Palestine Chronicle. Di Ramzy Baroud. (Alla memoria di Ghassan Kanafani, leader palestinese e intellettuale impegnato, assassinato dal Mossad israeliano l’8 luglio 1972).
Alcuni anni prima dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, avvenuta nel 2003, i media statunitensi avevano introdotto molti personaggi nuovi, promuovendoli come esperti, che contribuirono ad amplificare la propaganda statunitense, e che alla fine permisero al governo degli Stati Uniti di ottenere un discreto sostegno popolare a favore della guerra.
Sebbene negli anni successivi l’entusiasmo per la guerra sia pian piano scemato, l’invasione dell’Iraq è iniziata con un mandato popolare relativamente forte che ha permesso al presidente degli Stati Uniti George W. Bush di rivendicare il ruolo di liberatore dell’Iraq, di combattente del terrorismo e di difensore degli interessi globali degli Stati Uniti nel mondo. Secondo un sondaggio CNN/USA Today/Gallup condotto il 24 marzo 2003 – pochi giorni dall’inizio dell’invasione – il 72% degli americani era favorevole alla guerra.
Ma soltanto adesso iniziamo a comprendere appieno l’enorme castello di menzogne, inganni e falsificazioni utilizzato nel plasmare la narrazione della guerra e il ruolo sinistro svolto dai media mainstream nel demonizzare l’Iraq e nella disumanizzazione del suo popolo. Gli storici del futuro continueranno a svolgere il compito di svelare la cospirazione bellica, ancora per molti anni a venire.
Tenendo presente questo compito, è anche importante riconoscere il ruolo svolto dagli informatori nativi dell’Iraq, come li descriverebbe il defunto professore palestinese Edward Said. Secondo l’influente intellettuale palestinese, “l’informatore nativo (è) un servo volontario dell’imperialismo”.
Grazie alle diverse invasioni e agli interventi militari americani, questi informatori sono cresciuti di numero e anche di utilità al punto che, in vari circoli intellettuali e mediatici occidentali, essi rappresentano quella che, erroneamente, viene considerata “la realtà dei fatti” nella maggior parte dei paesi arabi e musulmani. Dall’Afghanistan, all’Iran, alla Siria, alla Palestina, alla Libia e, naturalmente, all’Iraq, insieme ad altri, questi esperti ripetono costantemente messaggi creati ad hoc per servire gli interessi statunitensi e occidentali.
Questi esperti vengono spesso presentati come dissidenti politici. Sono reclutati – sia ufficialmente, attraverso think tank finanziati dal governo, che in altri modi – dai governi occidentali per fornire una rappresentazione conveniente delle varie realtà presenti nel Medio Oriente – e altrove – come giustificazione razionale, politica o morale della guerra e per le numerose altre forme di intervento.
Questo fenomeno è stato ampiamente compreso da molti, soprattutto quando le sue disastrose conseguenze sono divenute troppo evidenti, come nel caso dell’Iraq e dell’Afghanistan; al contrario, un altro tipo di fenomeno riceve raramente la medesima e necessaria attenzione. Nel secondo caso, infatti, l’intellettuale non è necessariamente un informatore, ma piuttosto una vittima, il cui messaggio è interamente plasmato dal suo senso di autocommiserazione e vittimismo. Nel processo di comunicazione di questo vittimismo collettivo, l’intellettuale fa un torto al suo popolo, presentandolo come sfortunato e privo di qualsivoglia elemento umano.
La Palestina ne è un caso emblematico.
L’intellettuale vittima della Palestina non è un intellettuale secondo la definizione più classica. Said definisce l’intellettuale come “un individuo dotato della facoltà di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o un’opinione”. Gramsci sosteneva che gli intellettuali sono “(coloro) che sostengono, modificano e alterano i modi di pensare e il comportamento delle masse”. Si riferiva a loro come a dei fornitori di coscienza. La figura dell’intellettuale vittima non è nulla di tutto ciò.
Nel caso della Palestina, questo fenomeno non è stato affatto casuale. Visti gli spazi limitati a disposizione dei pensatori palestinesi per poter parlare apertamente e sinceramente dei crimini israeliani e della resistenza palestinese all’occupazione militare e all’apartheid, alcuni hanno scelto strategicamente di utilizzare qualsiasi margine disponibile per comunicare ogni tipo di messaggio che potesse essere normalmente accettato dai media e dal pubblico occidentali.
In altre parole, affinché gli intellettuali palestinesi possano operare ai margini della società occidentale mainstream, o anche all’interno dello spazio assegnato da alcuni gruppi pro-palestinesi, è possibile “permettere loro di narrare” solo in quanto fornitori di vittimismo. Niente di più.
