Haniyah: nessuna guerra per aiutare l’Iran

Il Primo ministro di Gaza Ismail Haniyeh partecipa a una conferenza stampa nella quale chiede la liberazione dei detenuti dalle carceri israeliane. (MaanImages/Wissam Nassar, File)

Gaza City – Ma’an, Reuters. Hamas non si farà trascinare in una guerra contro Israele se quest’ultimo attaccherà gli stabilimenti nucleari dell’Iran, alleato del movimento islamico: lo ha assicurato giovedì il leader di Hamas Isma’il Haniyeh dai suoi uffici di Gaza.

“Hamas è un movimento palestinese che agisce all’interno dello scenario palestinese, e porta avanti le sue azioni in modo da rispondere agli interessi del popolo palestinese, sia a livello politico che sul campo” sono state le sue parole.

“L’Iran non ci ha chiesto niente, né crediamo che abbia bisogno di noi”, ha quindi chiosato il primo ministro.

Israele ha ripetuto più volte di essere determinato ad impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari e di non escludere alcuna opzione. Da parte sua, l’Iran replica che il suo programma nucleare è rivolto a scopi pacifici.

“Le minacce israeliane sono esplicite e non richiedono alcuna analisi. Ma ritengo che una questione simile avrebbe gravi conseguenze sull’intera regione”, ha proseguito il 48enne leader di Hamas. “Non saprei prevederne gli scenari, ma un conflitto di questo tipo avrebbe ripercussioni su tutto il Medio Oriente”.

Israele sostiene che dovrebbe fare i conti con possibili attacchi di Hamas da sud e di Hezbollah dal Libano, in caso di guerra con l’Iran. Sempre secondo Tel Aviv, entrambi i gruppi possiedono scorte di razzi fornite dall’Iran, e praticano il terrorismo.

Parlando poi della grande coalizione formata questa settimana dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – il quale, secondo Haniyah, ha così ottenuto una maggioranza inattaccabile in parlamento – , il leader di Hamas ha affermato che si tratta di una mossa dovuta a ragioni interne, ma che potrebbe anche avere “motivazioni esterne”.

“Sul fronte esterno – ha spiegato – non c’è alcun dubbio che abbia rappresentato un tentativo di assorbire i grandi cambiamenti verificatisi nella regione (la cosiddetta Primavera araba) e magari un modo per prepararsi a diversi problemi”.

Alla domanda se l’Iran sia uno di questi, ha risposto: “Forse”.

Sciopero della fame

Riguardo allo sciopero della fame al quale stanno partecipando centinaia di palestinesi nelle carceri israeliane, Haniyah lo considera una prova della misura in cui Israele s’impegna nel riconoscere i principi umanitari universali. Ha quindi avvertito che la morte di un qualsiasi detenuto avrà “ripercussioni negative”, senza però dare ulteriori spiegazioni.

“Io non desidero il martirio di alcun detenuto nelle carceri israeliane, per cui chiedo che venga applicata la legge internazionale rispettando i carcerati, da trattare come prigionieri di guerra”.

In base a quanto riferiscono i gruppi palestinesi per i diritti umani, ben 2.000 palestinesi rinchiusi nelle strutture israeliane hanno rifiutato il cibo a partire dallo scorso 17 aprile. Due di loro sono in sciopero da circa setttanta giorni, e si trovano in gravi condizioni, in base a quanto si è riportato di recente.

“Si tratta di semplici richieste, richieste umanitarie, quali la fine del carcere d’isolamento, le visite familiari, più canali TV”, ha aggiunto Haniyah, proseguendo: “Israele deve mantenere le promesse che ha fatto quando il prigioniero israeliano Gilad Shalit venne liberato da Hamas lo scorso ottobre dopo più di cinque anni di confino, in cambio della liberazione di circa 900 palestinesi rinchiusi in Israele”.

Il Jihad islamico di Gaza, che si è spesso chiamato fuori dai taciti accordi di tregua tra Hamas e Israele, ha annunciato che intensificherà le azioni di violenza se morirà un solo detenuto.

