Il Covid-19 è una sindemia e il “panico” è un’arma per il business – Parte XIII

Di Lorenzo Poli e Angela Lano. Iniziamo a chiamarla con il sui nome: sindemia. Già qua sarebbe un grandissimo passo avanti in quanto, come evidenziava l’anno scorso The Lancet: “Covid-19 is not a pandemic”, ma una “sindemia”. Per Richard Horton, direttore di The Lancet, la gestione dell’emergenza basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non avrebbe raggiunto l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. E così è stato!

Tutti gli interventi si sono concentrati sul taglio delle linee di trasmissione virale, sfociando in misure securitarie e in lockdown che, in violazione delle libertà costituzionali, hanno dato veramente pochi risultati.

Covid-19 non è una pandemia, che indica il diffondersi di un agente infettivo che colpisce più o meno indistintamente il corpo umano con la stessa rapidità e gravità ovunque, ma una sindemia, ovvero un fenomeno che implica una relazione tra più malattie e condizioni ambientali o socio-economiche. Come affermava The Lancet, l’interazione tra queste patologie e situazioni rafforza e aggrava ciascuna di esse.

Non ci interessa sapere se il Covid-19 sia stato bio-ingegnerizzato in laboratorio o sia naturale, ma sappiamo che è un virus che continua a mutare in natura, che è un “virus opportunista” e che continua a colpire persone pluri-patologiche (affette da malattie croniche o no), persone che vivono in zone molto inquinate, persone svantaggiate economicamente con redditi bassi o persone socialmente escluse ed emarginate in condizione socio-sanitarie ed edilizie pessime. Si tratta di fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su welfare state, ambiente e salute.

L’approccio sindemico alle crisi sanitarie e alla salute pubblica era stato formulato da Merril Singer nel 1990, consentendo di studiare al meglio l’evoluzione e il diffondersi di malattie facendo riferimento al contesto sociale, politico e storico in cui si diffonde. In Italia le più colpite sono state le zone le province di Bergamo e Brescia, ovvero tra le più industrializzate e inquinate d’Italia senza contare il costo in materia ambientale che portano le mono-culture e la zootecnia intensive (nella Provincia di Brescia circa 1.366.000 suini contro circa 1.244.000 abitanti). Sono stati pubblicati position paper da Medici ISDE e anche studi ecologici dalla Università di Brescia che, il 26 settembre 2020, ha provato la correlazione tra incidenza di Covid-19 e mortalità per tutte le cause che si sono verificate in Lombardia tra marzo e aprile 2020 e, dall’altro, l’esposizione cronica della popolazione lombarda ad elevate concentrazioni di particolato fine (PM2.5) e biossido di azoto (NO2), prendendo in considerazione anche la struttura demografica, le condizioni meteorologiche, e numerose variabili relative ad aspetti socio-economici.

Inoltre il Covid ha colpito le classi più povere soprattutto nei grandi agglomerati urbani, come per esempio negli Stati Uniti. Ad aprile 2020 a Chicago gli afroamericani, che sono il 30% della popolazione, hanno rappresentato il 72% dei morti per coronavirus. Nel Michigan, nella città di Detroit, il 14% della popolazione è afroamericana e tra loro il numero di vittime per coronavirus ha raggiunto il 40%. Stando sempre ai dati dell’analisi, in Louisiana, sono il 32%, ma hanno rappresentato il 70% dei morti per Covi-19.

Cosa si può pretendere in un Paese in cui il sistema sanitario è privato e le persone povere vivono nei ghetti? Queste morti, molto ben delineati per classe e razza, sono frutto della disuguaglianza economica che, in passato, ha permesso stermini di massa verso i nativi americani, mentre nel presente, lo permette nei confronti dei poveri.

Ma spostiamo il nostro sguardo sul presente e sul Brasile. Salvador di Bahia è una delle città più inquinate del Brasile e, guarda caso, una delle più colpite dalla sindemia da Covid-19. La popolazione più attaccata dal Covid è quella nera delle favelas. Le favelas di Salvador hanno un’estensione di decine e decine di km, sono agglomerazioni semi-urbane accatastate le une sulle altre (chi ha visitato i campi profughi in Libano può averne un’idea), dove è assolutamente impossibile mantenere qualsiasi tipo di distanziamento sociale.

Le favelas sono carenti di tutto: di servizi igienici degni di questo nome, di servizi sociali, di servizi medici. Sembra dir poco, ma è dire tanto: l’igiene è stato in passato la condizione principale per condurre l’umanità fuori dalle principali malattie mortali come vaiolo e colera. Le favelas oggi mantengono aperti negozi e attività, nonostante il lock-down, perché altrimenti la gente muore di fame. Stiamo parlando degli “emarginati degli emarginati” del mondo che vivono l’esclusione indotta dalla globalizzazione neoliberista. Allora cosa dovrebbero fare? Meglio morire di fame o di Covid? L’élite bianca schiavista non lascia loro altra scelta. Si ammalano di Covid per via del folle agglomeramento abitativo, della mancanza di sistemi igienico-sanitari, della presenza materiali tossici nelle loro case e nel loro ambiente (i tetti, mezzi rotti, sono per la maggior parte di amianto), della mancanza di cure e di medici di base. Quando arrivano, se arrivano, a qualche pronto soccorso pubblico super-intasato, sono già quasi morti. Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International, ha affermato due mesi fa: “I brasiliani di ascendenza africana hanno il 40% di probabilità in più di morire di Covid-19 rispetto alla popolazione bianca; negli Stati Uniti, 22.000 cittadini afroamericani e latino-americani sarebbero ancora vivi se il loro tasso di mortalità fosse stato uguale a quello dei bianchi”.

