Facebook sta imponendo il coprifuoco ai Palestinesi nel “mondo blu”?

MEMO. Di Hossam Shaker. Quando nel 2011 i giovani arabi si ribellarono per chiedere libertà e democrazia nei loro paesi, Facebook era la piattaforma dei social media prescelta dai manifestanti per la mobilitazione, già sperimentata in altri contesti, in altre parti del mondo. Quando invece i giovani Palestinesi hanno cercato di avere anche loro la possibilità di parlare apertamente contro l’occupazione israeliana per mobilitare le masse utilizzando lo stesso network sociale, hanno trovato ostacoli da parte di Facebook, che è la piattaforma principale in Palestina. Durante la primavera araba, questa piattaforma sociale ha imposto divieti alle pagine palestinesi più importanti, alcune delle quali chiedevano proteste civili di massa contro l’occupazione israeliana, dandole il nome di “terza intifada”.

Quello che all’inizio sembrava essere soltanto un episodio sporadico, è invece via via cresciuto divenendo sempre più frequente, fino a quando i Palestinesi si sono lamentati dei gestori di Facebook che hanno continuato a colpire i loro account. Ogni mattina arrivano le solite notizie, sempre più numerose, di organizzazioni e persone famose, così come di ordinari cittadini, che si vedono bloccati dalla piattaforma più utilizzata al mondo. Vi sono state proteste simili anche da parte di arabi che esprimevano solidarietà nei confronti della causa palestinese.

E’ sufficiente l’uso di termini specifici su Facebook per vietare un post, o per disattivare completamente un account, e spesso senza nemmeno fornire giustificazioni a chi è stato bloccato. Da ciò si può concludere che sia molto facile trovare delle motivazioni per poter bloccare, anche in modo blando, gli account. Molti iscritti palestinesi di Facebook hanno subito questa triste esperienza nel corso degli anni. Quando una determinata pagina riesce a guadagnare followers, riceve una notifica da Facebook che disattiva l’account facendogli perdere tutti i followers che aveva guadagnato con così tanta fatica. Si è quindi obbligati a ricominciare daccapo con altri account, in attesa del prossimo blocco.

I contenuti riguardanti i Palestinesi hanno sofferto a causa di un inasprimento nei loro confronti da parte di Facebook, che ha sviluppato algoritmi che infastidiscono in qualsiasi modo questi contenuti, ad esempio, controllandone il vocabolario, le immagini ed i video condivisi che riguardano la vita sotto occupazione. Questi vengono utilizzati come pretesto per disattivare le nuove pagine palestinesi, solo per aver menzionato il nome di una organizzazione o di una determinata persona. Questo targeting si è intensificato anche per il fatto che gli account palestinesi subiscono il monitoraggio da parte di circoli israeliani specializzati che controllano i loro contenuti per incitare la gente contro di loro e per denunciare presunti abusi che comportano il loro blocco. I funzionari israeliani non vogliono che i Palestinesi abbiano una loro piattaforma per poter influenzare i social network. Le misure restrittive hanno raggiunto l’apice quando sono aumentate le interazioni sul social network per sottolineare eventi particolari o dopo le costanti uccisioni da parte delle forze di occupazione. Gli account sono stati bloccati a causa della pubblicazione dei nomi di martiri palestinesi, ad esempio, o con la giustificazione che sono state postate immagini e video che mostrano la triste realtà, e tutto questo limita la presenza sul web della narrativa palestinese e la versione da parte palestinese.

A causa di questa situazione opprimente, i Palestinesi sentono che i gestori di Facebook pesano ogni loro parola ed impongono loro il “coprifuoco”, anche nel mondo virtuale. Ciò porta alla mente la triste e purtroppo enorme esperienza della società palestinese con le misure dell’occupazione israeliana che vieta loro di lasciare le abitazioni, limitandone i movimenti persino nei loro quartieri. Questo discorso riguarda anche il modo di affrontare le proteste da parte degli israeliani che utilizzano forza eccessiva nell’oppressione. Infine, i Palestinesi stanno affrontando restrizioni e persecuzioni sia nella loro realtà quotidiana che nella realtà virtuale, dato che stanno soffrendo con le politiche di demolizione ordinate dalle autorità occupanti. Gli attivisti palestinesi dei social media assistono alla demolizione delle loro abitazioni virtuali sui network dei social media, sui quali hanno trascorso molti anni per poter costruire qualcosa, su ordine delle autorità di Facebook che non si preoccupano minimamente delle loro rimostranze.

