Fra le macerie di Haret Hereik.

Da www.ilmanifesto.it del 30 agosto.

Fra le macerie di Haret Hereik
Aggirarsi in questo quartiere meridionale di Beirut significa capire, al di là delle parole, cosa siano stati i 33 giorni della guerra di Israele. Raso al suolo in una nuvola di polvere bianca, la vita a fatica riprende. Non sono solo gli onnipresenti e invisibili Hezbollah ma cristiani, sunniti, comunisti…
Stefano Chiarini
inviato a Beirut
Una nuvola di polvere biancastra e maleodorante che ferisce i polmoni e brucia gli occhi aleggia sul quartiere di Haret Hreik, uno dei piu colpiti nei 33 giorni di bombardamenti israeliani sulla periferia sud di Beirut, colpevole di essere una delle roccaforti del movimento Hezbollah. Molte vie del quartiere, un agglomerato di palazzoni di dieci, undici piani costruiti in gran parte nel caos della guerra civile per accogliere prima gli sciiti cacciati dai loro quartieri o dai campi palestinesi dai falangisti nel 1975-76, e poi i contadini sciiti fuggiti dal sud del Libano per l’ invasione israeliana del 1978, non esistono più.
Come colpiti da un devastante terremoto i palazzi si sono ripiegati a firsarmonica un piano sopra l’altro riducendosi a pochi metri di macerie. La strada principale è fiancheggiata da due minacciosi muri di detriti mentre decine di giganteschi bulldozer cercano di rimuovere quel che resta di enormi caseggiati, mattoni, tramezzi – in gran parte di amianto ma nessuno sembra badarci – tondini, lastroni di cemento. Le scavatrici si muovono quasi al rallentatore non solo per la pericolosità dell’operazione, molti degli edifici ancora in piedi sono pericolanti e senza più le facciate esterne, ma anche perché una folla di anziani, soprattutto donne, non si rassegna all’idea di aver perso tutto – la zona era conosciuta sino a pochi anni fa come la «cintura della miseria»- e appena la pala meccanica si ferma scalano i cumuli di rottami e cemento per scavare con le mani e tirare fuori un pezzo di mobilio, una foto, una coperta, magari qualche risparmio.
Poco è rimasto. I palazzi si sono come afflosciati e un piano è caduto sull’altro schiacciando ogni cosa. La gran parte delle 1300 vittime libanesi è morta in questo modo. Sulle macerie spiccano cartelloni rossi con scritte in bianco, «Made in Usa» o «The New Middle Beast», «Ecco la guerra umanitaria», «Bombe intelligenti, governi stupid», «Onu dove sei?», mentre i fianchi dei palazzi sopravvissuti, invece dei soliti cartelloni pubblicitari, sono coperti da grandi manifesti che in chiave nazional-popolare celebrano la vittoria degli Hezbollah come una vittoria del Libano con tanto di soldati dell’esercito mostrati accanto ai combattenti della resistenza e alle foto delle vittime civili, tutto rigorosamente in bianco e rosso, i colori nazionali, con sotto la scritta «Una vittoria divina». Colori e scritte buone per tutti i libanesi e tutti i credenti secondo la linea «patriottica» del movimento che fa appello all’intero paese e alle altre comunità dai cristiani, ai sunniti, ai laici, ai progressisti, ai comunisti con l’obiettivo – ci dice un giovane professore di storia con il cappello da baseball rosso e bianco dei volontari accorsi qui da ogni dove – «di formare un fronte postbellico interconfessionale, e non solo sciita, che batta il tentativo Usa di controllare il paese e imporgli una pace separata con Israele senza ritiro dai territori occupati libanesi, palestinesi e siriani».
Il partito, almeno a un occhio estraneo, sembra invece scomparso. Così come i suoi simboli, le bandiere gialle e verdi e le foto del segretario Hassan Nasrallah. Introvabili anche molti dei vecchi ritratti, una volta numerosi, con il severo e un po’ inquietante volto di Khomeiny.
I commercianti dei palazzi danneggiati allineano sulla strada quel che resta creando surreali file di manichini senza vestiti, salotti sbilenchi, ventilatori semifusi. Scomparsa, con tutto il palazzo sulla quale era stata messa alla vigilia dei mondiali, anche una gigantesca bandiera italiana proprio nel centro del quartiere. Così come il negozio di cd e cassette dove aveva resistito per anni un vecchio club juventino. Sempre presenti invece, tra i più giovani in motorino, le magliette dell’Inter e della Roma.
La gente è come stordita e non ha piu lacrime. «1976, 1978, 1982, 1993, 1996 e ora 2006 – ci dice un anziano ragioniere con occhiali spessisimi in canottiera e pantofole -. Ogni volta le bombe ci hanno raggiunto azzerando tutto. Non credo che la pace con Israele sarà mai possibile finché non accetteranno di essere parte del Medio Oriente. E non non credo che lasceranno mai in pace il Libano perché questo paese, così debole, ma così ricco culturalmente, è l’opposto di Israele. Loro, gli eletti, escludono chi è diverso, qui invece c’è sempre stato posto, non senza problemi certo, per tutti».
Ogni cosa ad Haret Hreik – cosi come a Cheyah, Bourj el Barajneh e, in parte, a Ghobeiry – strade, macchine e persone, è coperta dalla soffocante polvere bianca che, insieme al panorama di rovine dà al quartiere un’aria da Ground Zero. All’angolo dove sorgevano i due palazzi di dieci piani che ospitavano gli uffici della televisione al Manar e della radio al Nour, vicine al movimento Hezbollah, un vispo venditore ambulante ha montato una vecchia Gaggia su un carretto e offre caffe ai passanti. Al posto dei due palazzoni adesso c’è una grande piazza piena di detriti. Lì vicino, in un locale rimediato alla meglio tra le rovine, troviamo parte dello staff della televisione che, come dice il vicedirettore Ibrahim Farhat, «trasferitasi altrove, in una località segreta, non ha mai smesso di trasmettere dando un contributo fondamentale a far conoscere il volto di questa guerra e le pesanti sconfitte israeliane. A tal punto da rivaleggiare con al jazeera e al Arabiya».
