Giornata del prigioniero palestinese: come sono sopravvissuto a un decennio nelle prigioni israeliane

MEE. Di Ameer Makhoul. Un attivista palestinese ed ex prigioniero politico racconta del periodo trascorso in una prigione israeliana, dove ha creato una comunità tra i suoi compagni di prigionia. (Da InvictaPalestina.org).

Come migliaia di palestinesi che hanno sperimentato l’arresto e la detenzione arbitrari da parte delle forze di occupazione, sono stato incarcerato in una prigione israeliana per quasi un decennio. Mentre il 17 aprile i palestinesi celebrano la Giornata del prigioniero palestinese, ripenso al mio calvario iniziato il 6 maggio 2010.

Fui arrestato prima dell’alba dalla polizia armata che fece irruzione in casa mia dopo aver scavalcato la recinzione e aver praticamente sfondato la porta d’ingresso. Appena entrarono, separarono da mia moglie e dalle mie due figlie. Ero circondato da diversi agenti di sicurezza, alcuni dei quali avevano i volti scoperti, mentre altri si nascondevano dietro le maschere. In quel momento,  divenni prigioniero nella mia stessa casa.

Un agente dello Shin Bet (Sicurezza israeliana) di Haifa di nome Barak (soprannominato “Birko”) mi rivolse un sorriso minaccioso e mi disse: “Te l’avevo detto mesi fa, quando ti avevo convocato per interrogarti, che presto sarei venuto a prenderti dal tuo letto e  per poi rinchiuderti in prigione per molto tempo. E che lo avrei fatto con un sorriso sul volto.”

E così successe. I tre giudici del tribunale distrettuale di Haifa mantennero la promessa fatta allo Shin Bet. E quando uno dei giudici fu promosso alla Corte Suprema, i media israeliani  evidenziaronoi suoi “risultati” – che includevano il mio caso, su cui il giudice capo aveva presieduto  condannandomi  a nove anni.

Tortura fisica e mentale.

Direi che le prime tre settimane della mia detenzione furono le più difficili.

Le torture che  subii nelle stanze degli interrogatori del quartier generale dello Shin Bet non lasciò solo una cicatrice fisica, ma aveva anche lo scopo di spezzare il mio spirito.

Lo Shin Bet si riferisce a questa fase dell’interrogatorio come “il vuoto”, una tecnica di tortura che mira a risucchiare le anime dai corpi dei prigionieri sottoponendoli a un dolore fisico così insopportabile da distruggerli psicologicamente.

Le condizioni di reclusione sono ugualmente considerate tortura ai sensi del diritto internazionale. Le celle dello Shin Bet erano troppo anguste e strette per la mia corporatura e le pareti erano ruvide, con sporgenze affilate, che rendevano impossibile toccarle e tanto meno appoggiarvisi. Le pareti spoglie, l’illuminazione fioca e l’odore fetido contribuivano tutti alla tortura mentale.

Il materasso era putrido come la cella – sottile e adagiato sul pavimento freddo – con una coperta ma senza cuscino, costringendomi ad appoggiare la testa su una delle mie scarpe, che almeno aveva un odore casalingo e familiare.

Il condizionatore era costantemente regolato su temperature molto basse, rendendo i momenti in cui mi portavano nelle stanze degli interrogatori – bendato e con mani e piedi incatenati mentre salivo una lunga scalinata – gli unici momenti in cui il mio corpo non tremava per il freddo pungente.

Nel frattempo, nella stanza degli interrogatori, usavano contro di me lo “Shabeh”, un metodo di tortura che divenne noto in occidente come la “sedia palestinese” dopo che le forze di occupazione americane lo usarono notoriamente sui detenuti iracheni nella prigione di Abu Ghraib. Venivo costretto a sedermi su una piccola sedia a misura di bambino, fissata al pavimento della stanza – di fronte all’interrogante – con mani e piedi legati, incapace di qualsiasi movimento.

Gli agenti  presero la giacca di pelle che indossavo al momento dell’arresto, dicendo che non mi era permesso vestirmi con abiti migliori di quelli che indossavano loro. Usavano l’aria gelida come tortura, posizionando il condizionatore d’aria sopra la mia testa e la schiena, finché non mi sentivo come se stessi svanendo o diventando insensibile. A quel punto, il mio corpo e la mia mente crollavano, lasciandomi con un dolore straziante.

Il tempo non esiste nelle celle degli interrogatori. Non c’è luce solare o oscurità, nessuna finestra e nessuna chiave per il pesante cancello di metallo, quindi il prigioniero ruba un minuscolo raggio di luce dalla serratura . Il giorno e la notte non hanno senso nel sottosuolo. La luce è costantemente attenuata, in base alla progettazione.

Nessun “cliente” cristiano.

