
PressTV. Di Alireza Akbari. Domenica 19 gennaio, il movimento di resistenza Hamas con sede a Gaza ha consegnato tre prigionieri israeliani al Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). L’episodio è stato segnato da una scena piuttosto insolita: prigionieri che stringevano borse con regali mentre si scambiavano sorrisi coi loro rapitori.
Nel momento in cui stavano salendo sui veicoli del CICR, i loro volti erano illuminati dai sorrisi. I veicoli si sono poi allontanati a gran velocità, portando con loro sia i prigionieri che l’eccezionale dimostrazione di cordialità dei combattenti della resistenza di Hamas.

La consegna dei prigionieri è avvenuta tra i festeggiamenti giubilanti dei palestinesi di Gaza, scesi in piazza dopo lo storico accordo di cessate il fuoco.
I prigionieri sono stati trasportati con tranquillità all’interno di un furgone bianco, per poi incontrare un veicolo del CICR che era in attesa del loro trasferimento nei territori occupati dalla Striscia di Gaza assediata.
Una delle prigioniere, la 28enne Emily Damary, è stata vista sorridere rivolgendosi ai combattenti di Hamas mentre usciva dal furgone, allungando velocemente la mano verso di loro in un gesto che molti ritengono sia la dimostrazione chiara del trattamento umano riservato agli israeliani durante la prigionia dal movimento di resistenza di Gaza.
Molti hanno sottolineato come i combattenti di Hamas abbiano sempre garantito il benessere fisico e psicologico dei prigionieri.
Tuttavia, i media occidentali, facendo eco alle narrazioni israeliane, hanno rapidamente liquidato il gesto come mera propaganda, sollevando dubbi sulle intenzioni di Hamas nonostante la pubblica dimostrazione di comportamento umano.
I combattenti di Hamas hanno consegnato ai prigionieri israeliani certificati di rilascio e sacchetti con regali. Il gesto è stato definito come di “buona volontà” verso coloro il cui regime è stato responsabile dell’uccisione di oltre 47.000 palestinesi, la maggior parte dei quali bambini e donne.
I tre prigionieri israeliani, Romy Jonin, 24 anni, Emily Damary, 28 anni, e Doron Shtanbar Khair, 31 anni, sono stati consegnati al CICR nell’ambito della Fase 1 del cessate il fuoco, che è un elemento essenziale dell’accordo entrato in vigore domenica mattina. Il cessate il fuoco dovrebbe durare sei settimane.

Secondo i termini dell’accordo, Hamas dovrebbe rilasciare 33 prigionieri israeliani, e in cambio Israele libererà centinaia di palestinesi detenuti illegalmente nelle prigioni israeliane.
Le buone condizioni di salute dei tre prigionieri israeliani sono state confermate sia dalle loro famiglie che dai medici. Mandy, la madre di Damary, ricevendo a casa la figlia ha affermato che le sue condizioni erano “migliori di quanto ci aspettassimo”.
“È la donna più felice al mondo”, ha dichiarato secondo quanto riportato dai media israeliani.
Nella stessa giornata, i palestinesi hanno potuto gioire tranquillamente, provando un senso di sollievo, grazie alla pausa nella campagna genocidaria di Israele a Gaza. Per festeggiare, hanno cantato l’inno nazionale palestinese, sventolato bandiere riunendosi nella città di Beitunia, a ovest di Ramallah, per dare un caloroso benvenuto ai loro cari liberati dalle prigioni israeliane.
Nelle prime ore di lunedì mattina, un totale di 90 palestinesi rapiti sono stati liberati dalle forze di occupazione israeliane, molti dei quali con visibili segni di ferite sul viso.
Gli autobus che li trasportavano dalla tristemente famosa prigione di Ofer del regime israeliano sono arrivati a Beitunia, dove le loro famiglie e altri palestinesi li attendevano per accoglierli con calorosi abbracci.
Si è assistito a scene toccanti: una madre che abbracciava la figlia, un figlio che baciava le mani della madre e una figlia che piangeva tra le braccia del padre. Nemmeno il lancio di gas lacrimogeni e proiettili di gomma da parte delle forze di occupazione, per impedire i festeggiamenti, è riuscito a smorzare il loro entusiasmo.