Il Partito di dio sembra scomparso ma in questa bolgia infernale tutto è perfettamente organizzato dalla distribuzione degli aiuti, alla rimozione delle macerie, all’avvio del processo di ricostruzione. C’è persino un comitato per accoglier i visitatori stranieri, soprattutto arabi, che arrivano da ogni parte del mondo. In una zona appena ripulita dalle macerie troviamo una grande tenda eretta dagli enti locali dei quartieri colpiti dai bombardamenti – tutti con sindaci, magari cristiani, come a Cheyah, ma espressione delle lista «Sostegno e fedeltà alla resistenza» – dove si trovano i banchetti per i volontari, in particolare ingegneri, architetti, geometri, venuti qui per dare una mano non solo dal Libano ma anche dall’Africa occidentale, da Detroit dove vive la gran parte degli abitanti di Bint Jbeil – che qui qualcuno, esagerando, ha rinominato «Nasrallahgrad» -, dall’America latina, dagli Usa.
I residenti che hanno perso la casa fanno la fila per ritirare il contributo in contanti di 12.000 dollari, pari all’affito di un anno e all’acquisto di un po’ mobilio, promesso nel «discorso della vittoria» dal segretario Hassan Nasrallah e per iscriversi alle cooperative che dovranno ricostruire il quartiere. «Quel che piace degli Hezbollah – ci dice un giovane tecnico di computer cristiano vissuto per qualche anno in Italia – è il fatto che sono gli unici a fornire servizi sociali quasi gratuiti, e che, dagli anni novanta, hanno messo da parte l’idea di uno stato islamico per accettarre il multi-confessionalismo del Libano. Visti da qui non sono molto diversi dal Pci del dopoguerra e, in parte, dalla Dc, ma senza corruzione o clientelismo». Considerando che gli appartamenti distrutti saranno almeno 15.000 e quelli danneggiati altrettanti, e che dal governo non è arrivato, né probabilmnete arriverà, nulla, lo sforzo economico di questi aiuti è ingentissimo.
Da dove verranno tutti questi soldi? Lo chiediamo, discretamente, ad alcuni commercianti della zona. «Innanzitutto il Partito di dio – ci dice il proprietario di un negozio di scarpe a basso prezzo – ha istituzionalizzato il versamento della tradizionale offerta, proporzionale al reddito, che si da alla moschea, la zakat. Poi ci sono i contributi dei libanesi sciiti all’estero, molti dei quali hanno fatto fortuna e poi, dicono, i contributi di paesi esteri come l’Iran ma credo siano assai inferiori di quanto si pensi. Secondo alcuni vi sarebbero piuttosto ingenti fondi che gli americani o gli iraniani versano ai partiti sciiti iracheni e che questi, sottobanco, girano ai loro fratelli libanesi». «Ci accusano di avere qui una sorta di stato nello stato – lo interrompe un altro commerciante di stoffe, sostenitore del Partito comunista – ma in realtà qui in Libano lo stato non c’è perché né le potenze straniere occupanti prima, né le elite e i signori della guerra locali poi, lo hanno mai voluto per poter continuare a prosperare sulle spalle della gente. E se non c’è lo stato qualcuno doveva pur portare l’acqua, la luce, l’assistenza sanitaria, gli asili».
Poco lontano, alle pendici di una collinetta dove sorge una piccola chiesa, alcuni giovani si riposano, tra pale e picconi, all’ombra di un gazebo circondato da bandiere arancioni. Si tratta di un gruppo di studenti universitari cristiani del movimento dell’ex generale maronita Michel Aoun (con il più numeroso gruppo cristiano in parlamento) protagonista della sfortunata rivolta anti-siriana del 1990 e oggi sostenitore di un nazionalismo libanese «aconfessionale».
«Non meravigliatevi se siamo qui – ci dice il più grande del gruppo, studente di scienze politiche -, qui i cristiani ci sono sempre stati, sin da quando insieme agli sciiti, ben prima della guerra civile, i nostri nonni coltivavano i bachi da seta e anche il nostro leader Michel Aoun è nato qui in questa periferia. I cristiani patriottici, non le destre di Gemayel e Geagea, in queste settimane sono stati molto presenti. Abbiamo aperto centinaia di chiese ai profughi, distribuito pasti caldi, fornito coperte, raccolto fondi e con la nostra presenza all’opposizione facciamo sì che lo scontro – pro o contro i piani Usa – resti a livello politico e non scivoli su quello confessionale». «Putroppo mentre noi lottiamo contro il confessionalismo – interviene un quadro del Partito arrivato a bordo di un vespone con sul parabrezza la foto di Aoun accanto a quella di Nasrallah e del presidente venezuelano Chavez -, l’Occidente, sempre più vicino a Israele, ci ha abbandonato e anzi ha esportato il nostro sistema in Iraq riuscendo, di concerto con al Qaida, ad eliminare l’intera comunità cristiana irachena. Se li lasciamo fare per noi sarà la fine anche in Libano. Per questo siamo qui a scavare accanto ai nostri fratelli sciiti. Li conosciamo e ci fidiamo più di loro che di Bush».

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