Forza di pace, se non ora quando?
Umberto De Giovannangeli
Racconta di donne, forse usate come scudo umano, su cui gli assaltatori di Beit Hanun hanno aperto il fuoco. Racconta di razzi Qassam che ricominciano a bersagliare le città di confine israeliane. La potenza delle armi maschera l’impotenza della politica. Il sinistro crepitio dei kalashnikov piega gli appelli rivolti dal moderato Abu Mazen all’Europa perché agisca. A Gaza come in Sud Libano. Con unità e determinazione. «Fermate il massacro di Beit Hanun», ripete il rais palestinese.
Fermatelo prima che la miccia accesa a Gaza faccia saltare la polveriera mediorientale. Fermatelo se credete realmente che la pace in Medio Oriente passa inevitabilmente per una equa soluzione alla questione palestinese. Un messaggio, quello lanciato dal presidente palestinese, che in Italia ha orecchie attente e ricettive. Nella società, tra le organizzazioni non governative, nel sindacato, nell’associazionismo che in questi tragici anni di odio e di sangue, hanno continuato a praticare la solidarietà concreto verso il popolo palestinese, convinti che il modo migliore per essere anche dalla parte di Israele è quella di realizzare sul campo «ponti» di dialogo capaci di incrinare i «muri» della diffidenza (e dell’apartheid). Di ciò sarà espressione la manifestazione nazionale per la giustizia e la pace in Medio Oriente del prossimo 18 novembre a Milano.
Ma il messaggio che giunge dalla martoriata Striscia trova attenzione anche nel governo italiano. Nel presidente del Consiglio, nel ministro degli Esteri. Più volte, Massimo D’Alema ha rilanciato la proposta di una forza di osservatori internazionali nella Striscia di Gaza. Una presenza sul terreno a garanzia della sicurezza di due popoli. Una forza di interposizione diversa da quella dislocata nel Sud Libano, ma non per questo meno significativa. Soprattutto sul piano politico. Perché questa forza ridarebbe speranza agli «ingabbiati di Gaza», potrebbe aprire uno spiraglio al dialogo, darebbe corpo alla volontà di rilanciare il processo di pace. Una «forza della speranza» in un luogo in cui la speranza non alberga più da tanto, troppo tempo. Se non ora, quando? A chiederlo è anche l’Israele del dialogo, che continua a contestare e contrastare la (tragica) illusione che esista una scorciatoia militare alla soluzione del «problema» palestinese.
È l’Israele di David Grossman, degli eredi di Yitzhak Rabin. L’Israele che è percorso da un brivido di orrore e da un fremito di sdegno quando sente il neoministro Avigdor Lieberman esaltare il "modello-Putin" e fare di Gaza la Cecenia del Medio Oriente. Una forza di interposizione per far volare le "colombe" e tarpare le ali ai falchi.
Pubblicato il: 04.11.06