Il detenuto palestinese nelle carceri dell’occupazione israeliana

palestinian-prisoner-dayA cura di Giuliano Stefanoni

Fin dal suo insediamento nei territori palestinesi, il governo israeliano ha perseguito una “politica dell’arresto” che nel tempo si è declinata sia in operazioni casuali che programmate. Tale politica è tesa all’annichilimento del popolo palestinese e della sua volontà di porre fine all’occupazione istituendo uno Stato indipendente. All’inizio del 2014 il numero di detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri e nei campi di prigionia israeliani è arrivato a sfiorare le 5000 unità tra uomini e donne. Di essi: 230 sono minorenni, 200 quelli soggetti al regime di “detenzione amministrativa”, 20 sono donne, 1000 sono ammalati, dei quali 160 affetti da patologie croniche.

Secondo il rapporto, la maggior parte dei prigionieri palestinesi viene sottoposta a tortura durante la detenzione nelle carceri israeliane. Tra le modalità più praticate si segnalano: l’incatenamento di mani e gambe dei prigionieri, le percosse con il calcio dei fucili, la privazione della possibilità di dormire e le minacce di incarcerare anche la madre o la moglie.

Le indagini rappresentano la fase più pericolosa per i prigionieri. Molti di essi, infatti, hanno persino contratto patologie durante le attività istruttorie. Pratica ormai radicata e tipica di questa fase è la negazione del sonno ai detenuti, ottenuta sottoponendoli a spaventi di ogni tipo: in alcuni casi si è ricorso anche allo sparo di alcuni colpi d’arma da fuoco.

A conferma della pericolosità della fase istruttoria nel sistema penitenziario israeliano viene citato il rapporto ufficiale del 2013 nel quale è stato dimostrato che il prigioniero Arafat Jaradat morì nel carcere israeliano di Maghiddo proprio durante la fase d’indagine, a 6 giorni dall’arresto.

Critica è la situazione relativa all’assistenza medica. E’ ormai prassi che ai detenuti vengano negate assistenza e cure mediche adeguate, anche arrivando ad impedire l’accesso al personale sanitario. Secondo i dati pubblicati dal rapporto, nelle carceri dell’occupazione sarebbero 1000 i detenuti palestinesi ammalati, 160 di essi affetti da patologie croniche (la più diffusa delle quali risulta essere il cancro). Numerosi sono anche i prigionieri che soffrono di malattie mentali: tra essi c’è Khadr Dhabaya, schizofrenico, che Israele continua a mantenere segregato nonostante il terribile stato di sofferenza in cui si trova.

Un caso emblematico è rappresentato dalla cosiddetta “clinica” di cui dispone il carcere di Ramla. I detenuti palestinesi non possono accedervi poiché gli israeliani affermano che il dipartimento medico della casa circondariale è riservato “agli esseri umani sani”: ne consegue dunque che la clinica non è a disposizione degli ammalati, specie se palestinesi.

Sempre in riferimento al carcere di Ramla si citano i casi di alcuni detenuti. Uno di essi è Ryad al-‘Umur che soffre di problemi cardiaci e che dipende per la sua sopravvivenza dal congegno che regola la frequenza cardiaca: in ben 13 anni tale macchinario non è mai stato sostituito, sebbene per diverse volte il suo funzionamento si sia arrestato.

Un altro caso emblematico è rappresentato dal detenuto Khaled Shawish, affetto da paralisi parziale al corpo a causa dell’esplosione di una granata. Il dolore provocato dalle lesioni è talmente intenso che il detenuto riesce a sopravvivere solo grazie a narcotici e analgesici.

La negligenza di tipo medico si manifesta in molte forme: la gigantesca burocrazia che regola le pratiche di trasferimento e cura dei prigionieri ammalati, i ritardi nel fornire le diagnosi, il trasporto dei detenuti bisognosi di cure su mezzi inadeguati (privi persino di lettini sanitari e muniti invece di sedie di ferro alle quali i prigionieri vengono incatenati durante viaggi che vengono prolungati per ore).

Nel rapporto si afferma inoltre che Israele pratica l’isolamento ben oltre i termini stabiliti dalla legge, citando al riguardo il caso del prigioniero Ibrahim Hamed, in isolamento dal 9 gennaio scorso.

Si segnala anche la consuetudine di aggredire i detenuti col pretesto dell’ispezione delle loro celle. Durante tali irruzioni, le guardie dell’occupazione ricorrono all’uso di cani poliziotto e manganelli, distruggendo i beni dei prigionieri. Nel 2007 il detenuto Mohammad al-Ashqar è rimasto ucciso durante una di queste aggressioni: dopo aver fatto irruzione nella sua cella con il pretesto dell’ispezione, i secondini gli hanno sparato.

Vengono inoltre elencate le varie tipologie di violazione israeliana ai danni dei diritti dei prigionieri palestinesi. Tali violazioni includono la negazione del diritto all’istruzione, il divieto di poter incontrare le famiglie durante gli orari di visita, la privazione del riscaldamento come strumento punitivo, il sovraffollamento delle celle, le inaccettabili condizioni igieniche, l’uso dei detenuti come cavie per la sperimentazione di nuovi farmaci (pratica, quest’ultima, che è stata riconosciuta da Tel Aviv). Si sottolinea inoltre la sempre più marcata tendenza al trasporto dei detenuti dalle case circondariali dei territori occupati a quelle in territorio israeliano: tale pratica rappresenta una chiara violazione ai diritti internazionali.

Devastante è la situazione che riguarda i 230 minorenni palestinesi detenuti nelle carceri dell’occupazione e accusati, nella maggior parte dei casi, di lancio di pietre. Questi ragazzini vengono sottoposti a torture fisiche e psicologiche, i cui effetti permangono anche dopo la scarcerazione.

Il rapporto sottolinea poi come l’incarcerazione di rappresentanti di istituzioni legittime palestinesi costituisca una evidente violazione dei più fondamentali tra i diritti internazionali, come l’immunità di cui tali rappresentanti dovrebbero godere.

Il rapporto conclude facendo riferimento ai 200 “detenuti amministrativi” ad oggi imprigionati nelle carceri dell’occupazione. Questi prigionieri vengono trattenuti senza alcuna accusa precisa ma col pretesto della sicurezza interna. Tre di essi hanno deciso di attuare lo sciopero della fame al fine di ottenere la liberazione: per uno di loro, lo sciopero dura da più di 90 giorni.

(Fonte: Api-Associazione dei Palestinesi in Italia)