
InfoPal. Di Angela Lano. “Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza” è un testo semplicemente meraviglioso, che tutti dovrebbero leggere. E’ un fulmine che squarcia il silenzio disumano e la complice colpa di chi appoggia 80 anni di pulizia etnica della Palestina e un anno e mezzo di genocidio a Gaza. Hend, Ni’ma, Yousef, Ali, Dareen, Marwan, Yahya, Heba, Haidar, Refaat sono i giovani autori delle poesie contenute in questo nuovo volume della Fazi dedicato alla Palestina, scritte a Gaza e altrove: la loro voce è un urlo di resistenza nella barbarie del colonialismo genocida israeliano.
Sono poeti e scrittori palestinesi gazawi che vivono sotto le bombe di Israele da quando sono nati, sfiorando la morte ogni giorno, e ogni giorno vedendo morire familiare, parenti, amici. “Ho diciannove anni e ho vissuto molte morti. (…) Quando la vita si mostrerà a me?”, scrive il giovanissimo Haidar al-Ghazali, e continua: “La libertà per cui moriamo, non l’abbiamo mai sentita”. L’atrocità di uno sterminio giornaliero è colta in pochi versi: “La bambina il cui padre è stato ucciso mentre portava un sacco di farina sulla schiena, continuerà a gustare il sangue di suo padre in ogni pane”. In queste parole è racchiuso tutto il trauma collettivo, l’orrore di cui è vittima sacrificale un popolo indomito e resistente, ma anche tutta la sua forza e la testimonianza della sua lotta di fronte al mondo intero.
Testimonianza sono anche gli ultimi versi di due poeti, Heba Abu Nada e Refaat Alareer, uccisi da Israele alla fine del 2023. “Noi di Gaza, presso Dio, siamo martiri o testimoni della liberazione. E tutti noi aspettiamo il luogo in cui saremo. Tutti noi aspettiamo, o Dio, la tua promessa veritiera”, scrive, Heba, nel giorno della sua morte, il 20 ottobre.
“If I must die”, di Refaat Alareer, ucciso il 6 dicembre del 2023, è stata ripostata in rete prima che fosse ammazzato dai proiettili israeliani, ed è divenuta una dei tanti emblemi dell’olocausto gazawi.
Se devo morire
tu devi vivere
per raccontare la mia storia,
per vendere le mie cose
comprare un pezzo di stoffa
e qualche filo,
(fallo bianco, con una lunga coda)
per farne un aquilone
così che un bambino, da qualche parte a Gaza
fissando il cielo negli occhi,
aspettando suo padre che è partito tra le fiamme –
senza dire addio a nessuno,
neanche alla sua carne,
neanche a se stesso –
veda l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto tu, volare alto
e pensi, per un attimo, che lassù ci sia un angelo
che riporta l’amore.Se devo morire,
che porti speranza
che sia una storia.
La poesia e la letteratura palestinesi sono da oltre 100 anni un potente strumento anti-coloniale e de-coloniale: sono un atto di resistenza e di denuncia che si sovrappone alle menzogne della hasbara israeliana e dei media egemonici che ne sono veicoli e megafoni.
“Scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata“, sottolinea nella prefazione lo storico ebreo anti-sionista Ilan Pappe, e se è vero che “l’aspetto più inquietante di ciò che accade dal 7 ottobre 2023 è il silenzio e l’indifferenza dell’Europa”, è altrettanto certo che il loro grido buca questa indifferenza e la scuote, obbligandoci a scegliere da che parte stare: accanto alle vittime, per la loro e nostra definitiva liberazione dalla barbarie genocida, o dalla parte dei carnefici e futuri sconfitti, coloro che, nel loro colonialismo duro a morire, uccidono e distruggono, pensando di toglierci ogni speranza di giustizia…
Il libro si chiude con il bellissimo Discorso alla Oxford Union della scrittrice Susan Abulhawa.
Scheda del libro.
Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza. Fazi Editore, 12 euro.
A cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti.
Prefazione di Ilan Pappé.
Con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges.
Traduzione dall’arabo di Nabil Bey Salameh.
Traduzione dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni.