I Palestinesi non sono dei bugiardi: contrastare la violenza della delegittimazione mediatica

Palestinechronicle.com. Di Ramzy Baroud e Romana Rubeo. Il 19 gennaio, durante una delle incursioni effettuate nella Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano ha arrestato un giornalista palestinese, Abdul Muhsen Shalaldeh, vicino alla città di Al-Khalil (Hebron). Questa è solo l’ultima di una serie impressionante di violazioni compiute contro i giornalisti palestinesi e contro la libertà di espressione.

Pochi giorni prima, il responsabile del sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), Naser Abu Baker, aveva reso note alcune cifre drammatiche durante una conferenza stampa tenuta a Ramallah. “Dal 2000, 55 giornalisti sono stati uccisi dal fuoco o dai bombardamenti israeliani“, ha affermato. Altre centinaia sono stati feriti, arrestati o incarcerati. Nonostante questa realtà sia impressionante, gran parte di essa viene censurata dai media tradizionali.

L’assassinio da parte dei soldati dell’occupazione israeliana dell’esperta giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, avvenuto l’11 maggio dello scorso anno, ha rappresentato un’eccezione, grazie anche all’influenza internazionale dell’emittente televisiva per la quale lavorava, Al Jazeera. Tuttavia, Israele e i suoi alleati si sono dati da fare fin da subito per nascondere la notizia, ricorrendo alla solita tattica di diffamare coloro che osano sfidare la narrazione israeliana.

I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per svolgere la loro missione di diffusione della verità sulla continua oppressione israeliana contro i Palestinesi. Il loro lavoro è fondamentale, non solo per l’ottima ed equilibrata copertura mediatica, ma per la causa stessa della giustizia e della libertà in Palestina.

In un recente rapporto del 17 gennaio, il PJS ha descritto nel dettaglio alcune delle sconvolgenti esperienze accadute ai giornalisti palestinesi. “Decine di giornalisti sono stati presi di mira dalle forze di occupazione e dai coloni durante lo scorso anno, (che ha registrato) il più alto numero di attacchi preoccupanti contro i giornalisti palestinesi”.

I danni inflitti ai giornalisti palestinesi non sono soltanto fisici e materiali. Essi vengono costantemente esposti anche ad una minaccia molto più subdola, ma altrettanto pericolosa: la costante delegittimazione del loro lavoro.

La brutalità della delegittimazione.

Il 18 gennaio scorso, uno degli autori di questo articolo, Romana Rubeo, ha partecipato ad un incontro con oltre 100 giornalisti italiani che aveva lo scopo di fornire suggerimenti su come riportare notizie in modo accurato sulla Palestina. La Rubeo ha fatto tutto il possibile per trasmettere alcune informazioni, discusse anche in questo articolo, che mette in pratica quotidianamente come Direttore Responsabile del Palestine Chronicle.

Tuttavia, una nota giornalista israeliana, spesso apprezzata per i suoi coraggiosi reportage sulla Palestina, ha lanciato una bomba quando ha suggerito che non ci si può sempre fidare dei Palestinesi per quanto riguarda i piccoli dettagli. Ha affermato qualcosa del genere: Sebbene la verità sia dalla parte dei Palestinesi, non ci si può fidare completamente dei piccoli dettagli, mentre gli israeliani, al contrario, sono più affidabili sulle piccole cose, ma mentono a proposito del quadro complessivo.

Per quanto una simile opinione possa sembrare oltraggiosa – per non dire orientalista -, essa non ha nulla da invidiare alla macchina hasbara del governo israeliano, gestita dallo stato.

Ma è vero che non ci si può fidare dei Palestinesi per quanto riguarda i piccoli particolari?

Quando Abu Akleh è stata uccisa a Jenin, non era l’unica giornalista ad essere stata presa di mira. Il suo collega Ali al-Samoudi, un altro giornalista palestinese, era presente e anche lui è stato colpito e ferito alla schiena da un proiettile israeliano.

