Gaza, verso la catastrofe.

Riceviamo dal prof. Michelguglielmo Torri e pubblichiamo.

Cari amici,
    tratto dal mensile svizzero "Galatea" di questo mese, vi mando un mio breve articolo sulla situazione a Gaza.
    Buona lettura.
    Michelguglielmo Torri

Gaza verso la catastrofe 

A partire dalla metà di marzo, l’opinione pubblica europea ha riversato torrenti di sdegno sulla Cina, motivati dalla repressione in Tibet. Nel far ciò sembra essersi completamente dimenticata di un’altra repressione attuata in un’area geografica assai più vicina e con la complicità dei propri governi: la repressione israeliana contro i palestinesi.

Questa si esercita in particolare (anche se certamente non solo) contro gli abitanti di Gaza. L’assedio di Gaza sta infatti continuando senza che, in presenza della ferma volontà di Israele e degli USA di non trattare con Hamas, sia possibile prevedere una qualsiasi soluzione politica per i problemi sul tappeto. Nel frattempo, accanto allo stillicidio di morti (quasi esclusivamente palestinesi), la situazione nella Striscia si sta sempre più avvicinando alla catastrofe.

Secondo un rapporto intitolato The Gaza Strip: A humanitarian implosion, rilasciato il 6 marzo da una serie di organizzazioni fra cui Amnesty International, CARE International, Oxfam e Save the Children – rapporto specificamente indirizzato al governo inglese –, la situazione a Gaza è la peggiore in assoluto dal tempo della sua occupazione nel 1967. I dati riportati sono impressionanti. L’80% delle famiglie di Gaza, cioè circa 1.100.000 persone, deve ricorrere ad aiuti internazionali sotto forma di cibo (contro «solo» il 63% nel 2006). Nel 2007, il 62% delle famiglie della Striscia spendeva la totalità dei propri introiti per comprare cibo (contro «solo» il 37% nel 2004). Nel periodo maggio-giugno 2007, cioè nel breve arco di due mesi e come effetto del blocco israeliano, i prezzi della farina, del latte e del riso sono cresciuti rispettivamente del 34%, del 30% e del 20,5%. Durante il periodo dal giugno al settembre 2007, la proporzione di famiglie i cui membri guadagnavano meno di un dollaro americano al giorno è cresciuta dal 55 al 70%.

Naturalmente, il crollo economico di Gaza è legato al fatto che, dopo l’occupazione del 1967, il territorio è stato isolato dall’Egitto e dal resto del mondo, mentre l’economia locale è stata subordinata a quella israeliana. Da allora, è iniziato un rapporto di dipendenza per cui gli abitanti di Gaza compravano prodotti israeliani ed esportavano forza lavoro a basso costo in Israele. Dall’inizio della prima intifada (dicembre 1987), tuttavia, la politica israeliana è diventata quella di ridurre la forza lavoro proveniente dai territori occupati. Non è un caso che, ancora recentemente (si veda «La Stampa» del 14 aprile), lo stato d’Israele abbia «scoperto» e fatto immigrare in Israele «ebrei» provenienti dai posti più improbabili, tipo l’Amazzonia peruviana. Nel caso di Gaza, la conseguenza è stata che il numero di lavoratori palestinesi che, ogni giorno, si recava in Israele è sempre più basso. Nel settembre 2000 si era già ridotto a 24.000 unità; oggi siamo a quota zero.

A questo si è accompagnato il virtuale collasso dell’economia della Striscia, causato dal blocco da parte di Israele delle importazioni di materie prime, dagli attacchi da parte della sua aviazione contro l’unica centrale elettrica della Striscia e, infine, dal razionamento dell’energia esportata da Israele (l’unico paese con cui Gaza, a causa del blocco israeliano, sia collegata). Il crollo della disponibilità di energia è tale che, negli ospedali di Gaza, i blackout durano dalle 8 alle 12 ore nell’arco delle 24. Tutto ciò si è tradotto nello smantellato di quel tanto di industria che esisteva a Gaza: secondo il rapporto, il 95% delle attività industriali è stato sospeso.

Mentre nel caso della Cina e del Tibet la possibilità di esercitare una pressione effettiva è oggettivamente scarsa, per quanto riguarda Israele e i territori palestinesi la situazione è completamente diversa. I palestinesi oramai sopravvivono solo grazie alla stentata carità internazionale. Ma anche Israele dipende in maniera quasi totale dagli incondizionati appoggi politici e dai massicci aiuti economici dell’Occidente. Ci sono quindi tutti gli strumenti per costringere le due parti ad una seria trattativa. È però certo che, come nota la raccomandazione conclusiva del rapporto del 6 marzo, la necessaria premessa non può che essere quella di «abbandonare la fallimentare politica di esclusione e di incominciare il negoziato con tutti i partiti palestinesi, incluso Hamas (corsivo aggiunto).» Una decisione che gli europei – così pronti ad indignarsi sulle colpe della Cina – non sembrano avere nessuna intenzione di prendere.

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