Chi ha familiarità con il discorso intellettuale palestinese in generale, soprattutto dopo la prima grande aggressione israeliana lanciata contro Gaza nel 2008-2009, avrà sicuramente notato come le narrazioni palestinesi riguardanti la guerra, che raramente vengono accettate, si discostano dal vittimismo palestinese decontestualizzato e depoliticizzato. Mentre la comprensione della depravazione di Israele e dell’orrore dei suoi crimini di guerra è fondamentale, alle voci palestinesi a cui viene dato un palcoscenico per affrontare il tema di questi crimini viene spesso negata la possibilità di presentare le loro narrazioni sotto forma di solide analisi politiche o geopolitiche, per non parlare della denuncia dell’ideologia sionista di Israele o della difesa orgogliosa della resistenza palestinese.
Molto è stato scritto sull’ipocrisia dell’Occidente nel gestire le conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina, soprattutto se paragonata alla pluridecennale occupazione israeliana della Palestina o alle guerre genocide di Israele contro Gaza. Ma ben poco è stato detto sulla natura dei messaggi ucraini se confrontati con quelli dei Palestinesi: i primi esigenti e titolati, mentre i secondi sono per lo più passivi e imbarazzati.
Mentre gli alti funzionari ucraini twittano spesso dichiarazioni secondo le quali i funzionari occidentali possono “andare a farsi f***re”, i rappresentanti palestinesi implorano e supplicano di continuo. L’ironia sta nel fatto che i funzionari ucraini attaccano proprio le nazioni che li riforniscono di miliardi di dollari di armi letali, mentre quelli palestinesi sono attenti a non offendere le stesse nazioni che supportano Israele con le stesse armi utilizzate per uccidere i civili palestinesi.
Si può sostenere che i Palestinesi stiano adattando il linguaggio in base agli spazi politici e mediatici che hanno a loro disposizione. Tuttavia, questo non spiega perché molti Palestinesi, anche all’interno di ambienti politici e accademici amichevoli, possano considerare il proprio popolo solo come vittima e niente di più.
Non si tratta di un fenomeno nuovo. Risale ai primi anni della guerra israeliana contro il popolo palestinese. L’intellettuale palestinese di sinistra Ghassan Kanafani, come altri, era consapevole di questa dicotomia.
Kanafani ha contribuito alla consapevolezza intellettuale tra le varie società rivoluzionarie del Sud globale durante un’epoca critica per le lotte di liberazione nazionale ovunque. È stato insignito postumo del Premio Lotus per la letteratura dalla Conferenza degli Scrittori Afro-Asiatici nel 1975, tre anni dopo essere stato assassinato da Israele a Beirut, nel luglio 1972.
Come altri della sua generazione, Kanafani era irremovibile nel presentare la vittimizzazione palestinese come parte integrante di una complessa realtà politica di occupazione militare israeliana, colonialismo occidentale e imperialismo guidato dagli Stati Uniti. Viene spesso raccontata la famosa storia di come conobbe sua moglie, Annie, nel Sud del Libano. Quando Annie, una giornalista danese, arrivò nel Sud del Libano nel 1961, chiese a Kanafani di poter visitare i campi profughi palestinesi. “La mia gente non è un animale da zoo”, rispose Kanafani, aggiungendo: “Devi avere una buona conoscenza di loro prima di andare a visitarli”. La stessa logica può essere oggi applicata a Gaza, a Sheikh Jarrah e a Jenin.
La lotta palestinese non può essere ridotta a una mera conversazione sulla povertà o sui mali della guerra, ma deve essere ampliata per includere contesti politici più ampi, la cronologia degli eventi storici che hanno portato in primo luogo alle tragedie attuali. Il ruolo dell’intellettuale palestinese non può fermarsi a trasmettere la vittimizzazione del popolo palestinese, lasciando ad altri, alcuni dei quali spesso parlano a nome dei Palestinesi, il ruolo molto più consequenziale – e intellettualmente impegnativo – di analizzare i fatti storici, politici e geopolitici.
È piuttosto edificante e gratificante vedere finalmente più voci palestinesi incluse nella discussione sulla Palestina. In alcuni casi, i Palestinesi sono addirittura al centro di queste conversazioni. Ma perché la narrazione palestinese sia davvero rilevante, i Palestinesi devono assumere il ruolo dell’intellettuale gramsciano, come portatori di coscienza, e abbandonare del tutto il ruolo di intellettuale vittima. In effetti, il popolo palestinese non è un “animale da zoo”, ma una nazione con un programma politico, capace di articolare, resistere e infine conquistare la propria libertà, come parte di una lotta molto più vasta per la giustizia e la libertà in tutto il mondo.