Ho sentito la libertà quando mio figlio mi ha chiamato “mamma”, racconta una madre palestinese appena rilasciata

MEMO. Di Wafa Aludaini. “Dopo sei anni, ho sentito la libertà solo quando ho sentito la parola ‘mamma’ pronunciata da mio figlio, che ho lasciato quando aveva solo otto mesi”, ha raccontato Nisreen Abu Kamil, madre un bimbo di sette  anni, che è stata rilasciata dalle carceri dell’occupazione israeliana il 17 ottobre.

La mia più grande paura era che Ahmad non mi riconoscesse o non mi amasse, ma ero al settimo cielo quando mi ha chiamato mamma e mi ha abbracciato.

Nisreen fu arrestata nell’ottobre 2015 e condannata a sei anni. All’epoca, la figlia maggiore aveva solo 11 anni. Le autorità di occupazione israeliana hanno impedito ai suoi figli di farle visita in carcere.

“Durante questi lunghi anni, non ho avuto la possibilità di vedere o chiamare la mia famiglia se non due volte”, dice Nisreen. Il sistema di visite nelle carceri israeliane è stressante e umiliante, spiega, sia per il detenuto che per la sua famiglia.

“Sono morta e emotivamente svuotata ogni volta che annunciavano la visita dei parenti perché alla mia famiglia non era permesso di venirmi a trovare”.

Amira, la figlia maggiore di Nisreen che oggi ha 17 anni, dice: “Per sei anni, ho visto mia madre solo attraverso le sue vecchie foto. Ho aspettato questo momento per così tanto tempo”.

In assenza di sua madre, Amira si è assunta la responsabilità di prendersi cura dei suoi fratelli. “La cosa più difficile per me è stato mio fratello di otto mesi del quale non avevo idea su come accudirlo e di come studiare mentre mi prendevo cura di lui”, spiega Amira.

Nisreen venne arrestata al checkpoint di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, nel 2015 dopo aver ricevuto una telefonata dall’intelligence dell’occupazione israeliana che la convocava al checkpoint per ottenere il permesso per il marito per visitare la sua famiglia ad Haifa, più tardi, quel mese.

Quando arrivò al checkpoint, le forze dell’occupazione le tesero un’imboscata e la portarono in una stanza per gli interrogatori. Fu sottoposta a duri interrogatori per 31 giorni nella prigione di Ashkelon.

Colpita con il calcio di un fucile al petto, fu poi portata nella prigione di Hasharon per circa 90 giorni prima di essere trasferita nel carcere di Damon fino al suo rilascio.

Nisreen descrive le prigioni peggio dell’inferno.

“La maggior parte delle stanze sono poco aerate, umide e infestate da insetti. L’edificio è vecchio e umido. Non ci sono sedie nelle stanze e l’amministrazione penitenziaria impedisce alle donne di coprire il pavimento con delle coperte”, afferma.

“Ogni stanza ha uno scaldabagno, una stufa elettrica, una TV, una radio e un bagno aperto. I letti sono a castello, che causano incidenti quando le donne cadono, a volte provocando fratture”. La stessa Nisreen si è ferita in questo modo. “Una volta sono caduta e mi sono rotta il braccio, e c’era bisogno del gesso, ma si sono rifiutati di curarmi”.

Descrive l’acqua da bere come contaminata e i detenuti sono costretti a comprare la minerale dalla mensa del carcere.

Il cortile non è coperto, quindi quando piove, o fa molto caldo, le donne non possono beneficiare dei pochi momenti di aria fresca che sono loro concessi.

Dopo il suo rilascio, le autorità dell’occupazione israeliana hanno costretto Nisreen, cittadina palestinese di Israele, a firmare un accordo che le vieta di viaggiare tra Gaza e la Cisgiordania occupata per due anni.

(Le figlie della prigioniera palestinese liberata Nisreen Abu Kamil tengono in mano un cartello con su scritto “La mamma è a pochi metri da noi” mentre aspettano che le autorità di occupazione israeliana le permettano di entrare a Gaza, 18 ottobre 2021 [Mustafa Hassona/Agenzia Anadolu]).

“Anche dopo che mia madre è stata rilasciata, volevano uccidere la gioia nei nostri cuori ponendo condizioni al suo arrivo a Gaza”, dice Amira.

Nisreen ha trascorso la sua prima notte fuori dalle mura del carcere in un’area aperta vicino al valico di Erez, Beit Hanoun, in attesa del permesso di entrare a Gaza. La sua famiglia la stava aspettando dall’altra parte. Per tre giorni, suo marito e i loro sette figli, parenti, amici e sostenitori hanno atteso dalla parte palestinese del valico, sperando nel suo arrivo.

Quei tre giorni, dice, sono stati “pesanti e dolorosi”. “Ero a pochi metri dai miei figli, e non potevo vederli e abbracciarli dopo anni di separazione”.

Traduzione per InfoPal di Edy Meroli