Di Liam Stack *
Nella penombra della soffocante emergency room dell'ospedale ash-Shifa di Gaza City, Ehab ar-Ramlawy si asciuga le gocce di sudore dalla faccia con le lastre lucenti delle radiografie.
Con le maniche rimboccate e le braccia sudate, si china a guardare le carte di un paziente mentre ascolta l'elenco dei sintomi del successivo. Dietro di loro, una folla instancabile di malati ed infermi, inondati dalla luce di una finestra vicina, nell'attesa ansiosa che lui dedichi loro un po' del suo tempo.
Ash-Shifa è l'ospedale più grande della Striscia di Gaza, ma anni di embargo israelo-egiziano e di lotte interne palestinesi tra il gruppo islamico militante di Hamas – al governo di Gaza – e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania lo hanno lasciato a corto di risorse.
La sua emergency room ricovera 400 persone al giorno in una sola grande stanza lasciata in condizioni di trascuratezza, con undici letti e una mancanza cronica di medicine. I blackout a intermittenza la costringono a dipendere da generatori mangia-diesel che rimangono in funzione per più di dodici ore al giorno, e la maggior parte dei reparti hanno poche luci e restano privi di aria condizionata nel caldo dell'estate. Attrezzature avanzate giacciono inutili e inutilizzate, rese invalide dall'impossibilità di trovare i pezzi di ricambio.
“Ci mancano gli attrezzi e molti generi di medicine”, lamenta Ayman as-Sohbani, direttore della ER. Durante l'incursione d'Israele a Gaza nel dicembre-gennaio 2008-2009, racconta, la struttura curava 300 pazienti in più ogni giorno, anche dopo che un bombardamento aereo israeliano aveva infranto le finestre dell'ospedale.
All'epoca, Israele sosteneva che i combattenti di Hamas operavano dentro e fuori dall'ospedale, e che avevano allestito un bunker sotto l'edificio: un'affermazione che non è mai stata né provata né smentita.
“Riusciamo a lavorare, anche se non disponiamo di quel che ci occorre normalmente – spiega as-Sohbani – A volte abbiamo, e a volte non abbiamo; certe volte aggiustiamo, e altre non ne abbiamo la possibilità”.
I funzionari del ministero della Sanità di Gaza riferiscono che i problemi di ash-Shifa riflettono quelli di tutti gli ospedali e le cliniche del piccolo territorio da 1,5 milioni di abitanti, tagliato fuori dal mondo esterno per opera dell'assedio che Israele ed Egitto impongono dal 2007, quando Hamas strappò il potere al rivale, l'Anp appoggiata dall'Occidente.
E proprio l'Anp viene accusata dai funzionari di Gaza di accumulare per sé medicine e rifornimenti vari, senza soddisfare i bisogni della Striscia. Da parte sua, Ramallah respinge l'accusa, e l'Organizzazione mondiale della sanità la accoglie con scetticismo, sostenendo che il governo di Gaza è troppo povero per acquistare le risorse di cui necessita. L'Oms preferisce quindi attribuire il ritardo dei rifornimenti alla reciproca mancanza di fiducia e disponibilità a cooperare delle due fazioni.
Secondo i termini dell'embargo, i componenti meccanici che potrebbero essere impiegati per scopi militari o edili – quali acciaio e cemento – non sono ammessi a Gaza.
Simili restrizioni tagliano però fuori molti pezzi di ricambio, privando il Ministero della Sanità della possibilità di riparare le strutture danneggiate, completare un'estensione dell'ospedale (i cui lavori sono fermi dal 2006) o aggiustare attrezzature rotte o malfunzionanti, come spiega il portavoce del Ministero Ahmed al-Ashi.
Allo stesso modo, l'embargo ha impedito alle autorità di Gaza di porre rimedio ai danni arrecati alla rete elettrica dai bombardamenti israeliani degli ultimi quattro anni: ecco perché i blackout a rotazione fanno ormai parte della vita quotidiana.
Le restrizioni israeliane hanno cominciato ad escludere alcuni tipi di componenti dopo il raid militare dello scorso maggio ai danni della Mavi Marmara, nel quale furono uccisi nove attivisti. Ma le carenze affliggono ancora gli stabilimenti, e i funzionari del Ministero dell'Economia di Gaza sostengono che il divieto totale è stato rimpiazzato da un complesso procedimento di entrata delle merci, con
cui ogni carico è soggetto a una serie di revisioni che possono durare anche una settimana.
“A volte rispondono affermativamente, e a volte non rispondono nemmeno”, chiarisce Hatem Oweida, direttore generale del Ministero.
