Gerusalemme, la dura vita dei Palestinesi ‘senza permesso di soggiorno’

MaanSana è nata a Hebron, in Cisgiordania. Quando 13 anni fa sposò Mohammed, di Gerusalemme, non immaginava che la loro unione avrebbe significato una vita di paura e clandestinità.

In un primo momento le differenze tra i loro permessi di soggiorno – per la Cisgiordania lei, per Gerusalemme lui – non rappresentavano un problema eccessivo. Sana aveva un permesso di soggiorno temporaneo e poteva vivere con il marito a Gerusalemme Est, spostandosi tra la città e la Cisgiordania abbastanza facilmente. 

Tuttavia nel 2000, in seguito allo scoppio della seconda Intifada, le misure restrittive contro gli spostamenti si intensificarono sempre più, finché nel 2003 Israele smise di rilasciare ai palestinesi i permessi di soggiorno a Gerusalemme. Ciò creò enormi difficoltà a Sana e Mohammed.

Senza il permesso rilasciato da Israele, Sana non può vivere a Gerusalemme con il marito e i figli. Allo stesso tempo, se Mohammed si trasferisce in Cisgiordania, rischia di perdere la residenza a Gerusalemme e l'accesso alla sua città natale. 

I palestinesi affermano che non è mai stato facile ottenere un permesso di soggiorno per muoversi tra la Cisgiordania a Gerusalemme Est.

Tuttavia nel 2003, con l'Intifada, Israele approvò una misura d'emergenza che di fatto, adducendo ragioni di sicurezza, mise fine alle procedure di “ricongiungimento familiare”.

Inoltre in quello stesso periodo, Israele stava costruendo un’enorme barriera (il Muro dell'Apartheid, ndr) attraverso la Cisgiordania, che da allora ha tagliato gran parte di Gerusalemme Est dal resto dei territori occupati, rendendo sempre più difficile entrare nella città santa senza permesso.

Nel 2005, allo scadere dei suoi documenti, Sana ha ricevuto un ordine di espulsione da Gerusalemme.

“Da allora”, ha spiegato la trentunenne alla AFP, “ho vissuto illegalmente con mio marito e i miei figli a Gerusalemme”.

“Per un breve periodo ho lasciato Gerusalemme, poi sono rientrata clandestinamente e ho iniziato a vivere nascosta, con mio marito e bambini, che hanno il permesso”, racconta.

La sua vita, prosegue, è diventata un incubo di paura costante. Appena girato l'angolo in un certo quartiere potrebbe trovarsi faccia a faccia con un ufficiale della sicurezza pronto rimandarla a Hebron, lontano dai suoi figli. 

“Mi allontano da casa raramente”, racconta all'AFP. “Esco solo per andare dal medico o per incontrare gli insegnanti dei miei figli. Quando mi trovo nei pressi di una zona frequentata dalla polizia o dai militari sono terrorizzata. 

“La mia è una preoccupazione costante: temo che la polizia possa fare irruzione nel quartiere, trovarmi in casa, arrestarmi e mandarmi via, lontana dai miei figli”, afferma.

Hassan Jabareen, fondatore di Adalah, organizzazione arabo israeliana per i diritti umani, spiega che dal 2003 la situazione delle persone come Sana è notevolmente peggiorata, e sostiene che “la legge approvata nega ai cittadini israeliani sposati con palestinesi dei territori occupati o con cittadini di Iran, Iraq, Siria o in Libano di vivere come una famiglia”.

'Siamo isolati'

“La situazione è peggiorata parecchio rispetto al passato. Abbiamo presentato una petizione alla Corte Suprema anno fa, tuttavia non sono ancora state prese decisioni in merito”. 

La legislazione d'emergenza non è mai stata abrogata e la scorsa settimana il governo di Israele l'ha prorogata per altri sei mesi su richiesta del ministro dell'Interno Eli Yishai.

La normativa interessa due gruppi: cittadini arabo-israeliani sposati con palestinesi della Cisgiordania o di Gaza, e abitanti di Gerusalemme i cui coniugi non possono risiedere nella città. 

In un rapporto del 2006, B'Tselem, Centro di informazione israeliano per i diritti umani, ha rilevato che Israele ha rifiutato di elaborare più di 120mila richieste di ricongiungimento familiare. Il Centro ha accusato Israele di usare questa politica “per evitare un ulteriore incremento della popolazione araba in Israele, al fine di preservare il carattere ebraico dello stato”.

Per Sana, ciò ha significato perdere momenti significativi della sua famiglia, sia lieti che dolorosi, come quando sua madre si ammalò di cancro, di cui poi morì.

“Era malata di tumore al fegato e non andai a trovarla perché avevo paura di non poter tornare da Hebron e non rivedere più i miei figli. Sono andata solo quando è morta”, racconta. 

“Quando i miei fratelli si sono sposati non sono potuta andare ai loro matrimoni. Mio padre è stato ricoverato in ospedale un mese fa, e anche lui, non sono mai andata a trovarlo. È morto una settimana fa e sono andata solo il giorno della sua morte. È stato devastante”.

È rientrata a Gerusalemme clandestinamente, in taxi, passando per strade secondarie regolarmente pattugliate dall'esercito israeliano.

“Sulla via del ritorno pensavo solo a due cose – il dolore per la morte di mio padre e la paura che i soldati potessero spararci”, confessa.

La vita descritta da Sana suona familiare anche a Huda, 33 anni, di Betlemme.

Sposata a Gerusalemme 16 anni fa, inizialmente le fu rilasciato un permesso di soggiorno annuale che le consentiva di rimanere nella città.

Dieci anni dopo, un tribunale israeliano condannò il marito a cinque anni di carcere per le sue attività con Fatah, il partito del presidente Mahmoud Abbas.

“Non hanno più rilasciato il permesso di soggiorno e anzi ho ricevuto un ordine di espulsione”, racconta.

Da allora, Huda vive illegalmente a Gerusalemme e spiega come, nelle rare occasioni in cui si reca a Betlemme per visitare la sua famiglia, sia costretta a rientrare in modo “illecito”.

“Una volta mi trovavo tra le montagne con un gruppo di donne e abbiamo incontrato una pattuglia dell'esercito. Ci hanno obbligato a tornare a Betlemme … e ci prendevano in giro, facendo versi come se fossimo pecore”.

Come Sana, è costretta a stare lontana dalla sua città natale, in Cisgiordania.

“Non vado mai a trovare la mia famiglia, tranne nei casi di grave malattia o lutto, perché so cosa devo affrontare per strada. È veramente tragico, la mia famiglia vive a 20 minuti di macchina e non posso mai stare con loro”, ha detto. 

“Siamo isolati. Neanche i miei fratelli o le mie sorelle vengono mai a farci visita, in nessuna occasione, lieta o dolorosa che sia”. 

Traduzione per InfoPal a cura di Claudia Marino

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