Il futuro della convivenza, Vicenza e la guerra annunciata.

Riceviamo e pubblichiamo il testo della conferenza tenuta da Raniero La Valle a Vicenza. 

Il futuro della convivenza, Vicenza e la guerra annunciata

di Raniero La Valle

 

Vicenza è oggi il crocevia delle contraddizioni che scuotono il nostro tempo. Ed è in qualche modo l’emblema conclusivo del nostro tema di quest’anno, nel quale ci siamo interrogati sulla crisi della convivenza. Abbiamo sviluppato il tema della convivenza – nella politica, nella famiglia, nella scuola, nel rapporto di coppia, nella Chiesa – perché abbiamo avuto la percezione che oggi non solo la convivenza sia in crisi, perché non si riesce a vivere come pur si vorrebbe, ma addirittura che essa abbia cessato di essere un valore, una naturale prospettiva di vita, e sia diventata invece un ingombro, un ostacolo, l’oggetto di un rifiuto. Perfino nelle fasi più acute della guerra fredda, sempre in procinto di esplodere nella guerra nucleare, l’ideale della coesistenza era fuori discussione: si voleva coesistere, nel presupposto che tutti avessero diritto ad esistere. Oggi invece si vuole esistere, ma non coesistere; oggi c’è solo la propria esistenza vissuta come incompatibile con l’esistenza degli altri.

 

Allora la decisione di costruire la nuova base militare a Vicenza ha incrociato la nostra riflessione, che non è mai una riflessione astratta, accademica, perché per noi la cultura è sempre innestata nella realtà. In tale decisione abbiamo visto un caso limite di rottura e di rifiuto della convivenza; ed è per questo che siamo qui a discutere della convivenza nel luogo dove oggi questo tema si riveste di tutta la sua pregnanza storica. Ed è per questo che il tema di queste “Ultime notizie”, solitamente ricavato da una sollecitazione che viene dalla cronaca, anche se non pertinente col tema del seminario, si identifica oggi col tema stesso di questo seminario.

 

Tre rotture della convivenza

 

In tre modi la decisione di costruire la nuova base militare americana, nonché il modo in cui questa decisione è stata presa e resa nota, rompono la convivenza.

Prima di tutto rompono la convivenza interna della comunità cittadina. La passione con cui già oggi si discutono le due opposte prospettive che sono di fronte alla città, mostra che sempre più è destinato a radicalizzarsi e a imbarbarirsi il conflitto tra favorevoli e contrari alla base, finché la città stessa, rotta la pace sociale, si troverà irrimediabilmente divisa in due.

 

In secondo luogo si rompe la convivenza internazionale, per la sostituzione della guerra alla politica come modalità di rapporto tra i popoli.

Non siamo sicuri che a livello nazionale ciò sia stato percepito, che sia stata colta la portata politica generale del sacrificio di Vicenza; non crediamo che sia stato percepito  in che modo la nuova destinazione d’uso della città di Vicenza diventi una grande questione nazionale, né è stata percepita la novità nella quale viene a trovarsi la situazione internazionale e mondiale per effetto di questo riarmo nucleare che qui viene avviato della piattaforma territoriale italiana.

Il cuore del discorso sta infatti qui: non si tratta di un ampliamento e neanche di un raddoppio di una base preesistente, non si tratta di un accasermamento di altri duemila uomini di truppe aviotrasportate in modo che siano più vicini agli scenari di guerra. Si tratta di una base per azioni di deterrenza e ritorsione nucleare previste nel quadro di una pianificazione militare chiamata “Punta di diamante”. Lo ha detto l’ex presidente Cossiga con quell’aria un po’ beffarda con cui egli è solito rivelare delle verità che gli altri tengono nascoste. Nella sua dichiarazione di voto al Senato del 28 febbraio scorso, come si può leggere nel resoconto stenografico della seduta, egli si è rallegrato – “americano e guerrafondaio come sono” ha detto con autoironia – della conferma della concessione “al Pentagono” della base  militare di Vicenza, dalla quale opererà “ il 173° reggimento d’attacco “Airborne”, strumento del piano di dissuasione e di ritorsione anche nucleare denominato “Punta di diamante” ”. Dunque ciò di cui si discute non è una caserma, ma una base per la guerra nucleare, ed una prospettiva politica secondo la quale il governo del mondo e delle sue risorse nei prossimi decenni sarà affidato non alla politica, ma alla guerra.

