mcc43. Dalle elezioni americane, dal Covid e poi dalla Guerra contro Gaza la libertà di espressione nei social media, da sempre condizionata da un ristretto gruppo di privati proprietari, subisce ulteriore restrizione. La Tecnologia permette a pochi di creare atmosfere per molti: imporre una equiparazione parole-fatti, rendendo le prime crimini al pari di atti effettivamente commessi, e suscitare artificiosamente bisogni facendoli avvertire come imprescindibili.
Prima dell’annus horribilis 2020, Facebook – e Twitter non si discostava di molto – seguiva questi principi pubblicizzati a Settembre 2019: “Non crediamo che sia per noi un ruolo appropriato arbitrare i dibattiti politici e impedire che il discorso di un politico raggiunga il suo pubblico per essere oggetto di dibattito e controllo. Ecco perché Facebook esonera i politici dal nostro programma di verifica dei fatti da terze parti. “
A metà del 2020 Twitter compie l’ardita svolta censoria: nasconde un tweet del Presidente degli Stat Uniti per glorificazione della violenza. Facebook si allinea.
NBC News scrive “Le sospensioni di Facebook e Twitter sono state un momento fondamentale per i giganti dei social media americani e la dimostrazione più visibile del loro potere assoluto. Con alcune decisioni unilaterali, un piccolo gruppo di dirigenti tecnologici ha privato il presidente degli Stati Uniti dei suoi strumenti di trasmissione più influenti.”
Si tenga conto che ciò avviene in campagna elettorale, pertanto i Democratici applaudono e argomentano: il Primo Emendamento non proibisce alle aziende private di decidere cosa ospitare sulle loro piattaforme.
A gennaio 2021, dopo i fatti del Campidoglio, Mark Zuckerberg annuncia in un suo post di aver bloccato l’account di Donald Trump in Facebook e Instagram perché i rischi di consentirgli di utilizzare la piattaforma erano troppo grandi.
In risposta alle indignate proteste dei Repubblicani, Zuckerberg decide di creare un Osservatorio, Oversight Board, e definirlo indipendente, dandogli il compito di garantire il rispetto della libera espressione attraverso un giudizio indipendente.
A maggio 2021 l’Osservatorio emette il responso e lo pubblica nel suo sito. (nota*) In sintesi, esso dà approvazione alle restrizioni applicate ai post di Trump, contemporaneamente osservando che Facebook non ha fornito sufficiente motivazione per la sospensione dell’account a tempo indeterminato e che tale indeterminatezza è estranea alle politiche della piattaforma; devesi, pertanto, fissare una data oppure eliminare definitivamente l’account di Trump.
Pronta e scaltra risposta di Facebook: l’account resta sospeso per 2 anni e potrà essere riammesso solo se le condizioni lo permetteranno. Inoltre, seguendo le riserve poste dall’Osservatorio secondo le quali non è sempre utile tracciare una netta distinzione tra leader politici e altri utenti influenti, Facebook modifica le proprie regole del 2019 e conclude che tratterà i politici alla stregua di qualsiasi altro utente.
Non è una decisione di poco conto considerando che si avvicinano le elezioni midterm che a novembre 2022 rinnoveranno il Congresso, vari Governatori e Assemblee degli Stati.
Quali condizioni per Trump e per qualunque altro utente che dopo il blocco voglia essere reintegrato? Da chi e in base a quali criteri viene rilevato che il post di un utente “rappresenta un grave rischio di incitamento alla violenza imminente“? Il “chi” della situazione è l’algoritmo, procedimento sistematico di calcolo con cui Facebook assegna punteggi a ogni contenuto pubblicato. In pratica comporta che vengono meno diffusi i contenuti considerati di scarso interesse (!?) o si procede a sanzionarli con banner aggiunti dalla piattaforma stessa oppure a nasconderli, in qualche caso si provvede a disabilitare temporaneamente l’account comunicandone all’utente la durata della disabilitazione.
Algoritmo sì. algoritmo no
Il fantomatico algoritmo di Facebook subisce frequenti cambiamenti: secondo quali considerazioni di opportunità, dal momento che gli Standard della community non le esplicitano? Ed è l’unico strumento utilizzato per guidare l’opinione pubblica?
Durante la Guerra degli 11 giorni contro Gaza parecchi utenti avevano riscontrato rimozioni di post, calo di visite, blocchi.
Il portavoce del ministro della Giustizia israeliano Benny Gantz aveva protestato asserendo che da Facebook Instagram e TikTok, tutti di proprietà di Marck Zuckerberg, oltre che da Twitter, emergeva un incitamento alla violenza avente lo scopo di danneggiare Israele. La tesi, vera o propagandistica, ha trovato ascolto sia a parole – “Il portavoce di Facebok ha affermato che i dirigenti hanno espresso il loro impegno ad agire rapidamente ed efficacemente per prevenire l’incitamento sulle loro reti” – sia in concreto.
L’esempio concreto a disposizione è un articolo di questo blog inspiegabilmente sfiorato dalla censura Facebook.
L’articolo è del 2017, intitolato Bambini di Palestina processati dal tribunale militare di Israele, fa riferimento a Sarah Champion, parlamentare britannica, presente a un processo nel Tribunale militare israeliano contro un minore, non assistito da un facilitatore linguistico. L’articolo era stato condiviso da vari utenti Facebook 37 volte senza mai subire censure.