I social media sono stati inondati di immagini e video dei detenuti palestinesi rilasciati, tutti incriminati con false accuse. Molti sono ricomparsi con un colorito pallido, capelli bianchi e graffi ben visibili sul viso, ricordi ancora freschi delle torture e delle dure condizioni sopportate nelle prigioni israeliane.
Riferendosi alla netta differenza tra la salute fisica e psicologica dei prigionieri israeliani e dei detenuti palestinesi, lunedì Hamas ha rilasciato una dichiarazione sottolineando il “contrasto tra i valori e l’etica della resistenza e la brutalità e il fascismo dell’occupazione”.
Tra i palestinesi rilasciati in base all’accordo c’era anche Khalida Jarrar, 61 anni, attivista e parlamentare del consiglio legislativo palestinese per il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).
Jarrar, che riusciva a malapena a camminare, è stata sorretta dalla gente mentre veniva accolta tra gli applausi. Tuttavia, il suo aspetto fragile, con capelli bianchi e corporatura esile, ha ricevuto un’attenzione ampia e globale sui social media.
Jarrar ha trascorso oltre sei anni nelle carceri israeliane durante l’ultimo decennio, suddivisi in cinque diversi periodi di detenzione, la maggior parte dei quali in regime di cosiddetta “detenzione amministrativa” senza accuse.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani e la sua famiglia, Jarrar è stata costretta all’isolamento in una cella angusta di 2 per 1,5 metri durante gli ultimi sei mesi della sua prigionia.
Il suo avvocato ha descritto le condizioni disumane della sua prigionia come “una cella soffocante dotata solo di una panca di cemento e un bagno sporco”, aggiungendo che “l’aria era così scarsa che Jarrar era costretta a sdraiarsi sul pavimento per respirare attraverso una fessura tra la porta e il pavimento”.
Inoltre, l’attivista politica palestinese soffre di numerosi problemi di salute, tra cui trombosi venosa profonda e diabete, che hanno ulteriormente aggravato le sue difficoltà in detenzione.
Nel dicembre 2023, era stata arrestata per l’ennesima volta con accuse infondate di “sostegno al terrorismo”, secondo le autorità israeliane, ed è stata trattenuta in detenzione amministrativa senza alcuna accusa.
Neve Tirza, la prigione femminile di Ramla dove è stata detenuta Jarrar, è stata al centro di varie indagini che hanno evidenziato una grave situazione di sovraffollamento, frequente uso dell’isolamento e celle anguste che forniscono a ogni prigioniera solo due metri di spazio personale.
Nel 2021, Jarrar è stata condannata a due anni di carcere per “appartenenza a un’associazione illegale”.
Ma il tribunale militare israeliano ha riconosciuto, nello specifico, che non aveva alcun coinvolgimento negli “aspetti organizzativi o militari” dell’organizzazione. Pertanto, all’epoca, i gruppi per i diritti umani avevano denunciato fermamente la sua condanna, descrivendola come una violazione del suo diritto alla libertà di associazione.
Durante la sua prigionia, Jarrar ha dovuto sopportare anche gravi perdite personali, tra cui la morte della figlia trentunenne Suha, così come della madre, del padre e del nipote Wadia.
Le tragedie che Jarrar ha vissuto durante tutti gli anni trascorsi dietro le sbarre rappresentano l’enorme sofferenza che ha colpito quasi tutti i detenuti palestinesi trattenuti illegalmente nelle diverse e infami prigioni israeliane.
Shatha Jarabaa, 24 anni, laureata in biologia e biochimica alla Birzeit University, è un’altra detenuta palestinese rilasciata lunedì mattina in base all’accordo. Era stata arrestata per un post pubblicato sui social media in cui criticava la brutalità dell’esercito israeliano durante la sua campagna genocidaria a Gaza.
“Sono molto felice! Grazie a Dio sono fuori. Mi hanno trattato molto male in prigione. È stato orribile”, ha detto, parlando davanti a una folla festante che celebrava il rilascio dei detenuti palestinesi.
La corte illegittima del regime sionista aveva deliberatamente posticipato l’udienza di Jarabaa al 7 novembre 2024. Era stata rapita violentemente il 18 agosto, insieme a suo fratello Abdul Rahman.