 

La terza rottura che in tal modo si è prodotta è quella tra la comunità e il governo. La domanda è perché il governo non ne ha voluto neanche parlare. Come se si trattasse di materia non disponibile, di “affari riservati” secondo una nomenclatura in uso in altri ordinamenti. Questo è un Paese in cui si discute di tutto, e questo è un governo che ha discusso su tutto. Per mesi si è fatta e rifatta la finanziaria con trattative con tutte le lobbies possibili e le parti sociali. Si è discusso e poi si è cambiato il tracciato della TAV. Si discutono i piani di settore con artigiani, professionisti, piccole imprese; si sono discusse le liberalizzazioni di Bersani con benzinai, farmacisti, notai; si è rinunziato ad abolire il PRA sotto la spinta dei suoi difensori. Si fermano i camion prima che arrivino alle discariche per non forzare la mano alle popolazioni locali. Perché solo sulla base militare di Vicenza non si può, non dico transigere, ma nemmeno discutere? La ragione è evidente: perché il governo ritiene la cosa fuori della portata delle nostre decisioni. Esso dà atto che l’Italia non ha la disponibilità non tanto della propria sovranità, ma di se stessa, del suo ruolo e del suo destino. Ma come non discutere della decisione di installare in Italia la prima base nucleare offensiva dopo la fine della guerra fredda, la rimozione del muro di Berlino e la scomparsa della contrapposizione tra i blocchi?

 

La politica come occultamento

 

Il segreto mantenuto dal governo Berlusconi si capisce. Berlusconi crede che il Paese sia suo, si è impadronito del suolo di questo Paese – da Milano 2 alla tenuta di Arcore alle coste della Sardegna al palazzo di via del Plebiscito a Roma – e anche dell’etere, paga 45 milioni di euro di tasse allo Stato e crede di esserselo comprato, quindi prende del suo e lo dà all’amico americano.

Ma il governo Prodi? Ave
va tutto il diritto di discuterne. Perché la cessione di una parte della città di Vicenza agli Stati Uniti
(e qui vale come non mai che “la parte è per il tutto”) era avvenuta senza alcuna deliberazione del governo e senza alcun dibattito parlamentare, solo in virtù di una lettera del 12 dicembre 2005 dell’allora capo di stato maggiore della Difesa ammiraglio Di Paola al suo collega americano, dopo un parere tecnico del Genio Dife; si poteva impugnare da parte del governo successivo.

 

Invece la decisione è stata fatta passare per una “non decisione”: “per l’ampliamento di una base militare – ha detto Prodi – non si pone certo un problema politico”. Qui si apre una grande questione: la politica come occultamento. È una novità: prima a occultare erano i Servizi deviati, non a caso detti segreti; oggi è la politica che si fa alla luce del sole che occulta la verità. È un occultamento della realtà dire che Vicenza non è un problema politico. È il massimo dei problemi politici, perché riguarda la scelta di come stare al mondo nei prossimi decenni; se vogliamo stabilire una data diciamo fino al 2050, data entro cui secondo gli scienziati dovremmo trovarci un altro pianeta perché questo sarà esaurito.

 

Il mondo è davanti a un’alternativa molto precisa: o la convivenza, la decisione politica che tutti dobbiamo vivere, anche se giungeremo ad essere dieci miliardi, oppure il rifiuto della convivenza, la rottura dell’unità umana, e la guerra dei diversi aggregati umani – che già viene chiamata guerra di civiltà – per spartirsi l’ultima eredità della terra.

