Il jihadista libico Belhadj cade in un’imboscata a Parigi

MondafriqueL’uomo forte della Libia post-rivoluzionaria, l’islamista Abdelhakim Belhadj , era venuto a Parigi, mercoledi 30 aprile, per  fare un sermone sul futuro del suo paese. Con, nel ruolo di addetta stampa, la giornalista di ll Monde e piccola sorella dei Fratelli Musulmani, Isabelle Mandraud, autrice di una biografia alla sua gloria. Purtroppo, l’ultimo manipolo di fedeli di Gheddafi è  venuto a disturbare l’incontro.

In una via di Parigi, così corta che per poco non esisteva, seduto al fondo di una sala avara di metri quadri, bloccato tra un muro e una giornalista di  Le Monde, Isabelle Mandraud, che interpreta il ruolo della ballerina principale[1], si capisce che Abdelhakim Belhadj non è a suo agio tra le quinte dell’editore l’Harmattan. Belhadj,  lo sapete, è la sfinge libica, l’avvenire del paese, l’eroe promesso dall’America per diventare califfo al posto del Colonello, a sostituire Gheddafi sul suo trono verde.

Ecco il salvatore di una nazione a brandelli, l’eroe di una commedia della felicità scritta nel susseguirsi dei giorni da giornalisti, politologhi, uomini d’affari e politici. Ecco un barbuto chiamato all’apice del suo destino che si  racconta in un luogo così squallido.

Davanti ad una platea qualsiasi composta da qualche fans in attesa di scoop, o prebende, e di seggiolaie[2] sedotte dall’orientalismo.

Salve Belhadj, welcome in Paris

Ci aspettavamo di meglio da lei, il « De Gaulle » di Tripoli, per una prima visita in questa Francia che, per la grazia di Nicolas Sarkozy, ha « liberato » la vostra terra. A Mondafrique, è da parecchio tempo che abbiamo osservato questo Napoleone crescere sotto Bonaparte.  Riassumiamo qualche capitolo di una vita ben più movimentata di un romanzo russo.

Nato barbuto, o quasi, Belhadj ha 24 anni nel 1980, quando in Afghanistan, con i suoi amici della jihad, come Ben Laden, si batte contro l’impero sovietico con la benedizione della CIA. Scomparsi i figli di Marx, Belhadj resta nel cammino divino, quello della jihad. In Pakistan, in Turchia, in Sudan, occupa posti di rilievo nella strategia dei guerrieri di Allah.

Il suo combattimento onorevole è in Irak dove si batte a fianco di Abou Moussa al-Zarkaoui, il comandante della succursale locale di Al-Qaïda.

A  guerra persa, è il ripiego strategico verso l’Asia dove milioni di pacifici musulmani, in Indonesia e Malesia ad esempio, hanno bisogno che dei predicatori come l’imam Belhadj li illumini sulla necessità della jihad.

Incidente fatale, nel 2003  in Malesia, Abdelhakim viene arrestato dalla CIA. Trasferito e torturato a Bangkok da suppletivi della Centrale americana, che non esita a fare affidamento al subappalto, Belhadj soffre atrocemente. Ma non parla. Infine, come si getta un corpo ai cani, l’imam è rispedito nel suo paese, in Libia, dove lo attende una esecuzione annunciata. Si misura qui il grado di umanità dell’esemplare America, quella del distinto Georges Bush.

A Tripoli, Belhadj cambia torturatori ma questo non cambia le sue sofferenze. Finalmente i colpi e le sevizie si calmano, il giocatore di scacchi Gheddafi si immagina che, il giorno in cui la sua dittatura vacillerà, Belhadj potrebbe essere un sigillo per blandire gli islamisti. Fatto incredibile, l’imam viene liberato.

Quando i suoi fratelli religiosi di Benghazi scatenano la « primavera libica », Belhadj è il primo a saltare nei suoi Rangers[3]. Ha un suo piano.

Il suo destino (quello del momento) è diventare la pedina, l’uomo chiave e ligio del Qatar. Con le tasche piene di dollari di Doha, con uomini e fucili, con l’aiuto di ufficiali francesi e strateghi della DGSE, Abdelhakim diventa Leclercq, il liberatore di Parigi. Ben conosciuto qui, soprattutto nella regione del Fezzan, dove ha calcato le sabbie nel 1943. Belhadj assume lo stile del generalissimo. Secondo lo scenario imposto dal Qatar, egli sarà consacrato il « liberatore di Tripoli ». A «Rivoluzione » compiuta, ha il potere, con centinaia di miliziani ai suoi ordini, armi a bizzeffe e forzieri pieni di denaro.