Gli intellettuali di sinistra e del movimento nero in Brasile, giustamente, affermano che la maggior parte delle vittime da Covid è tra la comunità afro-brasiliana, la maggioranza assoluta della popolazione dello Stato di Bahia e di Salvador, ma dovrebbero approfondire l’analisi e spiegare che queste persone vivono in agglomerati urbani estesi per km, privi, spesso, di qualsiasi condizione di decenza umana. Come lo raccontano loro, sembra che il virus sia razzista, ma razzista è il sistema socio-economico capitalista neoliberista a cui anche loro spesso aderiscono, in modo acritico quando invocano la vaccinazione di massa in stile messianico, facendo finta di non vedere che non sarà sicuramente la soluzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace, nemmeno un vaccino.

È vero che alcuni governi, come quello israeliano, stanno attuando apartheid sanitario e farmaceutico che discriminano popolazioni e categorie più povere, ma tale sistema è parte integrante del neoliberismo delle élite finanziarie e farmaceutiche mondiali. Sono le stesse lobby finanziarie che creano povertà e indebitamento esponenziale delle classi medie e popolari e che stanno creando un divario sempre più grande e profondo tra poverissimi e ricchissimi, i quali, durante il Covid-19, hanno incrementato più del 300% le loro ricchezze.

Sono le stesse case farmaceutiche che hanno storie di sopraffazione, sfruttamento e crimini e che, oggi, sono artefici della privatizzazione della sanità. La privatizzazione delle istanze più altre dell’agenda sanitaria globale ha portato sempre più un’espropriazione dei sistemi sanitari da parte delle case farmaceutiche in tutto il mondo. Sono le stesse compagnie farmaceutiche multimiliardarie che, nel mezzo di una crisi sanitaria globale, hanno continuato, e continuano, a dare la priorità ai profitti, a proteggere i loro monopoli e ad aumentare i prezzi, invece di dare la preminenza alla vita delle persone ovunque, compreso il Sud del mondo. Sono loro che hanno reso la salute non più un diritto, ma una merce: come possono essere la soluzione se sono il problema? Questo sicuramente fa anche emergere i fattori strutturali di questa crisi che invece è stata spacciata per “emergenza”. La sindemia da Covid-19 ha fatto risaltare tutte le contraddizioni del nostro modello di produzione e di sviluppo capitalistico tra le quali soprattutto la privatizzazione delle istanze più alte della salute globale facendo emergere sistemi ormai ben strutturati come il filantrocapitalismo di Bill Gates che, oltre a stanziare un sacco di fondi a case farmaceutiche, è tra i maggiori finanziatori dell’OMS e indirizzatori della ricerca sanitaria globale. Quindi si deve in parte anche a Gates il cosiddetto “squilibrio 10/90”, per il quale solo il 10% della ricerca sanitaria globale è dedicato alle malattie che colpiscono il 90% dei pazienti del mondo, mentre il 90% della ricerca è dedicato ad altre “priorità” molto più redditizie come i trattamenti per l’impotenza, l’obesità e l’insonnia che colpiscono il 10% della popolazione, cioè il Primo Mondo.

Un sistema che non preserva la salute, ma il profitto. Solo Cuba ci ha insegnato che si possono produrre “vaccini etici” interamente pubblici con attenzione al diritto alla salute per i cittadini senza alcun profitto e con una giusta informazione. Invece in Occidente si è scatenato il “panico” attraverso i media mainstream e un “linguaggio bellico” che ha prodotto un’informazione di guerra sul Covid-19 volta ad allarmare la gente per incrementare il consenso alle vaccinazioni su cui, ad oggi, non vi è alcuna informazione se non la versione delle case farmaceutiche accettata dagli enti regolatori e dai governi. Per non parlare della militarizzazione della pandemia e dei lock-down che non hanno dato frutti, quando si sarebbe potuto applicare test di massa casa per casa esattamente come avvenuto in Venezuela, implementando il tracciamento dei contagiati.

Nonostante ciò non ci possiamo limitare a denunciare l’evidenza della diffusione del virus tra i poveri. Bisogna denunciare l’esistenza di favelas, di agglomerati urbani indegni per degli esseri umani, la carenza della Sanità pubblica a favore della privata, e le politiche economiche criminali che causano tutto ciò. È arrivato il momento di denunciare il capitalismo e non solo il razzismo: il capitalismo è già, nella sua stratificazione gerarchica, razzista. Alla luce di tutto ciò, mantenere il lock-down e il coprifuoco, e riempire la città di cartelloni che invitano a “tenere il distanziamento sociale” è imbecille, perché non serve a nulla: nelle favelas, che sono i luoghi di diffusione principale del virus, non è possibile mantenere alcun distanziamento e tantomeno chiudere le attività commerciali. Dunque, il virus continuerà a diffondersi e a fare vittime, e questo verrà usato da politici e potentati economici, e da medici che non riescono a mettere insieme le cause con gli effetti, per continuare a imporre i loro diktat e affari loschi ai cittadini.

Da questa situazione non c’è uscita razionale.

Questo virus, ingegnerizzato o naturale che sia, discrimina tra ricchi e poveri (più che tra bianchi e neri), tra chi può stare a casa stipendiato e chi deve continuare a uscire nella folla per non morire di fame; tra chi può andare al medico appena starnutisce o ha un po’ di febbre, o pagare l’equivalente di mezzo salario minimo per un tampone, e chi non ha accesso ai servizi medico-sanitari di base.

Questo virus è sindemico, in quanto colpisce certe fasce della popolazione e certe condizioni socio-ambientali. Non tenerne conto nelle analisi e nello studio delle possibili soluzioni è ipocrita, illogico e senza esito.