Hamas e Jihad islamico, tatticismi e intransigenza

Di Angela Lano. Khaled Meshaal, leader dell’Ufficio politico di Hamas, personalità notevole e carismatica, ha potuto finalmente entrare a Gaza, cioè in una parte del territorio palestinese, dopo 45 anni di esilio.
Le foto diffuse in tutto il mondo che lo vedono baciare la terra gazawi e abbracciare i suoi fratelli e compagni palestinesi hanno commosso. Un grande uomo torna in una splendida terra martoriata.

Il riconoscimento mediatico internazionale concesso al presidente di un’organizzazione di resistenza palestinese, fino a qualche mese fa considerata “terrorista”, è segno di un profondo cambiamento geopolitico, scatenato indubbiamente dalle Primavere arabe/Risveglio islamico.

La visita ufficiale della leadership di Hamas a Gaza è inserita all’interno delle celebrazioni del 25° anniversario della fondazione del movimento di resistenza islamica. Il fatto che sia stata “possibile” è spiegato dai media vicini a Hamas con la vittoria della resistenza palestinese contro la recente operazione israeliana “Colonna di nuvole”. Tale vittoria, acclamata da tutti e ammessa pure dalla dirigenza israeliana (ha ammesso la sconfitta), avrebbe permesso alla leadership di Hamas (Meshaal e famiglia, il suo vice Abu Marzuq, e altri elementi di spicco) di entrare a Gaza attraverso il valico di Rafah.

Tuttavia, vogliamo sollevare alcune riflessioni: anche la leadership del Jihad islamico in esilio aveva programmato un’analoga visita a Gaza, che è stata rinviata a seguito delle minacce israeliane di assassinare il segretario generale, Shallah, nel caso fosse entrato nella Striscia. Addirittura Israele avrebbe promesso di annullare la tregua in corso.

Sotto il regime del deposto Mubarak, i transiti dal valico di Rafah erano coordinati (o dipendenti) da accordi tra la dirigenza egiziana e quella israeliana. Adesso non è molto diverso: le autorità del Cairo stanno cercando di sdoganarsi dal controllo israeliano, ma non possono fare più di tanto, almeno per il momento. Se dunque la leadership dell’Ufficio politico di Hamas è entrata a Gaza significa che l’intelligence e la sicurezza egiziane hanno garanzie sufficienti, da Israele, che Meshaal e i suoi compagni non finiranno martiri come i loro precedessori Yassin e Rantisi, o come il capo delle brigate al-Qassam, al-Ja’bari. E’ possibile che nell’accordo della tregua siglata il 21 novembre con Tel Aviv ci siano clausole di questo tipo.

Anche il Jihad islamico ha fatto parte della resistenza contro l’aggressione israeliana, ma la sua dirigenza non può recarsi a Gaza, perché le garanzie sono di venire assassinata.

Come mai siamo di fronte a due trattamenti diversi verso due importanti movimenti di resistenza islamica, Hamas e il Jihad?

Le ragioni, una delle tante, non vanno trovate nella svolta “moderata”, pragmatica di Hamas degli ultimi mesi, che ha avuto nel trasferimento del suo Ufficio politico da Damasco a Doha una delle principali espressioni, con tutto ciò che ne sta seguendo, in termini politici?

Con quella discutibile svolta, il movimento islamico ha rotto, ufficialmente (ufficiosamente sono in corso relazioni e collaborazioni) il fronte della resistenza contro Israele, formato dal Libano di Hezbollah, dalla Siria e dall’Iran, e si è unito a quello delle petromonarchie del Golfo guidato dal Qatar, amiche degli Usa (e ammiccanti a Israele).

Il Jihad islamico, un’altra filiazione della stessa matrice islamica della Fratellanza, è rimasto fedele alla vecchia alleanza, rigettando tatticismi e strategie geopolitiche care al rinnovato e pragmatico Hamas, o almeno a una parte attualmente dominante del movimento.

Il Jihad sta dunque sostituendo Hamas nell’intransigenza verso Usa e Israele, e dunque per lo stato sionista si sta trasformando nel nemico n. 1?

Israele ha accettato di considerare Hamas un “interlocutore” per la “pace”, come lo è stato finora Fatah?

Israele fa il muso duro con il Jihad ma scende a patti con Hamas, perché?

Sono tante le domande e diverse le possibili risposte.