Gli Stati Uniti hanno fatto quest’ultima scelta, con la lunga premeditazione concepita dalla Nuova Destra americana e il suo progetto di instaurare “il nuovo secolo americano”, con la presidenza Bush W., con l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, con lo scudo spaziale, con lo spostamento delle frontiere militari e politiche del proprio Impero sempre più ad Oriente. Non sappiamo se dopo gli evidenti fallimenti di questa linea essa sarà confermata dalla prossima presidenza americana. In ogni caso Vicenza appartiene a questa scelta, a questa ipotesi di guerra continua per i prossimi decenni; una guerra a cui è chiamato tutto l’Occidente, e in cui gli atei devoti vorrebbero coinvolgere anche la Chiesa. I nemici non sono ancora dichiarati, ma già si profilano: l’Iran, la Russia, la Cina. Vecchi esperti del Pentagono hanno dichiarato ufficialmente che stanno preparando la guerra con la Cina, che ci sarà tra 20 anni, e che si svolgerà “nei cieli e sott’acqua” (la terra cinese è infatti troppo grande, meglio evitarla, visto come è andata nelle terre invase finora).

 

E allora ecco perché è così importante la base, da non potersene discutere neppure. È una base di intervento rapido nucleare, la casa madre dell’unica unità aviotrasportata del Comando europeo degli Stati Uniti la cui area di responsabilità abbraccia l’Europa, gran parte dell’Africa e del Medio Oriente. Essa dipende dal comando SETAF, il cui quartiere generale è anch’esso a Vicenza, e che è stato trasformato da comando di appoggio logistico in comando di teatro, responsabile – come viene spiegato – “del ricevimento, della preparazione al combattimento e del movimento avanzato delle forze che entrano nella regione meridionale per una guerra”. E ciò in collegamento con le basi aeree di Aviano e Sigonella e con quella logistica di Camp Darby, che insieme  vengono così a formare il triangolo della piattaforma italiana per la guerra nucleare annunciata.

 

La domanda è: può l’Italia opporsi a tutto questo? Non può, il governo, da solo. Può darsi, a voler guardare le cose con realismo, che per il governo questa decisione fosse obbligata, perché quella contraria, come ha detto D’Alema, sarebbe apparsa “un atto di ostilità verso gli Stati Uniti”. E non è possibile una ostilità con gli Stati Uniti perché il Paese non è ostile, non ci sarebbe affatto una base di opinione pubblica in Italia per alcuna ostilità agli Stati Uniti, che è un Paese amico; e nemmeno ce lo potremmo permettere, perché siamo entrati in un tempo in cui lo squilibrio delle forze nel mondo è tale per cui nessuno può sopravvivere all’ostilità degli Stati Uniti; in Italia, come si ricorderà, gli anni di Moro furono dominati dalla paura di una “sindrome cilena” per mano americana: perciò i missili vennero installati a Comiso anche allora senza alcuna obiezione ufficiale (ma con grandi lotte popolari) .

Però queste ragioni dovevano essere discusse, anche col movimento della pace. Il non farlo è un’offesa per il Paese, ma soprattutto è un atto di rottura del governo con i cittadini, con una parte rilevante della sua base elettorale, politica e perfino religiosa.

 

La resistenza alla base, quale si è così vigorosamente attivata qui a Vicenza, non può ora servire da sola a rovesciare con la forza, con una spallata, la decisione già presa. Ci vuole la politica. Perciò non crediamo e anzi riteniamo un grave errore il ricorso a mezzi di lotta che non siano non violenti. Crediamo alla politica. E la resistenza serve appunto a rendere di nuovo possibile la politica, serve a impedire che sia chiuso o dichiarato come non esistente il problema politico, serve a rivendicare alla politica (ma anche alla cultura e alla fede) il compito di esprimere e realizzare una alternativa allo strumento della guerra con cui l’Occidente si sta preparando ad affrontare le future sfide mondiali. Il Paese–comunità, non il governo da solo, può farcela. Insieme all’Europa, può farcela. Non contro gli Stati Uniti, ma anche “per” gli Stati Uniti, perché siano distolti dal correre verso la rovina trascinandosi tutto il mondo con sé.

Ma per fare questo non si può occultare la vera natura della scelta. Bisogna parlare col movimento della pace, con l’elettorato, con i giovani, con le donne, e anche con quella piccola Italia della provincia italiana che viene cavalcata dalla destra e dalla Lega, nel presupposto che l’interesse in gioco è lo stesso per tutti, e allo scopo di riaprire tutti insieme il problema politico, per vedere in che modo attraverso la politica, come diceva don Milani, “se ne può uscire”.

 

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