Margaret Al-Ra’i, dipendente della Mezzaluna Rossa Palestinese, era tra i detenuti palestinesi rilasciati con lesioni fisiche visibili. Gli attivisti sui social media hanno evidenziato la sua mano rotta, fratturata durante un brutale assalto in una prigione israeliana.
Dopo il suo nuovo arresto avvenuto nel novembre 2024, un tribunale israeliano l’aveva condannata a sei mesi di detenzione amministrativa, una misura illegale e arbitraria soggetta a rinnovo.
In un video diventato virale su X (ex Twitter), Latifa Mshasha, un’altra detenuta palestinese liberata, ha descritto le strazianti condizioni sopportate dai prigionieri palestinesi in custodia nelle carceri israeliane.
“Ci hanno lasciati a terra per circa due ore con i cani. Stavamo congelando in quel momento. Era difficile e soffocante restare a terra. Ci parlavano in modo aggresssivo. I cani ci circondavano. Non sapevamo dove saremmo finiti. Cerchiamo di dimenticare e resistere. Sia lodato Dio”, ha detto.
Anche Jenin Amr, 22 anni, che ha trascorso 14 mesi in una prigione israeliana, è stata tra i palestinesi rilasciati durante la prima fase dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto tra le due parti.
Al suo ritorno, ha raccontato le terribili condizioni all’interno della prigione, affermando: “Non c’era nessun aspetto normale della vita: nessun cibo decente, nessuna coperta sufficiente, solo repressione e percosse. Siamo profondamente grati alla gente di Gaza per la loro pazienza e rendiamo omaggio a coloro che sono stati uccisi”.

Amal Shuja’iya, una detenuta palestinese liberata, ha raccontato il suo calvario dopo l’arresto e il successivo rilascio. “Siamo stati sottoposti a persecuzioni e abusi”, ha detto.
In un emozionante incontro, Dunya Ishteyeh ha riabbracciato sua madre, entrambe sopraffatte dalle lacrime. Riflettendo sul suo periodo sotto custodia israeliana, Ishteyeh ha detto: “Oh no, mamma, non ci posso credere. È impossibile! Sia lodato Dio. Stavo morendo. Mi stavano uccidendo”.
Anche Baraa Fuqahaa, 23 anni, ha rivelato la dura realtà della vita nelle prigioni israeliane. “Le condizioni erano estremamente difficili. Tutti hanno sentito parlare delle restrizioni e dell’oppressione che stavamo affrontando”, ha ribadito.
Fuqahaa ha descritto il suo confinamento in una stanza per 23 ore al giorno, a volte anche 24 ore.
“Ogni volta che si creava un problema, chiudevano a chiave la sezione, impedendoci persino di andare in cortile. In quei momenti, eravamo confinati nelle celle per 24 ore”, aggiungendo che le restrizioni si estendevano a tutti gli aspetti della vita, dalle cure mediche, al cibo e ad altre necessità basilari.
Hanan Malwani, 23 anni, ha ripetuto resoconti simili. “Sono stata incarcerata per cinque mesi in detenzione amministrativa, senza condanna. Non permettevano a tutte le ragazze di uscire contemporaneamente. Ne lasciavano una o due nella stanza per renderci le cose più difficili. Io ero una delle ragazze che restava spesso nella stanza”, ha detto.
Un’altra detenuta rilasciata, Rose Khweis, ha sottolineato la mancanza di assistenza medica nelle prigioni israeliane per i detenuti palestinesi. “Le condizioni del carcere erano terribili. La nostra situazione sanitaria era davvero pessima. Non ci hanno fornito cure mediche adeguate”, ha detto Khweis.
Ayham Jaradat, della città di Sa’ir, a nord di Al-Khalil/Hebron, è un altro detenuto rilasciato che domenica scorsa ha ricevuto un’accoglienza commossa dalla sua famiglia. Ha detto: “Che ogni prigioniero possa assaporare la libertà. Il dolore che loro [i detenuti palestinesi] affrontano, percosse, torture e oppressione, non dovrà mai essere dimenticato”.
Secondo le informazioni raccolte, 22 dei 90 detenuti palestinesi rilasciati dalle prigioni militari israeliane erano bambini, molti dei quali trattenuti in detenzione amministrativa senza accuse o processo.
Tra loro Asil Shadeh, una ragazza palestinese di 17 anni, rapita il 7 novembre 2023 durante una protesta contro l’uccisione di bambini palestinesi a Gaza. Stava sventolando una bandiera palestinese quando i soldati israeliani le hanno sparato a un piede, l’hanno ammanettata e l’hanno accusata di aver tentato di accoltellarli.