Dei folli di dio e dei folli e basta.

Insediato nella sua fortezza, è la volta di Belhadj di condurre, a lui tocca portare a termine il programma disegnato da Washington : diventare il padrone. Non è facile. La Libia è un caos con una miscellanea di miliziani e di folli di Dio. Dove le persone ragionevoli e amanti della libertà, sono pregate di andare a vivere altrove o di parlare a voce bassa. In questo contesto, dove il Parlamento si ritrova regolarmente sotto la mitraglia con dei Primi ministri kleenex, lo scaltro Belhadj non ha una vita politica facile. Non è il solo a volere la parte migliore della torta libica. Intelligente e ben consigliato, Abdelhakim  getta il vestito dello jihadista per l’abito con cravatta e i discorsi violenti per quelli ragionevoli.

Da qui l’interesse di ascoltarlo a Parigi, in questa sala che non è all’altezza delle sue ambizioni. Il discorso è perfetto. Belhadj ha tutte le qualità richieste per dirigere uno Stato. Mente con  la sicurezza che reclama questo lavoro, risponde alle domande con calma e intelligenza con un linguaggio fortemente retorico. Quest’uomo è una rocca impossibile da far saltare. Dice di avere, nella sua bisaccia di capo militare di Tripoli e di capo del partito Al Watan (il Paese), tutti gli attrezzi per riparare la Libia: integrazione dei miliziani nell’esercito o nella polizia, e messa in moto di un « dialogo nazionale » che tenga conto di « tutte le opinioni e le differenze ». Questo Belhdaj, principe della charia, è , se si può credergli, una sintesi del Dalaï-Lama e di Gandhi.

Bocce puzzolenti

La sua calma, ne siamo testimoni quando due uomini in collera, dei Libici, si alzano per urlare la loro rabbia : « Quest’uomo che avete davanti a voi è un criminale contro l’umanità, un boia torturatore che ha regnato su un mattatoio umano installato in un albergo in disuso durante la caduta di Gheddafi. Assassino ! Assassino ! Criminale ! ». Belhadj, abituato alla mitraglia, non batte ciglio, ma si sente che avrebbe voluto un’altra accoglienza. Infine, i contestatori dell’eroe lasciano la sala. Esprimendo il loro rammarico per Gheddafi e lasciando sotto le loro sedie un pacchetto fumante. Una signora urla « Attenzione, hanno tirato del gas. » Pieno di sangue freddo, anche io, faccio notare a qualche vicino, che non rischiamo nulla perché una giornalista di le Monde è in sala e che i collaboratori di questo quotidiano sono stati formati al depistaggio del sarin … Nel panico non faccio ridere nessuno … anche se, in effetti, non si tratta che di bombe puzzolenti? Poi, vergogna per i democratici, i Libici turbolenti sono consegnati alla polizia, come dei semplici jihadisti. Questa volta, la visita dell’eroe gira in farsa, ma l’attore riprende il suo ruolo, risponde alle ultime domande lanciate dalla consorella del Monde che, fatto bizzarro, fa l’addetta stampa dello stoico barbuto.

Con Abdelhakim, la Libia sta per guadagnare l’oscurità dell’inverno senza avere neanche conosciuto la luce della primavera.

Sorgente : Mondafrique
http://mondafrique.com/lire/politique/2014/05/02/le-jihadiste-libyen-belhadj-tombe-dans-une-embuscade-a-paris

Grande reporter e scrittore, Jacques-Marie Bourget inizia la sua carriera da Gallimard alla NRF poi prosegue con l’ORTF, L’Aurore, Le Canard Enchainé, L’Express, VSD, le Sunday Times, Paris-Match et Bakchich. Nel 1986, ha ottenuto il Premio Scoop per aver rivelato l’affare Greenpeace.

Traduzione di Nicoletta Salvi


[1] di spettacolo di burlesque

[2] donne che affittano sedie nei luoghi pubblici

[3] stivali da combattimento