Ovviamente, al-Samoudi è stato il principale testimone oculare di ciò che è avvenuto quel giorno. Dal suo letto d’ospedale ha dichiarato ai giornalisti che non c’erano combattimenti in quell’area; che lui e Shireen indossavano giubbotti antiproiettile chiaramente contrassegnati; che erano stati presi di mira intenzionalmente dai soldati israeliani e che i combattenti palestinesi non erano affatto nella zona dalla quale erano partiti i colpi.

Tutto ciò è stato ignorato da Israele e, di conseguenza, anche dai media mainstream occidentali, poiché, apparentemente, “non ci si può fidare dei Palestinesi per quanto riguarda i piccoli dettagli”.

Tuttavia, le indagini svolte dai gruppi internazionali per i diritti umani e, alla fine, anche una timida ammissione di colpevolezza da parte di Israele, hanno dimostrato che il racconto di al-Samoudi era il più onesto e veritiero nei dettagli. Questo episodio si è ripetuto centinaia di volte nel corso degli anni: fin dall’inizio, i punti di vista dei Palestinesi vengono liquidati come falsi o esagerati e la narrazione israeliana viene considerata come l’unica verità possibile. Ma, alla fine, la verità viene a galla, dando ragione ogni volta alla parte palestinese. Molto spesso, la verità viene rivelata solo in minima parte e troppo tardi.

Il tragico omicidio del dodicenne palestinese Mohammed al-Durrah rimane ancora oggi l’episodio più vergognoso della parzialità dimostrata dai media occidentali. La morte del ragazzo, ucciso dalle truppe di occupazione israeliane a Gaza nel 2000 mentre si stava riparando dagli spari accanto al padre, è stata essenzialmente imputata ai Palestinesi, prima che la narrazione del suo omicidio venisse riscritta suggerendo che forse era stato ucciso dal fuoco incrociato. Questa versione della storia è poi cambiata in seguito, quando il racconto palestinese del tragico evento è stato accettato con riluttanza. Tuttavia, la storia non è finita qui, poiché la hasbara sionista ha continuato a proporre la sua narrazione, diffamando coloro che avevano adottato la versione palestinese definendoli anti-israeliani o addirittura antisemiti.

(Nessun) permesso di narrare.

Sebbene negli ultimi anni il giornalismo palestinese abbia dimostrato la sua efficacia – le guerre contro Gaza ne sono un esempio lampante – grazie al potere dei social media e alla possibilità di diffondere informazioni direttamente ai consumatori di notizie, le sfide rimangono enormi.

Circa quarant’anni dopo la pubblicazione del saggio di Edward Said “Permesso di narrare” e oltre dieci anni dopo la poesia fondamentale di Rafeef Ziadah “We Teach Life, Sir”, sembra che, in alcune piattaforme mediatiche e ambienti politici, i Palestinesi debbano ancora ottenere il permesso per poter narrare, in parte a causa del razzismo anti-palestinese che continua a prevalere, ma anche perché, secondo il giudizio di un giornalista quasi sicuramente pro-palestinese, al racconto palestinese non possono essere affidati i piccoli dettagli.

Tuttavia, c’è ancora tanta speranza in questa storia. C’è una nuova, potente e coraggiosa generazione di attivisti palestinesi – autori, scrittori, giornalisti, blogger, registi e artisti – che è più che qualificata per rappresentare i Palestinesi e presentare un dibattito politico coeso, non fazioso e universale sulla Palestina.

Una nuova generazione alla ricerca della verità.

In effetti, i tempi sono cambiati e i Palestinesi non hanno più bisogno di filtri – come coloro che parlano a loro nome, poiché si suppone che i Palestinesi siano intrinsecamente incapaci di farlo.

Gli autori dell’articolo hanno recentemente intervistato due rappresentanti di questa nuova generazione di giornalisti palestinesi, due voci forti che promuovono l’autentica presenza palestinese nei media internazionali: i giornalisti e redattori Ahmed Alnaouq e Fahya Shalash.