“Abbiamo incontrato la leadership del Jihad islamico, la quale ha garantito che qualsiasi sviluppo negativo nella questione dei prigionieri verrà discussa all’interno del fronte nazionale e in un incontro delle fazioni”, ha specificato Haniyah. “Non verranno prese iniziative unilaterali al di fuori di un consenso nazionale”.

Riconciliazione

Indossando una sobria tenuta grigia abbinata alla sua iper-curata barba dello stesso colore, il leader di Hamas si è mantenuto misurato nelle sue risposte all’intervista, che si è svolta all’interno dei suoi uffici.

Giunti all’argomento della riconciliazione, ha fatto mostra di una divertita ironia riguardo ai tentativi di far rimarginare la ferita interna al movimento nazionale palestinese.

“Non sono morti. Ma non si muovono neppure”, ha detto ridendo.

Hamas e il movimento di Fatah, guidato dal presidente Mahmud ‘Abbas, hanno in parte placato l’estrema ostilità che li aveva divisi per anni, da quando Fatah era stato cacciato da Gaza nel 2007.

Ma la vera riconciliazione è sfuggita dalle loro mani.

“Abbiamo percorso una lunga strada per raggiungere un accordo palestinese-palestinese, ma vi sono alcuni ostacoli interni ed esterni” , ha spiegato Haniyah, menzionando le pressioni di Usa e Israele su ‘Abbas perché non si associ a un movimento che l’Occidente bandisce in quanto organizzazione terrorista.

Internamente, ha aggiunto, alcune fazioni dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) – amministratrice della Cisgiordania e guidata anch’essa da ‘Abbas – stanno ponendo dei freni al processo per il fatto di essere avvantaggiate dalle divisioni.

Da questo punto di vista, ha affermato il leader, la causa palestinese è stata “la maggior beneficiaria” delle rivoluzioni della Primavera araba in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen.

Ha quindi fatto notare che sia l’accordo di riconciliazione del 2011 sia lo scambio di prigionieri per Shalit furono mediati dall’Egitto.

“Sono ormai svaniti i governi che nutrivano stretti rapporti con gli israeliani a spese dei diritti palestinesi”, ha aggiunto. “Il rispetto per la causa palestinese è stato ormai ripristinato fra il popolo arabo”.

“Le nazioni arabe abbracciano sempre più le richieste del popolo palestinese riguardo a Gerusalemme, ai detenuti e all’assedio [d’Israele] a Gaza” ha evidenziato.

I benefici giunti dal vicino Egitto possono essere pochi, ma arriveranno in tempo, “quando la vita politica sarà stabile” e un nuovo presidente, un nuovo parlamento e un nuovo governo saranno in carica.

Uno dei vantaggi immediati scaturiti dalla destituzione del presidente egiziano Husni Mubarak nel 2011 è stato, ad esempio, l’accesso a Gaza assediata passando dal Sinai egiziano e dal terminal di confine di Rafah, ha ricordato.

“Ci auguriamo che la volontà del popolo egiziano e la stabilità politica nelle questioni egiziane migliorino, e che anche le politiche nei confronti della Palestina conoscano un progresso”.

Alla domanda se Hamas abbia abbandonato la lotta armata, Haniya ha replicato: “Certo che no!”

La resistenza palestinese all’occupazione israeliana continuerà infatti “in tutte le sue forme: resistenza popolare, politica, diplomatica e militare”, ha assicurato.

Hamas non riconosce Israele, a differenza di ‘Abbas, che in un’intervista svoltasi nei suoi uffici cisgiordani si è dichiarato contrario alla lotta armata, come ha riportato il primo ministro.

Da parte sua, Haniyah ha rifiutato di rivelare se Hamas riconoscerà mai Israele: “Tanto per cominciare, Israele riconosce forse il diritto del popolo palestinese ad esistere in un’entità statale e politica? Lasciate che rispondano prima a questa domanda, e poi risponderemo noi”.

Ha poi ribadito che Hamas è pronto a concludere una tregua “di dieci anni e anche più” con Israele, in cambio della creazione di uno stato sulle terre occupate dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Haniyah non ha però parlato di un trattato di pace definitivo, che Israele insiste nel ritenere l’unica via per porre fine ai sessantaquattro anni di conflitto in Medio Oriente.