Un giorno chiesi alla guardia carceraria un libro da leggere. Dopo aver chiesto agli inquirenti, mi rispose che non erano ammessi libri se non libri sacri. Quindi è ciò che chiesi. Dopo essersi nuovamente consultato con gli investigatori, mi disse che c’era solo il Corano. Lo richiesi  subito.

Uscì di nuovo per chiedere il permesso e tornando mi disse: “Non sei musulmano, quindi non ti è permesso avere il Corano”. Di conseguenza, chiesi la Bibbia. La guardia fece la sua passeggiata di routine dagli investigatori, tornando forse mezz’ora dopo (avevo perso  il senso del tempo). Mi disse: “Non ci sono copie della Bibbia. Non abbiamo clienti cristiani”.

Ventidue giorni dopo fui trasferito nella prigione israeliana di Gilboa, una prigione di massima sicurezza a Bisan, una città situata nel nord-est della Palestina occupata.

Le procedure carcerarie standard comportavano un interrogatorio immediato e forzato con l’ufficiale dell’intelligence all’arrivo. Poi mi fu data una tuta da carcerato, che non era nemmeno della mia taglia.

Fui messo nella sezione uno della prigione, che all’epoca era riservata ai prigionieri di Gerusalemme e di altre zone della Palestina del 1948. Una volta entrato nel reparto e chiuso il cancello alle mie spalle, tutti i detenuti si precipitarono a salutarmi – abbracciandomi uno ad uno – una tradizione tra i carcerati.

Un artista lavora a un murale in onore dei prigionieri palestinesi fuggiti due settimane prima dalla prigione israeliana di Gilboa, a Gaza City, il 18 settembre 2021 (AFP)

Passare dalle celle di isolamento dello Shin Bet alla prigione  comune  fu come tornare a casa, anche se non a quella di famiglia. Con i miei compagni di prigionia,  cominciai a sentire il bisogno di dare un senso alla mia vita individuale e collettiva in detenzione.

Una volta, nella cella numero nove, sezione uno della prigione di Gilboa, sorvegliata dal detenuto Maher Younis – rilasciato a gennaio di quest’anno dopo 40 anni di reclusione – mi offrii volontario per preparare il pranzo o la cena. Preparai la mujadara, un piatto di lenticchie e riso in cui sono bravo, tritando e friggendo tutte e quattro le cipolle che avevo trovato nella cella. Quando finii di cucinare, fui orgoglioso di me stesso e del mio pasto, solo per rendermi conto pochi minuti dopo, con mio orrore, di aver causato una crisi alimentare consumando tutte le cipolle in una volta, cipolle che avrebbero dovuto durare per un’altra mezza settimana per gli otto detenuti del blocco.

Con il passare dei giorni, le parole della guardia dello Shin Bet continuavano  a perseguitarmi. Cosa intendeva dire con “non abbiamo clienti cristiani”? Perché non si era limitato a dire che non c’era la Bibbia, piuttosto che menzionare la mancanza di cristiani? Nulla accade per caso con lo Shin Bet.

Gli inquirenti sono addestrati a indebolire il “cliente”, come lo chiamano loro, sottolineando che sei solo, non c’è nessuno con te, non c’è nessuno come te, sei estraneo ai detenuti perché sei cristiano e quindi trascorrerai la pena detentiva trattato come un estraneo dagli altri detenuti.

Festività  in gabbia.

Una strana scena si presenta durante le festività in carcere: ci sono i detenuti che esultano nel cortile circondati da alte mura, la bandiera israeliana al centro e un tetto fatto di grate di ferro che tagliano il cielo in piccoli quadrati come se fossero pezzi di un puzzle da assemblare per completare la scena. Rimpicciolendo il tutto, è come se i prigionieri festeggiassero in una grande gabbia.

Le festività musulmane di Eid al-Fitr e Eid al-Adha vengono celebrate collettivamente e i preparativi iniziano ben prima della data, con lo sforzo di preparare dolci con ciò che è disponibile nello spaccio – mostrando ospitalità a tutti i 120 prigionieri dell’unità – e pulendo il cortile e sfregando le celle con acqua e sapone.

La festa  iniziava alle 6 del mattino ma alle 7 era già finita. Come evento sociale, la festa inizia con i prigionieri che escono nel cortile della prigione, si stringono la mano, si abbracciano e si scambiano auguri di liberazione come “il prossimo anno a casa”, “il prossimo Eid con i tuoi cari” e “la libertà è vicina”. .

Il barbiere rade la testa di tutti i prigionieri un giorno o due prima, e ogni prigioniero indossa il suo vestito migliore e qualsiasi acqua di colonia disponibile o contrabbandata, ma solo se di buona qualità. Alcuni dei vecchi prigionieri avevano conservato le colonie per più di 10 anni, da quando era ancora possibile per le loro famiglie portargliele.