Anche lo scrittore e analista di Gaza Muhammad Shehada ha condiviso un’immagine di Tariq Abu Khdeir, un bambino americano-palestinese, sul suo account X, scrivendo che Khdeir è stato “rapito, picchiato fino a perdere i sensi, trattenuto e multato per il crimine di essere palestinese”.
“Israele vuole farvi credere che questo ragazzo sia un assassino, un terrorista, uno stupratore, un maniaco genocida, un mostro, un barbaro… Tutto tranne che un ostaggio! Solo i loro soldati in uniforme dell’IDF sono considerati ostaggi”, ha scritto.
Ha anche condiviso video di palestinesi umiliati dai soldati israeliani durante la guerra a Gaza.
“Durante il genocidio, per i soldati israeliani è diventata una sfida di TikTok quella di rapire i palestinesi, torturarli e umiliarli e costringerli davanti alla telecamera a sventolare la bandiera israeliana o cantare l’inno nazionale israeliano”.
La terribile situazione dei prigionieri palestinesi dopo il loro rilascio, insieme ai racconti delle orribili condizioni sopportate nelle carceri israeliane, hanno provocato una costante preoccupazione tra le famiglie, desiderando ardentemente la libertà dei loro cari.
Mentre alcune famiglie sono state riunite, altre continuano ad aspettare il ritorno dei loro cari.
Tra loro ci sono le famiglie di detenuti come Taleb Amr, 62 anni, che è stato imprigionato per 24 anni, scontando sette ergastoli, e Mohammad Nabil Al-Arkan di Hebron, che ha trascorso 30 anni nelle prigioni israeliane e sta lottando contro il cancro al fegato, affrontando gravi problemi di salute.
Gli attivisti hanno anche incolpato il regime israeliano per le orribili atrocità commesse contro i detenuti palestinesi, mettendo a confronto la brutalità dell’entità sionista contro i palestinesi, da una parte, col comportamento umano e gentile dei combattenti della resistenza di Hamas coi prigionieri israeliani rilasciati, dall’altra.
Nel tentativo di insabbiare la brutalità israeliana messa in atto contro i palestinesi, alcuni media occidentali hanno seguito le orme degli organi di stampa israeliani, descrivendo le condizioni dei rapiti palestinesi rilasciati e dei prigionieri israeliani in un modo che non è piaciuto agli attivisti.

Il quotidiano israeliano The Times of Israel ha titolato un articolo del 20 gennaio: “Le forze di Hamas distribuiscono sacchetti regalo agli ostaggi liberati come ricordo di una prigionia infernale”.
Il quotidiano ha inoltre definito la consegna di sacchetti regalo da parte di Hamas ai prigionieri israeliani come propaganda, mentre gli attivisti hanno descritto la copertura mediatica come una narrazione parziale della buona volontà di Hamas.
Allo stesso modo, un altro media del regime israeliano, Israel National News, ha intitolato il suo articolo del 19 gennaio “All’interno dei cinici sacchetti regalo di Hamas consegnati ai rimpatriati”.
Anche alcuni organi di informazione statunitensi hanno seguito la stessa narrazione. Il quotidiano americano New York Post ha presentato i sacchetti regalo consegnati da Hamas ai prigionieri israeliani con il titolo “Gli ostaggi israeliani liberati ricevono sacchetti regalo da Hamas in una commemorazione orribile della loro prigionia”.
Secondo gli analisti dei media, l’emittente, nel tentativo di ridicolizzare le azioni di Hamas, ha definito i sacchetti regalo come bizzarri, aggiungendo che Hamas ha diffuso “un video di propaganda altrettanto strano”.

L’emittente americana CNN ha intitolato un articolo del 20 gennaio “Hamas ha consegnato ai tre ostaggi dei sacchetti regalo al momento del loro rilascio. Ecco cosa c’era dentro”.
“Quando l’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, ha diffuso il suo video di propaganda del rilascio di tre ostaggi israeliani domenica sera, c’è stato un dettaglio sorprendente”, si legge nell’articolo.
In seguito alla copertura faziosa dell’evento, gli attivisti sui social media hanno invece sottolineato l’ottima salute fisica dei prigionieri israeliani, osservando che “il corpo non mente”.
Hanno anche fatto riferimento all’offuscamento della buona volontà di Hamas da parte di alcuni organi di stampa, che, riferendosi ai sacchetti regalo, li hanno definiti “tortura psicologica” e hanno ribadito che, al contrario, la tortura psicologica non è qualcosa che si può fingere.
Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi