Gli Stati Uniti e la nuova strategia mediorientale

Gli Stati Uniti e la nuova strategia mediorientale

Ali Reza Jalali 
Il segretario di stato americano John Kerry ha appena concluso il suo primo tour ufficiale nella regione araba, e ciò ha scatenato un’ondata di speculazioni sui negoziati USA-Russia e sul reale clima delle relazioni tra Washington e Teheran. Il viaggio mediorientale di Kerry è avvenuto in mezzo a spaccature clamorose tra l’opposizione siriana. Moaz al-Khatib, uomo di riferimento degli Stati Uniti, ha già detto che era pronto per il dialogo con il governo damasceno, mentre il gruppo avversario, influenzato da Qatar e Turchia, aveva severamente contestato questa opzione e aveva cercato di formare il suo proprio governo di transizione all’estero. Ma Washington, al contempo, sta guardando, con viva preoccupazione, l’ascesa di “al-Nusra” e dei gruppi vicini al qaidismo, che non tutti operano sotto la supervisione della NATO. In sostanza, Washington ha visto che il progetto regionale di sostegno all’”Islam moderato”, incarnato dall’ala più aperta dei Fratelli Musulmani, è stato effettivamente costruito su illusioni in alcuni dei suoi aspetti, come d’altronde l’amministrazione di George W. Bush aveva fatto dei progetti idealistici e non concretizzabili con l’occupazione dell’Iraq. Le prove generali di un’alleanza con i Fratelli Musulmani erano state già affrontate, nel 2006, cioè prima che Barack Obama arrivasse alla Casa Bianca. Il governo turco si era fatto carico di pubblicizzare questo progetto per Washington, attraverso Recep Tayyip Erdogan. Negli USA infatti, alcuni pensarono, tra il 2007 e il 2008, che l’ascesa di un presidente di origini islamiche potesse favorire una politica mediorientale per i nordamericani. 
E’ opportuno ricordare che la prima visita di Obama in una capitale islamica era stata ad Ankara, dove aveva pronunciato posizioni chiare sull’Islam moderato e il suo ruolo nella regione. Nonostante l’opposizione di alcuni, la “primavera araba” iniziò tra il 2010 e il 2011, e paesi come Tunisia, Egitto, Libia, Yemen e Siria furono investiti. Ma il nuovo progetto ha deluso coloro che hanno scommesso su di esso e ha dato credito a coloro che avevano messo in guardia Obama. Poi è venuta la guerra in Libia, gli incidenti in Egitto, il boom di estremisti in Tunisia e il caos siriano per confermare che l’Islam moderato sarebbe solo una fase transitoria prima dell’avvento estremista dell’Islam salafita e settario. Pertanto, gli interessi degli Stati Uniti nel lungo periodo sarebbero minacciati, visto che i gruppi salafiti sono difficilmente controllabili e gestibili, e in generale, poco inclini al compromesso. In un primo momento, i sostenitori di questa tendenza a Washington ritennero che l’avvento della faccia moderata dei Fratelli Musulmani avrebbe aperto la porta alla riconciliazione con la civiltà islamica; tutto ciò avrebbe favorito l’asse NATO-mondo arabo, per la resa dei conti con l’Iran e la Siria. Nel frattempo, la Turchia era in attesa di espandere la propria egemonia e di recuperare la sua lunga gloria attraverso un approccio paternalistico verso questi governi islamici emergenti presso le coste del Nord Africa e del Medio Oriente. E, naturalmente, l’Europa ha sostenuto l’ambizione turca al fine di sbarazzarsi dell’insistenza di Ankara per l’adesione all’Unione europea, tema orami secondario per i dirigenti turchi. Ma dopo tutto quello che è successo, Washington ha modificato la sua visione e si potrebbe apprestare a prendere una strada completamente diversa. Questo non significa necessariamente tornare alle fasi precedenti, quelle precedenti al progetto della “primavera araba”, ma certamente indica che la scommessa sul progetto principalmente promosso dalla Turchia e dal Qatar sta fallendo. Una delle situazioni più emblematiche in questo senso è ciò che sta avvenendo in paesi come Giordania ed Egitto, dove ora gli USA stanno giocando su due fronti. Da un lato sostegno condizionato ai governi (rispettivamente monarchia hashemita e Fratellanza), ma d’altro canto, attenzione anche per le opposizioni di questi paesi, che potrebbero tornare utili se vi fosse la necessità di una nuova ondata di destabilizzazione regionale. E’ per questo che il governo di Amman, pur sostenendo la ribellioni contro Assad, critica la linea esasperata del Qatar che sostiene apertamente i gruppi salafiti.
Tuttavia sul campo di battaglia più caldo, ovvero in Siria, le posizioni di Russia e Iran sono tenute in considerazione dagli Stati Uniti per produrre la sua nuova strategia “doppiogiochista”: la richiesta di un dialogo diretto tra l’opposizione siriana e il Presidente Assad. Chiaramente, questa posizione indica un notevole progresso nei negoziati USA-Russia, sul fronte dell’organizzazione delle zone di influenza in Medio Oriente. Indubbiamente, questa nuova realtà dei fatti non è una buona notizia per i sauditi, per il Qatar e per la Turchia, che hanno cercato quindi di limitare Moaz al-Khatib e il gruppo direttamente collegato a Washington. Tutto ciò non è piaciuto nemmeno alla Francia, che si sente esclusa dal “grande gioco” mediorientale, e anche per questo ha cercato attraverso azioni quasi unilaterali (Libia, Mali), di crearsi uno spazio vitale nella regione. Considerando la situazione critica, Parigi ha inoltre chiesto ai suoi dipendenti in Medio Oriente di mantenere una linea molto cauta, in quanto potrebbero esserci reazioni popolari contro la politica militarista intrapresa dalla Francia negli ultimi tempi. Le autorità francesi si rendono conto della gravità della situazione, partendo dal presupposto che l’abbattimento di Assad è fallito miseramente, e c’è il rischio che alcuni integralisti stanchi di combattere in Siria possano tornare a casa, cioè in Francia, paese di residenza di tanti jihadisti di origine nordafricana.
E’ infine bene ricordare che le navi da guerra russe sono ora al largo delle coste libanesi e siriane, e si muovono con una libertà senza precedenti. Dopo la guerra in Libia, la politica interventista arabo-occidentale in Siria, ha di fatto rafforzato la posizione dei paesi che dovevano essere le vittime prescelte dopo la caduta di Assad: Russia e Iran. Un altro importante anello regionale che doveva saltare era Hezbollah, ma la crisi innescata dall’attacco terroristico alla Siria, non solo non ha indebolito la resistenza libanese, ma sembra proiettare il movimento sciita verso il consolidamento nazionale. In tutto ciò bisogna sottolineare come Israele, cerca attraverso una politica di assenso, più o meno tacito, alla destabilizzazione regionale, di restare in guardia, in quanto, il prossimo conflitto propriamente detto contro la resistenza libanese, se dovesse avvenire, potrebbe segnare uno smacco storico, una sorta di “Caporetto” mediorientale, con conseguenze dirette su tutta la regione. Non a caso russi e americani sembrerebbero discutere di un nuovo piano per la spartizione del Mediterraneo orientale, con o senza il consenso di Tel Aviv. La politica nordamericana quindi, una volta preso atto dell’utopia riguardante la caduta di Assad, sta ora cercando un approccio più pragmatico, di fatto superando le istanze irrazionali e demagogiche di Arabia Saudita, Qatar e Turchia.