Infine, una volta che tutti i prigionieri fossero arrivati al cortile, sarebbe iniziata la preghiera e il sermone dell’Eid.

Nel frattempo, i carcerieri osservano, registrano e si assicurano che il sermone non si discosti dal testo che i prigionieri hanno precedentemente presentato all’amministrazione – con il pretesto di impedire l’istigazione. I prigionieri, tuttavia, non prestano attenzione ai carcerieri. Successivamente, i prigionieri si riuniscono in un grande cerchio per gli auguri: si stringono la mano, si abbracciano e si congratulano a vicenda.

Poi è il momento del rinfresco preparato dai carcerati o acquistato alla mensa, e così i riti hanno fine. Durante questo periodo, i detenuti possono visitarsi reciprocamente nelle celle, e talvolta è possibile organizzare visite tra detenuti delle diverse unità, se i carcerieri lo consentono. Le fazioni politiche organizzano anche delegazioni dei loro membri per scambiarsi visite e offrire gli auguri ufficiali.

Terminate le visite, i detenuti rientrano nelle celle e la festa volge al termine.

Partecipavo all’intero evento andando in cortile e scambiando saluti. Quando passavo accanto al prigioniero Nader Sadaka, scoppiavamo a ridere, dato che io sono un cristiano di Haifa e Nader appartiene a una setta ebraica samaritana di Nablus. Stava scontando l’ergastolo per il suo ruolo nella Seconda Intifada.

Quando tutti i prigionieri si riuniscono, c’è spazio per la gioia. Ma il Natale è diverso: nessun altro prigioniero festeggia il Natale tranne me. Un giorno scrissi alla mia famiglia: “Prima del carcere avrei voluto che la festa durasse per giorni, ma qui vorrei che passasse veloce come la luce o che non ci fosse per niente”. Le festività sono un momento di felicità, ma in prigione mi riempivano di tristezza.

Ero l’unico cristiano, anche se a volte eravamo in due, quindi il circolo natalizio era privo di significato. Tutto quello a cui riuscivo a pensare alla vigilia di Natale era la mia famiglia: mia moglie, Janan, e le mie due figlie, Hind e Huda.

Mi chiedevo cosa stessero pensando: i sentimenti di solitudine di mia moglie, come avrebbero trascorso le vacanze e come avrei potuto dire loro che erano belle ed eleganti.

Pensavo a come non sarei stato lì a preparare la cena o la colazione di Natale la mattina seguente – cose che avevo  imparato e amato fare. Ma soprattutto come le avrei potuti abbracciare? Niente di tutto questo era possibile se non nella mia immaginazione. Ma ricordando il deliberato messaggio della guardia dello Shin Bet di non avere “clienti” cristiani, decisi di celebrare il Natale.

Le mie origini sono del villaggio di Al-Boqai’a nella Galilea occidentale, un antico villaggio risalente a qualche migliaio di anni fa. I suoi residenti erano per lo più drusi, così come cristiani, musulmani ed ebrei (ebrei arabi) che si consideravano palestinesi.

La gente del villaggio celebrava tutte le feste e si faceva visita durante tutte le festività. Questa familiarità e solidarietà tra le persone ha radici profonde in Palestina e nella cultura del suo popolo.

Per me, la tradizione natalizia significava astenersi dall’uscire per gli esercizi mattutini, abitudine  adottata per tutta la mia pena detentiva, e indossare gli abiti più eleganti – relativamente parlando, poiché il carcere vieta camicie, cinture, giacche pesanti, camice, cappelli e persino determinati tipi di scarpe.

Contrariamente alle festività musulmane che si tenevano collettivamente al mattino, a mezzogiorno del giorno di Natale e senza preavviso, dozzine di compagni di prigionia di tutte le fazioni politiche palestinesi vennero nella mia cella (che poteva ospitare circa otto persone), per farmi gli auguri e portarmi doni acquistati alla mensa e cartoline di auguri, disegnate dal detenuto Samer Miteb, artista creativo di Gerusalemme, condannato a 24 anni.

Poi, in mezzo alla folla, i giovani cominciarono ad alzare il volume delle canzoni arabe da un vecchio registratore con le cuffie inventato dai carcerati, lasciando  spazio ai canti e alle danze, festeggiando il Natale e festeggiando me, risollevandomi lo spirito e portando gioia a tutti.

Un prigioniero aveva due candele di contrabbando conservate per 12 anni. Il mio amico Bashar Khateb  accese queste candele vecchie di 12 anni per un minuto e poi le spense, conservandole per un’altra futura gioiosa occasione.

“Siamo tutti palestinesi”.