Uno dei risultati è la tradizione, divenuta ormai popolare tra i Palestinesi, di esprimersi utilizzando termini e vocaboli in modo contorto nel tentativo di bypassare gli algoritmi delle intelligenze artificiali che li controllano. Tra queste pratiche vi è quella della divisione di alcune parole, riscritte mescolando lettere arabe e latine o sostituendo alcune lettere con simboli. Questo è un metodo ben noto usato nei social media per censurare argomenti ritenuti profani. La necessità di trovare alternative ha creato la profonda sensazione tra i Palestinesi, e tra coloro che solidarizzano con la loro causa, che Facebook li stia palesemente censurando obbligandoli a mantenersi sul vago, privandoli del loro diritto di espressione con l’imposizione di ulteriori restrizioni. Il cerchio di coloro che vengono colpiti aumenta anche con l’aggiunta di altri social media, soprattutto da quando le misure prese da una grande piattaforma come quella di Facebook influenzano chiaramente il comportamento e le regole di altre piattaforme social.

La rabbia degli utenti palestinesi ed arabi è aumentata dopo che Facebook ha vietato alcune parole ed ha iniziato a ritenerli responsabili, retroattivamente, per i post che avevano pubblicato anni prima. Molti utenti che sono stati bloccati hanno espresso il loro rammarico per il divieto e sono stati pubblicati molti articoli che lo condannano. Nel frattempo, molte voci hanno espresso sentimenti di frustrazione verso quello che loro vedono come un trattamento autoritario nei loro confronti, con le società che controllano le piattaforme dei social network, che li hanno fatti sentire impotenti e perdenti sin dall’inizio per le poche possibilità che vengono loro offerti per avversarli. Il 30 settembre 2019, Sada Social, una iniziativa di giovani palestinesi, ha scritto una lettera con parole forti indirizzata a Facebook per lamentarsi delle intimidazioni e delle repressioni aumentate nei confronti dei contenuti palestinesi. La lettera è stata scritta dopo che Facebook ha avversato molte delle parole legate alla causa palestinese, aggiungendole alla lista di parole vietate nel sito blu, sottoponendo così centinaia di account e pagine palestinesi a varie sanzioni da parte degli amministratori della piattaforma. Queste sanzioni hanno raggiunto il limite di disattivazione di account e pagine di età superiore ai dieci anni. Sada Social ha inoltre chiesto al dipartimento che segue le politiche di Facebook di adottare una visione obiettiva della causa palestinese, e di prendere in considerazione il fatto che i Palestinesi hanno il diritto di utilizzare questa piattaforma per esprimere i loro punti di vista e pensieri, come fanno tutti gli altri utenti in tutto il mondo.

La disillusione palestinese con Facebook è divenuta un crescente malcontento, per l’utilizzo delle sue misure così restrittive, che peggiora anno dopo anno, ma il dilemma è che le masse colpite sono ancora svantaggiate per poter trovare il modo di affrontare gli abusi delle amministrazioni dei social media. Le piattaforme web non hanno indirizzi fisici nel mondo reale, ed impediscono di esprimere la rabbia nella maniera tradizionale e di affrontare i suoi comportamenti autoritari che non possono essere messi in discussione. Per quanto riguarda l’abbandono della piattaforma di cui si sono lamentati sempre più perché accusata di essere di parte, non sembra finora un’opzione realistica. Auto-sospendersi dalla piattaforma verrebbe considerato come arrendersi agli sforzi fatti per zittire i contenuti palestinesi. Nonostante ciò, i Palestinesi stanno cercando di porre all’attenzione di tutti il problema con varie campagne all’interno dello stesso mondo blu, contro il tiro al bersaglio contro la libertà di esprimere le loro realtà e le loro cause. Intanto, molti articoli vengono pubblicati da associazioni per i diritti umani, delle società civili e organizzate, e tutte mettono in guardia contro la censura, il divieto ed i metodi restrittivi adottati da Facebook contro i contenuti palestinesi, che stanno aumentando col passare degli anni.

I crescenti ostacoli verso questi contenuti fanno desumere che se questa piattaforma sociale fosse esistita nel secolo scorso, non avrebbe tollerato i movimenti di liberazione dal colonialismo, né avrebbe ascoltato la solidarietà globale anti-apartheid in Sudafrica. La piattaforma avrebbe imposto restrizioni simili a quelle subite dal popolo palestinese col pretesto di aver “violato gli standard comunitari”.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi