organizzato una sfilata di centinaia di truppe armate e di camion militari. Ma la minaccia dell’uso della forza da parte di Zeidan sarà, inevitabilmente, controproducente. Non solo perché il suo governo non ha la “forza” per garantirne la credibilità, ma perché nel gioco di potere tra il governo e le milizie la situazione potrebbe peggiorare, se non sfociare in una vera guerra civile.

Zeidan ha detto che il suo governo è pronto ad accogliere nell’esercito regolare e nelle forze di polizia i “rivoluzionari” che dimostreranno di sfidare le milizie e i signori della guerra entro il 31 dicembre, altrimenti verranno loro tagliati i finanziamenti, sempre che le riserve possano sostenerne il finanziamento, e che la mancata accettazione dell’offerta non si trasformi in ulteriori ammutinamenti e ribellioni.

Probabilmente le casse del governo si esauriranno per la crisi, e, secondo Zeidan, “dal prossimo mese o da quello successivo potrebbero esserci problemi a coprire le spese”, perché la crisi della sicurezza ha bloccato l’estrazione petrolifera o l’ha portata fuori controllo, in quanto i gruppi delle milizie si comportano “come gruppi terroristi, che utilizzano il controllo del petrolio leva politica per ottenere concessioni”, secondo Elizabeth Stephens, capo dell’ufficio rischi dei funzionari assicurativi Jardine Lloyd Thompson, citata dal britannico Telegraph, il 29 agosto scorso.

Un’imminente crisi costituzionale potrebbe creare un vuoto di potere che a suo volta potrebbe far peggiorare la situazione. Il 7 novembre, su Rt, l’analista Nile Bowie ha scritto: “In accordo con il piano di transizione adottato dal governo di transizione nel maggio 2011, il mandato dell’attuale governo a Tripoli terminerà l’8 febbraio 2014. Il mancato porre in essere una nuova costituzione entro quella data costringerà Tripoli a estendere il mandato – eventuale mossa considerata molto impopolare – oppure ad affrontare una situazione di vuoto istituzionale che potrebbe innescare una serie di eventi che potrebbero portare alla guerra civile, o alla dissoluzione”.

I piani del Pentagono non sono d’aiuto

È improbabile che il governo Zedan riesca a sopravvivere senza il concreto appoggio occidentale. L’amministrazione Usa di Barak Obama continua a ripetere di non voler intervenire in Medio Oriente. Ad eccezione della Francia, disposta a ripetere l’intervento militare recente in Mali, nemmeno l’Europa sembra intenzionata a intervenire.

Zeidan, a meno di 3 mesi dalla scadenza del mandato, sembra contare sui piani del Pentagono di armamento e addestramento per mezzo di “Africom”, un nuovo esercito libico definito “forza a scopo generale”.

Ma “il caso dello sforzo separato e poco noto degli Usa di addestrare una piccola unità di antiterrorismo in Libia all’inizio di quest’anno, è istruttivo”, ha scritto di recente Frederic Wehrey su Foreign Affairs, aggiungendo che “l’assenza di chiari limiti dell’autorità – quasi inevitabile dato il frammentario settore libico della sicurezza – ha significato la deviazione delle forze più nei confronti dei nemici politici che del terrorismo. In agosto le milizie hanno effettuato un’incursione sul campo di addestramento, che non era ben sorvegliato. Non vi si trovavano soldati americani, ma le milizie hanno sottratto grandi quantità di equipaggiamento militare Usa, in parte riservato. Gli Usa decisero quindi di abbandonare il programma, e a quanto pare le forze impiegate se ne tornarono a casa.

L’ovvia alternativa al governo supportato dall’Occidente di Zeidan sarebbe una società senza Stato, governata dalle milizie dei signori della guerra, ma la sopravvivenza di questo governo non significherebbe un granché di diverso.

Al termine ufficiale della guerra della Nato per il cambio di regime in Libia, il 31 ottobre 2011, Obama proclamò che sarebbe iniziata l’era di “una nuova Libia democratica”. Ma a due anni da allora la Libia si ritrova in situazione di rivalità etniche e tribali pre-Gheddafi, con l’aggiunta del fondamentalismo religioso terrorista che indossa le vesti della jihad islamica.

Subito dopo la morte del leader libico Muammar Gheddafi, il 20 ottobre 2011, un editoriale arabo saudita spiegava: “La morte di Gheddafi significa che la prossima transizione sarà molto più facile e sicura. Se egli fosse ancora in libertà, sarebbe in grado di destabilizzare il Paese”.

A più di due anni dalla morte di Gheddafi, la Libia è destabilizzata, insicura e frammentaria, e la previsione saudita è al momento indifendibile.

Nicola Nasser è un giornalista arabo veterano, residente a Birzeit, nella West Bank dei Territori palestinesi occupati

Traduzione di Stefano Di Felice