Shalash è una reporter che vive in Cisgiordania e che ha parlato della copertura mediatica in base alle priorità palestinesi, citando molti esempi di storie importanti che spesso non vengono raccontate.  “Come donne palestinesi, abbiamo molti ostacoli nella nostra vita e sono (tutti) legati all’occupazione israeliana, perché è molto pericoloso il lavoro di giornalista. Tutto il mondo ha visto cosa è successo a Shireen Abu Akleh per aver raccontato la verità sulla Palestina”, ha detto.

Shalash si rende conto che essere una Palestinese che racconta la Palestina non è solo un’esperienza professionale, ma anche emotiva e personale. “Quando lavoro e sono al telefono con le famiglie dei prigionieri o dei martiri palestinesi, a volte scoppio in lacrime”.

In effetti, le storie degli abusi e degli attacchi contro le donne palestinesi da parte dei soldati israeliani non sono certo un argomento mediatico. “Israele indossa la maschera della democrazia; finge di avere a cuore i diritti delle donne, ma non è affatto quello che accade qui”, ha detto la giornalista palestinese.

“Colpiscono le giornaliste palestinesi perché sono fisicamente più deboli; le maledicono con un linguaggio molto inappropriato. Sono stata personalmente detenuta per un interrogatorio dalle forze israeliane. Questo ha influito sul mio lavoro. Mi hanno minacciata, dicendo che se avessi continuato a ritrarli come criminali nel mio lavoro, mi avrebbero impedito di fare la giornalista”.

“Nei media occidentali si continua a parlare di diritti delle donne e di uguaglianza di genere, ma noi non abbiamo alcun diritto. Qui non viviamo come in un qualsiasi altro paese”, ha aggiunto.

Da parte sua, Alnaouq, che è a capo dell’organizzazione palestinese “We Are Not Numbers”, ha spiegato come i media tradizionali non permettano mai alle voci palestinesi di essere presenti nei loro servizi. Anche i pezzi scritti da Palestinesi vengono “profondamente modificati”.

“È anche colpa dei redattori”, ha detto. “A volte commettono gravi errori. Quando un Palestinese viene ucciso a Gaza o in Cisgiordania, i redattori dovrebbero dire chi è il colpevole, ma i media omettono spesso questa informazione. Non menzionano Israele come responsabile. Hanno una sorta di agenda che vogliono imporre”.

Alla domanda su come cambierebbe la copertura mediatica della Palestina se lavorasse come redattore in una pubblicazione occidentale mainstream, Alnaouq ha risposto:

“Direi solo la verità. E questo è ciò che vogliamo come Palestinesi. Vogliamo la verità. Non vogliamo che i media occidentali siano prevenuti nei nostri confronti e attacchino Israele, vogliamo solo che dicano la verità come dovrebbe essere”.

Dare priorità alla Palestina.

Solo le voci palestinesi possono trasmettere le storie cariche di forti emozioni che riguardano la Palestina, storie che non arriveranno mai sui media tradizionali; e quando ci arrivano, queste storie sono spesso prive di contesto, danno priorità alle opinioni israeliane – se non a vere e proprie bugie – o addirittura a volte omettono del tutto i Palestinesi. Ma come il lavoro di Abu Akleh, al-Samoudi, Alnaouq, Shalash e di altre centinaia di persone continua a dimostrare, i Palestinesi sono qualificati per produrre giornalismo di alta qualità, con integrità e professionalità.

I Palestinesi devono essere il fulcro della narrazione palestinese in tutte le sue manifestazioni. È ora di abbandonare il vecchio modo di pensare che vedeva i Palestinesi come incapaci di narrare, o come un peso nella loro stessa storia, come personaggi secondari che possono essere sostituiti o rimpiazzati da coloro che vengono ritenuti più credibili e veritieri. Questo è il minimo perché tutto ciò non venga giustamente scambiato per un pensiero orientalista di un’epoca passata; o peggio ancora.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi