Gaza, quello che i medici vedono, fanno, e subiscono. Senza censure

Gaza, quello che i medici vedono, fanno, e subiscono. Senza censure

di Eva Bartlett*
In Gaza (blog), 3 gennaio 2009

Il 31 dicembre, alle due del mattino circa, due addetti del pronto soccorso sono stati colpiti da un missile israeliano mentre tentavano di raggiungere un ferito nella regione di Jabaliya, nella parte nord di Gaza. Il primo è morto immediatamente, il secondo subito dopo per le complicazioni derivanti dalle ferite interne.

Due giorni dopo, altri due medici sono rimasti feriti nella zona a est di Gaza, di nuovo mentre erano in servizio, di nuovo mentre tentavano di raggiungere dei feriti.
In base alla Convenzione di Ginevra, Israele è obbligato a consentire e assicurare il passaggio del personale medico diretto dai feriti. Invece, Israele di routine lo prende di mira.

Al centro della Luna rossa crescente palestinese di Jabaliya (Prcs), i membri del personale mi parlano delle loro ferite. Metà degli infermieri e degli autisti del pronto soccorso di Gaza sono stati feriti da Israele mentre erano in servizio.

Uno mi mostra una cicatrice di una ferita da arma da fuoco sul braccio. Un altro mi dice di essere rimasto ferito due volte: una sparato allo stomaco, l’altra al braccio. I buchi dei proiettili nelle ambulanze parlano da soli.

Gli stranieri dell’Ism (International Solidarity Movement) e del Free Gaza Movement hanno deciso di unirsi al personale Emt (di pronto soccorso, ndt) nel suo lavoro in giro per Gaza.

Io ho iniziato a Jabaliya, a nord di Gaza sul confine orientale, dove ho incontrato una squadra amabile di professionisti. Dopo avere accompagnato una donna incinta in ospedale, la nostra prima chiamata seria è stata per recuperare i corpi di due combattenti della resistenza uccisi, colpiti dalle granate. La vista di uno di loro nella nostra ambulanza è stata brutta, il suo volto era saltato in aria. Conoscere la sua vita e la sua morte è stato peggio: era nato sotto l’occupazione, e aveva scelto di resistere, come farebbe chiunque subisca un’invasione. Ma l’aspetto più brutto è stato sapere che senza dubbio si trattava di un padre, un marito, un uomo che probabilmente sul suo telefono aveva diverse foto: belle donne, bambini graziosi, gatti, un combattente con un fucile, immagini della sua famiglia, scene varie di paesaggi, e i video clip grossolani che sembrano essere comuni tra coloro che possiedono un telefono cellulare high-tech. Era un ragazzo normale, di questo sono certa, ficcato in un ruolo intollerabile e mortale. L’aspetto positivo è che almeno non dovrà più vivere in questo inferno sulla terra.

La chiamata successiva, subito dopo le 4 del mattino, è per recuperare un ferito e un morto alla scuola americana di Beit Lahia, nel nordovest della Striscia. Dobbiamo attraversare strade piene di buche, distrutte dall’usura, prive di materiali di costruzione (l’assedio e, più di recente, i missili degli F-16). Avendo trovato solo l’uomo ferito, lo portiamo in ospedale, e torniamo dopo l’alba per trovare il cadavere.

Dopo il sorgere del sole, torniamo a nordovest, passando davanti a una mucca morta che sta sul ciglio della carreggiata. Per strada, nei pressi della scuola bombardata, al furgoncino si buca una gomma. Camminiamo a piedi da lì, muovendoci velocemente mentre i droni e gli F-16 sono ancora in giro, i secondi e i terzi attacchi sono fin troppo comuni. Alla luce, vedo quella che era stata una grossa struttura, un istituto superiore di qualità in cui aveva studiato un mio amico. Quello che è rimasto del corpo è stato trovato e portato fuori nello spiazzo più vicino, il cortile. [Più tardi nella mattinata, sono tornata sul sito con una troupe televisiva, per raccontare la storia. Ho notato il mare sullo sfondo, che non avevo visto nella pallida luce del mattino. Noto le rovine contorte del cortile, e i pezzi di granate sparpagliate sul terreno. Mentre filmiamo, due missili esplodono nelle vicinanze. È difficile non sentirsi delle prede in questo spazio aperto, chiaramente visibile]. Non vedo subito il cadavere disfatto, ma sospetto che non sia tutto lì. Il morto, un guardiano notturno di 24 anni, non era stato avvertito dei due missili almeno che hanno raso al suolo la scuola e lo hanno spazzato via.

I medici lavorano per caricare la salma, dopo aver rimpiazzato il pneumatico a terra. Lavorando in modo frenetico, con ancora la paura di possibili attacchi, si accalcano attorno all’ambulanza, la sollevano, sostituiscono la gomma. Un missile cade a distanza di cinquanta metri. Di certo, senza dubbio, gli aerei da guerra sopra di noi sanno (dalle scritte dell’ambulanza, dai vestiti dei medici, dalle nitide foto che possono scattare i loro droni) che sotto ci sono civili e medici. Eppure aprono il fuoco.

Cambiano la gomma, caricano il corpo, e siamo fuori, sgommando quanto lo consentono la vecchia ambulanza e le pessime strade. Andiamo dritti al retro dell’ospedale, all’obitorio, dove ci sono persone che vegliano gli ultimi morti prima che vengano portati i nostri, con l’ordine di fare spazio al nuovo corpo. Nella stanza fredda, il corpo viene trasportato nella cella frigorifera, ma mentre ciò accade viene tolto il lenzuolo. La chiazza di pelle bruciata, per nulla umana, si rivela essere un mezzo corpo, la testa che penzola mollemente da quello che resta del corpo.

Lo vedo, così come ho visto il morto nell’ambulanza. E ne scrivo, perché tutti devono vederlo, sentire di lui. I bambini di Gaza devono vedere queste immagini, o saranno queste immagini, perciò noi non abbiamo diritto a censurare queste macabre morti.

Ma piango, anche, per lo sfiguramento del giovane corpo, e perché so che si tratta solo di uno dei tanti (oltre 470 adesso**) uccisi nell’ultima settimana.

I medici hanno visto cose spaventose e mi chiedono di restare, di continuare a lavorare. Loro devono, e io faccio allo stesso modo.

Torniamo al centro, li lascio con l’intenzione di tornare il giorno successivo, per passare la mia giornata a raccogliere notizie e a scrivere. Alla fine, torno alla stazione delle ambulanze mezza giornata dopo, mentre infuria la carneficina israeliana.

(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq)

L’articolo in lingua originale

* giornalista e attivista dell’International Solidarity Movement (Ism)

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