Nel 2017, il servizio carcerario israeliano smantellò quella che chiamavano la sezione degli arabi di Gerusalemme e dei palestinesi del 1948, e io fui trasferito alla sezione di Nablus. C’è una storia dietro la denominazione delle sezioni e la distribuzione dei prigionieri.

Nel corso di cinque decenni, i prigionieri sono stati detenuti in carceri senza alcuna affiliazione geografica. In seguito agli Accordi di Oslo del 1993, i prigionieri di Gerusalemme e della Palestina del 1948 furono separati in una sezione a parte.

Successivamente, dopo aver costruito il muro di separazione in Cisgiordania e nelle città circostanti con posti di blocco, insediamenti e basi militari, l’occupazione cercò di creare identità palestinesi locali e regionali a scapito di un’identità palestinese unificante.

Durante la prima e la seconda Intifada la Cisgiordania formava una continuità spaziale e geografica, e i confini erano relativamente aperti ai palestinesi del 1948. Durante la costruzione del muro, i palestinesi si isolarono gli uni dagli altri.

Un’intera generazione crebbe dopo il muro e davanti a sé non vedeva che il muro e il suo stretto orizzonte. Cercando di incidere il muro nelle menti delle giovani generazioni palestinesi, l’occupante  scelse di creare identità locali, invece di un’identità inclusiva.

Questo è il caso della Cisgiordania, di Gaza e della Palestina del 1948, ed è lo stesso nelle prigioni. Inizialmente, il Prison Service separava i prigionieri di Fatah e del movimento dell’OLP dai prigionieri affiliati ad Hamas.

Nel tentativo di isolare ulteriormente i palestinesi incarcerati, il Servizio penitenziario li divise per regione: unità separate per i prigionieri di Nablus, Jenin, Tulkarem, Betlemme, Hebron e così via. Questa divisione costituiva uno strumento di controllo ed egemonia da parte dell’occupante.

Nell’unità di Nablus, i miei compagni mi accolsero calorosamente. Lì, mantenni il mio regime quotidiano di ginnastica mattutina, lettura e istruzione universitaria per i detenuti ammessi a studiare in un corso speciale fornito dalla Al-Quds Open University, oltre a preparare un certo numero di loro per gli esami di laurea approvati da un comitato accademico di detenuti.

Inoltre, grazie alla mia conoscenza della lingua ebraica e del sistema procedurale israeliano, aiutavo i detenuti a stilare lettere e denunce, contestare i loro casi e altri abusi. Un tavolo di plastica all’esterno era diventato il mio “ufficio”.

Non mi è mai piaciuto essere chiamato con la mia identità settaria o religiosa – dopotutto siamo tutti palestinesi. Tuttavia, i prigionieri  crearono per me questa identità in modo positivo, umano e curioso. Una volta stavo camminando con un prigioniero di 42 anni che aveva trascorso 22 di quegli anni dietro le sbarre. Mi disse: “Senza offesa, ma non ho mai parlato in vita mia con un cristiano. A Nablus sono diventati pochi e io vivo in un villaggio alla periferia della città. Quindi, scusa la domanda, ma le tue abitudini sono simili alle nostre in termini di alimentazione, socializzazione, gioia e tristezza?”

Onestamente, la domanda mi piacque per la sincerità . Gli dissi che venivamo dalla stessa gente, dalla stessa cultura, dalle stesse affiliazioni e dalla stessa civiltà araba intrecciata con la civiltà islamica, quindi non c’erano differenze tra di noi. Mi ringraziò e iniziò a scusarsi, quindi lo fermai, e poi parlammo di come l’occupazione e il colonizzatore vogliono che abbiamo identità contrastanti, non armoniose.

I prigionieri mi chiamavano al-Hajj Abu Hind, o al-Hajj Ameer, che è una tradizione comune nel chiamare i prigionieri anziani.  Facevo finta di nulla e rispondevo normalmente fino a quando il prigioniero Salah al-Bukhari di Nablus  avvertì  i prigionieri che non ero musulmano.  Iniziarono tutti a chiamarmi “Padre”, per rispetto, come nella tradizione della chiesa.

Quando  chiesi loro di non chiamarmi, eraormai  troppo tardi. Il soprannome si era già diffuso e non ne avevo più il controllo. Ci si scherza ancora oggi, quando mi chiamano dall’interno della prigione, da telefoni di contrabbando – un promemoria della realtà della vita in una prigione israeliana.

Ameer Makhoul è uno dei principali attivisti e scrittori palestinesi della comunità dei palestinesi del 48. È l’ex direttore di Ittijah, una ONG palestinese in Israele. È stato detenuto da Israele per dieci anni.

(Immagine di copertina: bambini palestinesi partecipano a una protesta di solidarietà con i prigionieri detenuti nelle carceri israeliane il 12 aprile 2023. Reuters).

Traduzione di Grazia Parolari per Invictapalestina.org