Gaza tra rabbia e distruzione, ‘Una catastrofe come Hiroshima’.

 

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IL REPORTAGE

Gaza tra rabbia e distruzione
“Una catastrofe come Hiroshima”

dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI

GAZA – “Hiroshima! Nagasaki”. L’ira e lo sdegno di Refat abu Marzuk si sono solidificate nelle due parole che consegna con un tono energico e definitivo ai suoi vicini di casa, se il termine ha ancora un senso tra quelle rovine. Come alcune migliaia di palestinesi, ieri mattina, sul presto, Refat ha profittato del cessate-il-fuoco dichiarato da Israele per cercare tracce della sua proprietà nella distesa di detriti fino a ieri nota come al-Brazil, quartiere di Rafah. Delle sei file di palazzine a due o tre piani che procedevano per due chilometri lungo il confine con l’Egitto, quelle ancora in piedi sono davvero pochi, e nessuna di quelle poche è intatto. Difficile trovare in una guerra recente una distruzione tanto sistematica. E tanto pretestuosa.

“I tunnel? Ma quali tunnel?”, sbotta Refat. “I pozzi dei tunnel sono più avanti”. Non tutti: alcune tra le gallerie che passavano sotto la frontiera con l’Egitto cominciavano proprio nelle cantine di queste case. Ma per distruggere la rete dei tunnel sarebbe bastato bombardare i trecento metri successivi, quelli che dividono gli ultimi palazzi dal confine, e in particolare le serre, le cui plastiche opache spesso nascondono i pozzi. Invece l’aviazione israeliana ha deciso di sbriciolare la casa a decine di migliaia di abitanti di Rafah, quasi tutti ex profughi che aveva già perso tutto nelle precedenti guerre arabo-israeliane.

Adesso Refat abu Marzuk, nato sessantun anni fa a Ibna, oggi Israele, ha l’impressione che la storia si ripeta. Che una nuova nabka, una nuova “catastrofe” si stia per abbattere sui palestinesi: “Vogliono cacciarci anche da qua! Come nel 1948!. Come nel 1967! Buttarci fuori. E non permetterci di tornare indietro”.


“Lo vede questo rudere?”, mi fa un altro che ha perso la casa, Khaled abu Ghali, indicandomi una rovina che imprigiona l’albero su cui si è abbattuta. “Era un palazzo a tre piani, ci abitavano 82 persone. Non erano di Hamas, non avevano tunnel in cantina: avevano concluso che a loro non sarebbe accaduto nulla. Quando sono cominciati i bombardamenti non hanno avuto neppure il tempo di salvare gli ori delle donne. Sono scappati così com’erano”. E lei cosa ha salvato? “I figli”.

Neanche alla periferia di Gaza troverò un zona residenziale colpita dall’aviazione israeliana in un modo altrettanto ossessivo. Colpita con bombe gigantesche, grassi siluri lunghi due metri e mezzo, come l’ordigno su cui adesso vanno a cavalluccio alcuni ragazzi fidando sul fatto che gli artificieri di Hamas hanno svitato l’innesco dalla culotta. Pattinando nel fango trovo lamiere di tubi grigi, i razzi; voragini larghe 15 metri e profonde 5; una carcassa di pecora di cui spuntano dalla sabbia solo le zampe; l’ingresso di un tunnel, intatto sotto una sorta di capanna di plastica nera; sciami di bambini alla ricerca di schegge lunghe e affilate come spade.

E trovo Fatima Madi, nata 60 anni fa a Seba, oggi l’israeliana Beersheva, seduta su un blocco di cemento un tempo appartenuto alla sua casa. “Aveva due piani e ci abitavamo in dieci. Non ci rimane nulla. Neppure i vestiti. E mio genero è disoccupato, mio marito ha settant’anni. Cosa sarà di noi?”. La casa successiva, una specie di fisarmonica che mima in piccolo le nostre villette a schiera, aveva un tunnel in cantina. Ma le bombe si sono limitate a strapparle via una facciata.

Perché l’immaginifica aviazione di Ehud Olmert ha raso al suolo buona parte della fascia di case a ridosso del confine? Ecco una domanda cruciale per tentare di capire se questo precarissimo cessate-il-fuoco sia l’inizio di un travaglio diplomatico che partorirà un gelido armistizio, o piuttosto la prosecuzione della guerra nella forma di una figura classica, l’Assedio. Una possibilità è che nelle intenzioni israeliane quel tappeto di rovine debba diventare una sorta di fascia di sicurezza, abbastanza larga per scoraggiare gli scavatori di tunnel. Ma questo non impedirebbe ad Hamas di aumentare la sua dotazione missilistica, poiché i razzi li fabbrica a Gaza, e tutto quel che le occorre può scavalcare facilmente qualsiasi frontiera.

