I nuovi profughi.

testo inglese in http://www.haaretz.com/hasen/spages/806054.html

                       

Venerdì 5 gennaio 2007     15 Tevet 5767

           

I nuovi profughi

Amira Hass

 

Finché Enaya Samara, vissuta in forzato esilio per gli ultimi otto mesi, non torna al suo villaggio vicino a Ramallah, e finché Someida Abbas, bandito da casa sua 10 mesi fa, non accompagna di nuovo i figli all’asilo, non sarà possibile credere alla promessa di cambiare politica, pronunciata dell’establishment della difesa. Finché a cittadini americani, brasiliani e tedeschi, il cui cognome non è Cohen ma Abdullah, si rifiuta l’ingresso alle frontiere, sapremo che questa prassi – quella di provocare lo scioglimento di decine di migliaia di famiglie palestinesi, o di far sì che lascino le loro case ed emigrino – è ancora in atto. Questa non è una politica nuova, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ė dal 1967 che Israele compie manipolazioni demografiche, che dovrebbero in effetti essere denominate ‘espulsioni’. Editti militari hanno fatto sì che circa 100.000 persone perdessero lo status di residenti permanenti nei territori occupati, e che rimanessero in esilio nei Paesi in cui si erano recati per studio o per lavoro. Tali manipolazioni hanno trasformato 240.000 persone, nate in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e che avevano lasciato i territori a causa della guerra del 1967, in nuovi profughi, facendo lo stesso per altre 60.000, che si trovavano all’estero allo scoppio delle ostilità.

 

Tutti questi hanno abbandonato famiglie nei territori, ma Israele ha impedito alla stragrande maggioranza di costoro di riunirsi nuovamente nella loro patria. (Durante quegli anni, Israele promuoveva attivamente il diritto all’emigrazione degli ebrei dell’URSS, perché si riunissero alle loro famiglie israeliane). Dopo il 1994, ogni anno Israele ha reso possibile la riunificazione a diverse migliaia di famiglie palestinesi; in altre parole, ha accordato ai figli lo status di residenti permanenti. Ma la quota fissata era sempre inferiore alle reali necessità; dal 2001, poi, ha congelato il processo di unificazione famigliare, interdicendo ai palestinesi che sono cittadini di Paesi arabi (in particolare giordani ed egiziani) di recarsi in visita.

 

Fino al 2006, i palestinesi con cittadinanza occidentale (europei ed americani) erano in grado di evitare questa politica onnicomprensiva. Negli anni ’90, erano considerati i benvenuti (investitori, uomini d’affari, accademici che operavano in organizzazioni internazionali, come la Banca Mondiale). Anche se la maggior parte di loro non otteneva il permesso di risiedere in permanenza, Israele permetteva loro di vivere qui e di soggiornare regolarmente. Questo valeva anche per i coniugi occidentali di residenti palestinesi. Tutto ciò fino a che qualcuno a livello politico non ha deciso che questa “discriminazione positiva” (nei confronti dei cittadini giordani ed egiziani) era intollerabile. E dall’inizio del 2006 il loro ingresso è stato bloccato.

 

Non è chiaro chi sia stato a decidere. Il coordinatore delle attività governative nei territori ha riferito a diplomatici occidentali che era stato il ministero degli interni; i funzionari del ministero degli interni sostengono che era stata una decisione congiunta con il ministero della difesa.

 

Sia come sia, chiunque ha preso la decisione non ha tenuto in considerazione che questo rappresentava un colpo alle cerchie più forti fra i palestinesi – di coloro che parlano inglese, hanno accesso al Dipartimento di Stato USA, a giornalisti importanti ed al mondo degli affari, israeliano e mondiale. Questi hanno trovato il modo di riunirsi e di protestare – a differenza delle decine di migliaia di donne con cittadinanza giordana, che si nascondono impaurite in Cisgiordania, perché Israele non riconosce loro il diritto di vivere con il marito ed i figli.

 

Il cambiamento di politica verso i palestinesi con cittadinanza occidentale era stato portato all’attenzione del parlamentare Ephraim Sneh ancora prima che diventasse vice ministro della difesa. Già allora, Sneh era dell’idea che non avesse alcuno scopo cambiare la prassi, e che il  modificarla avrebbe danneggiato gli interessi israeliani. In una conversazione con Haaretz, appariva sincero nel garantire l’avvenuta cancellazione della politica verso americani ed europei, ed il prossimo approntare, da parte del proprio ufficio, di nuovi regolamenti, che “avrebbero reso le cose più semplici, anziché più complicate, ed avrebbero alleviato, anziché aggravare” la situazione. (Era tuttavia possibile comprendere, da questo, che le norme non avrebbero legalizzato la permanenza di migliaia di persone, ed in particolare di coloro, adulti e bambini, che erano rimasti anche dopo lo scadere del visto).

 

Ma la gioia è prematura: durante le ultime due settimane, i funzionari hanno continuato a vietare l’ingresso anche a coloro che sono sposati e hanno figli qui, e a coloro che sono giunti in visita. Forse che costoro sono semplicemente “resti della situazione precedente”, come si è espresso Sneh? O testimonia anche il fatto che questi non è il solo a decidere, com’era evidente dalla sua posizione sull’eliminare i blocchi stradali?

 

Sulla scena israeliana, comandanti dell’esercito (alcuni dei quali sono coloni) agiscono insieme a politici, giuristi ed accademici, che hanno il terrore dell’equilibrio demografico. Per loro, la Linea Verde non esiste. Hanno ideato la Legge di Cittadinanza, che ha ampliato in modo crasso la discriminazione contro gli arabi israeliani, intervenendo nel loro diritto ad avere una vita famigliare. Perché non agiscono nello stesso modo oltre la Linea Verde, dove vige l’editto militare? E se Sneh smette di essere vice ministro alla difesa, chi può garantire che un vice del partito Kadima non cancelli la cancellazione?

 

Più ancora di quanto non facesse prima, il sistema israeliano oggi nega il fatto che sono il reprimere ed il discriminare, parte integrante di ogni occupazione, a creare la minaccia per la sicurezza. Al massimo è disponibile a concedere “miglioramenti” e ad assegnare “favori” – non a riconoscere diritti.

 

 

(traduzione di Paola Canarutto)

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