I palestinesi si fanno largo tra armi e filo spinato per conquistare un posto al sole.

9 agosto 2007
I palestinesi si fanno largo tra armi e filo spinato per conquistare un posto al sole
FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME
Hanan Wael, 25 anni, laurea in lingue straniere all’Università di Bir Zeit, preferisce la piscina, una delle dieci di Ramallah. Lo «stabilimento balneare» sul mar Morto «Ein Fascha, the arab beach», l’unica spiaggia a disposizione dei palestinesi della Cisgiordania, poche decine di metri quadrati di arenile circondati da un reticolato, è il simbolo della prigione in cui si sente rinchiusa: «Non ci sono mai stata, ho la claustrofobia solo a pensare di fare il bagno in quello zoo». Sua madre Hala qualche volta va con le quattro sorelle. Un’oretta e mezza di macchina in direzione di Gerico ed ecco il cartello «Dead Sea»: a sinistra l’arab beach spartana e recintata, a destra le dune del deserto del Negev spezzate dalle sofisticate stazioni termali israeliane a loro precluse.

Una volta Hanan e la sua famiglia nuotavano nel Mediterraneo. «Fino a una decina di anni fa l’estate andavamo a Gaza», ricorda. Poi, prima che i palestinesi si dividessero tra Hamas e al Fatah, sono state divise le loro strade. In mezzo, spartiacque impossibile da attraversare senza un permesso speciale, il territorio israeliano. I gaziani hanno perduto la libertà e gli abitanti della Cisgiordania l’accesso alla spiaggia «nazionale». Nelle notti terse, chi vive ai piani più alti dei palazzi di Ramallah vede all’orizzonte le luci del porto di Tel Aviv, lo stesso mare di Gaza.

Oggi, quando l’afa estiva incalza, l’unica soluzione è un tuffo dal trampolino. «Le piscine sono l’orgoglio della Cisgiordania», spiega Ahmed Rajoub, 30 anni, bagnino di Al-Khahuf, la piccola struttura fiore all’occhiello del villaggio di Dura, vicino Hebron. Qui, tra le colline di ulivi e vigneti, vengono a rinfrescarsi 2500 palestinesi ogni weekend. C’è anche un’area riservata ai vip, dove si mormora venisse Mustafa Barghouti prima di finire in prigione. Il biglietto costa dieci schekel, 2 euro, una spesa che vale la giornata. I ragazzini schiamazzano indifferenti ai richiami di Ahmed, gli uomini discutono immersi nell’acqua, le donne siedono a bordo vasca coperte fino ai piedi come le bagnanti che si vedono passeggiare in spiaggia nella Gaza di Hamas. Il proprietario, Abdullah Abu Znayud, assicura che presto farà costruire una sezione femminile tale e quale quella di Nablus: «La nostra cultura araba non permette le piscine miste». E neppure la vendita di alcolici al chiosco sotto l’ombrellone: «C’è tutto il resto, caffè, spremute, succhi di frutta, Fanta e Coca Cola».

A Ramallah è diverso. La San Francisco della Cisgiordania è l’ultima frontiera della laicità palestinese. Anche in piscina. L’impianto dell’Hotel Gran Park, buon retiro dei dirigenti di Al Fatah fuggiti dalla guerra civile di Gaza, è uno dei più frequentati. Lettini a bordo vasca, trampolino, bar fornito di Baileys e Bacardi Breeze. Fatema Khadir sfoggia un bikini rosso: «Mi piacerebbe andare al mare. Ma Gaza è chiusa, e comunque con le milizie islamiche in giro a far la ronda sarebbe impraticabile. L’arab beach sul mar Morto è una galera controllata dagli israeliani, come se non bastassero i già non piacevoli cinquanta gradi di temperatura. Resta la piscina». Infila i capelli lunghi e neri nella cuffia di silicone e s’immerge rapida.

Dopo la seconda intifada e la chiusura totale dell’accesso al mare, quasi ogni città della Cisgiordania ha aperto un impianto sportivo. Un fenomeno massiccio che ha incuriosito il quotidiano israeliano Haaretz. Betlemme ha una struttura simile ad Al Khahuf, Tubas un’altra. Dal centro ricreativo di Jenin proveniva uno dei kamikaze dell’attentato al ristorante Sbarro di Gerusalemme, nel 2001. Moderne o conservatrici, le piscine rappresentano la vacanza dei palestinesi meno facoltosi. Ma il sogno proibito resta l’acqua salmastra. Fosse pure quella con l’orizzonte spezzato dell’acquario di «Ein Fascha».

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