Milano-InfoPal. Di Sulaiman Hijazi. Non sono uno che ama raccontare le sofferenze che ha affrontato, perché non amo ricordarle, ma a volte bisogna farlo affinché non si ripetano più.
Quando ero piccolo, andavo con mio padre e mia madre in carcere a trovare i miei due fratelli Hassan e Mohammad, condannati a un anno e mezzo di carcere durante la prima Intifada, perché lanciavano sassi contro i soldati israeliani. Per andare a trovarli da Hebron, nel sud della Palestina, fino a Nablus, nel nord, impiegavamo una giornata intera: ci svegliavamo alle 4 del mattino per prendere il pullman insieme ad altri famigliari di altri detenuti.
Era una vera tortura perché ci mettevamo quattro ore all’andata e quattro al ritorno, ed era veramente massacrante per i miei genitori, anziani, oltre al fatto che i soldati ci trattavano malissimo insultandoci e il tempo di attesa andava di fortuna. Tuttavia, quando riuscivamo a vedere Hassan e Mohammad tutta la stanchezza e tutto il dolore passavano all’improvviso, anche se al ritorno mia mamma non smetteva di piangere perché era consapevole che non avrebbe visto i figli per altri due mesi.
I miei genitori erano anziani e non potevano sopportare tutto questo viaggio, ma siccome la visita era consentita ogni due mesi, non avevano altra scelta che passare le ore sotto il sole o sotto la pioggia fino a quando non arrivava il nostro turno.
Quando i soldati ci chiamavano, ci controllavano dalla testa ai piedi e lo facevano in modo molto aggressivo, come se avessimo chissà cosa sotto ai vestiti, ma noi, comunque, non dovevamo aprire bocca, perché era molto facile essere rimandati indietro senza visitare nessuno, perciò dovevamo sopportare l’umiliazione per incontrare i fratelli.
Una volta entrati, non potevamo abbracciarli, poiché c’era un muretto e il vetro divisorio che ci separava, e riuscivamo a malapena a capire cosa dicevano, ma l’importante era vederli.
Una volta, che non dimentico mai, ci svegliammo come sempre alle 4 del mattino per andare a visitare i fratelli e mi ricordo che mio padre non stava tanto bene ma si alzò con per forza. La direzione era il carcere di Alfarea vicino Nablus.
Arrivati dopo 4 ore, sfiniti dalla stanchezza, aspettammo sotto il sole cocente; le ore passavano e nessuno ci chiamava, allora mio padre si avvicinò per chiedere al soldato quando sarebbe stato il nostro turno e il soldato rispose: “Oggi abbiamo finito, vai via, altrimenti neanche la prossima volta potrai visitare i tuoi figli!”. Mia mamma svenne e mio padre, un mese dopo, iniziò a soffrire di diabete e pressione alta, e queste due malattie furono la causa della sua morte.
In Palestina ci sono quasi 6.000 detenuti e molti sono senza processo, tra cui molti minorenni. La Palestina è l’unico Paese al mondo dove il prigioniero deve completare la detenzione anche dopo la sua morte, cioè se muore e deve ancora scontare degli anni, la sua salma non viene consegnata ai familiari, ma viene lasciata in un cimitero che si chiama “cimitero dei numeri”. Lì, ad ogni morto viene assegnato un numero, e solo alla fine della pena, la salma viene consegnata ai familiari.
Ho un cugino morto nel 1992 dentro al carcere e sta ancora in quel cimitero e non sappiamo nulla della sua salma né quando sarà libero anche da morto; non sappiamo se gli hanno rubato gli organi oppure no.
Sono sicuro che la Palestina un giorno tornerà libera e avrà la giusta pace che merita da sempre.