L’altra possibilità è che Israele abbia inteso aumentare la pressione sul confine egiziano per obbligare il Cairo a prendersi sulle spalle Gaza: questo le permetterebbe di liberarsi tanto dell’ipotetico Stato palestinese quanto degli obblighi che le derivano dal gravoso ruolo di potenza occupante.

Proprio di fronte alle rovine di al-Brazil c’è il confine con l’Egitto, o più esattamente quel tratto di muro che gli abitanti di Rafah sfondarono tre volte, spinti dalla penuria di generi di prima necessità prodotto dall’embargo israeliano. Ma se Israele spera che un nuovo sfondamento costringa l’Egitto a farsi carico dei palestinesi, probabilmente ha sbagliato i calcoli. I ragazzi che trovo appollaiati sul tetto di una casamatta proprio sul confine, mi indicano il muro egiziano, a cento metri, parallelo al muro palestinese. “Non vede gli elmetti dei soldati egiziani? Se sfondiamo ci sparano”.

Se di assedio si tratta, è stato preparato con cura. Nel deposito di alimentari dell’Unrwa, l’Agenzia Onu che da mezzo secolo assiste i profughi palestinesi, e ora anche gli sfollati che intasano Rafah, un funzionario mi racconta l’antefatto. Quarantacinque giorni prima dell’inizio della guerra, “Israele comincia a chiudere a singhiozzo il silos di Karni, cioè l’unico terminale di grano che c’è nella Striscia di Gaza. Di conseguenza si fermano anche i tre mulini della Striscia, e per sfamare i 350mila palestinesi che assistiamo, noi dell’Unrwa siamo costretti a dare fondo alle riserve immagazzinate. Poi l’offensiva israeliana. Ai 350mila palestinesi si aggiungono decine di migliaia di sfollati. Gli israeliani colpiscono il nostro maggior deposito di alimentari, una nostra scuola, due volte le nostre macchine. Un caso? Mah. In ogni caso Israele ha deciso di farci arrivare soltanto 260 tonnellate di farina per ogni carico ammesso nella Striscia, cioè molto meno di quanto occorre”. Potreste acquistare grano e farlo macinare dai mulini? “Dei tre mulini, due sono stati distrutti dall’aviazione israeliana, chissà perché. Del terzo ignoro la sorte”.

Il mulino maggiore era qua vicino, nel villaggio di Sofa. L’hanno fatto fuori i tank israeliani durante una sortita. Si è smesso di combattere da poco, fuma ancora il prato al lato del distributore di benzina ora sommerso dal tetto di metallo che gli si è afflosciato sopra. Andiamo verso Gaza insieme ad un corteo internazionale di ambulanze, con medici e medicinali, che il governo egiziano ha deciso di far passare soltanto ora. Sulla strada costiera, lì dove i tank israeliani l’hanno interrotta per spezzare in due la Striscia, mi imbatto in un minareto mozzato di netto, nella cupola bucata di una moschea, in vari edifici semidistrutti.

A Gaza cerco il quartiere di Jebalia, ex campo profughi e fucina di radicalismo. Altre distruzioni, ma certo meno che a Rafah. Ai margini di Jebalia trovo la moschea Taha, o più esattamente il suo minareto: il resto è stato pressato al suolo dalle bombe. Sul marciapiede antistante un centinaio di musulmani ha appena terminato di pregare. Chiedo all’imam, Yussuf Mohammed Shiada, perché è stata punita la sua moschea. “Vallo a sapere. Questa non è mai stata una moschea di Hamas, ma di Fatah. Io stesso sono di Fatah. Abbiamo deciso di ricostruire altrove la moschea, in modo che il minareto diventi un monumento. Proprio così, un monumento ai crimini d’Israele”.

Israele si è macchiata di crimini di guerra? L’apparenza è quella, ma occorrerà investigare. Purché qualcuno lo faccia. E purché l’Europa ne tragga le conseguenze. Altrimenti sarà ancor più arduo di quanto non sia ora convincere i palestinesi a rompere il circolo crimine-impunità-reazione, cui anch’essi sono assidui.
A Rafah, in una zona di rovine, c’è un antro stipato di seggiole di plastica e di divani. L’uomo che le affitta (le seggiole per le veglie funebri, i divani per i matrimoni) e suo figlio sono guerrieri della Jihad islamica. Il ragazzo porta nella carne i segni del razzo israeliano che lo ha mirato mentre tornava da qualche operazione guerrigliera. Il padre racconta che da un mese non affitta più divani, solo seggiole. “Gli unici matrimoni che si celebrano a Rafah ora sono gli sposalizi tra gli shaid, i martiri, e Allah”. I martiri che hanno sposato Allah ci sorridono dai manifesti che tappezzano le pareti, con bandoliere, mitra e tute militari. Terrroristi, potremmo dire. Purché si trovi un nome esatto anche ai metodi con cui guerreggia il governo di Ehud Olmert.

(19 gennaio 2009)

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