A complicare ulteriormente la questione, solo un passaggio di confine tra Gaza e Israele – Kerem Shalom – è aperto alle importazioni dei materiali. Il mese scorso, l'Amministrazione israeliana per il coordinamento e i collegamenti ha aumentato da 140 a 210 il numero di camion ai quali viene permesso di scaricare le proprie merci alla frontiera. Ma “è come se non avessero mai alleggerito l'embargo”, commenta Oweida sottolineando l'insufficienza del provvedimento.
Per ritornare alla questione dell'energia, riferisce il direttore dell'ospedale Hussein Ashur che il rifornimento incostante di elettricità ha lasciato ash-Shifa alla mercé dei suoi generatori d'emergenza. Questi impiegano diversi secondi per attivarsi dopo che è saltata la corrente, danneggiando macchine delicate come quelle dei raggi X, della risonanza magnetica e della dialisi renale, che sono costrette a spegnersi bruscamente e poi riaccendersi. Le pompe dell'acqua si fermano, e così il condizionatore della farmacia: ogni volta che questo accade le medicine – tra cui vi è anche una piccola scorta preziosa di prodotti per la cura del cancro, del valore di milioni – corrono il rischio di deteriorarsi.
C'è anche la paura costante che i generatori sovraccarichi vadano in tilt, come accadde lo scorso 22 luglio, quando il generatore che alimentava la sala operatoria e il reparto maternità di ash-Shifa e di un secondo ospedale nel campo profughi di Khan Yunis non riuscì ad attivarsi durante uno dei soliti blackout.
“I generatori si fermarono completamente per tre ore – racconta al-Ashi – Si fu costretti a ricucire i pazienti sul tavolo delle operazioni, e a rinviare i loro… appuntamenti”. Per i malati a cui viene applicato il respiratore artificale, i blackout possono essere fatali.
Il ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato domenica scorsa lo stato di emergenza, un giorno dopo la chiusura dell'unica centrale elettrica della Striscia per la mancanza di carburante. La situazione “potrebbe causare decine di morti in sala operatoria, tra cui bambini e pazienti in condizioni critiche”, ha avvertito Mu'awiya Hassanein, direttore del pronto soccorso all'interno del Ministero (Ma'an).
Non mancano le denunce: come riferisce al-Ashi, a Gaza spetta il 40% di tutti i rifornimenti medici dell'Anp, che però dallo scorso gennaio ne manda solo il 10%.
“Quando comunichiamo che ci occorrono delle medicine entro una settimana, Israele le lascia arrivare dopo un mese – spiega – e quando riceviamo l'approvazione, Ramallah c'invia solo una parte del nostro ordine, o niente del tutto. Questo vuol dire che entrambi stanno partecipando all'embargo. Ognuno gioca un ruolo: Israele con l'assedio, e Ramallah con il boicottaggio delle risorse di cui abbiamo bisogno”.
Dall'altra parte, il portavoce dell'Anp di Ramallah Ghassan Khatib assicura che il 50-60% del budget dell'Anp viene destinato ai servizi di Gaza, inclusi quelli sanitari. “Dubito che queste cifre siano corrette” è stata la replica di al-Ashi.
La mancanza di rifornimenti è un vero problema, afferma Mahmud Zahar, direttore dell'ufficio di Gaza dell'Oms. Tuttavia, precisa, i funzionari di Gaza non sono responsabili né della sua gravità, né delle sue cause.
La Striscia necessiterebbe dell'equivalente di 5,3 milioni di dollari [più di 4 milioni di euro, ndr] all'anno in risorse mediche, ma dall'inizio dell'anno ne ha ricevuto “non più del 30%”, secondo Zahar.
Il problema non sta però nelle mancanze dell'Anp o in un divieto israeliano, precisa il responsabile internazionale: il governo di Hamas a Gaza, dopo tre anni di assedio e di lotte politiche interne, è troppo povero per acquistare ciò che le occorre, e troppo alientato dal governo palestinese in Cisgiordania per distribuire in modo efficace gli aiuti umanitari.
Messi di fronte a così poche opzioni favorevoli, molti a Gaza guardano all'estero. L'Egitto ha aperto il passaggio di Rafah in seguito al raid mortale d'Israele ai danni della nave turca, e l'Oms riferisce che, secondo le stime, il flusso di pazienti verso lo stato egiziano è raddoppiato.
La stessa Oms stima che, ogni mese, 1.000 degli abitanti di Gaza richiedono un permesso per essere curati altrove. L'80% circa delle domande viene approvato, ma i Medici per i diritti umani denunciano che in alcuni casi le autorità israeliane hanno fatto pressioni sui pazienti perché fornissero informazioni e collaborassero con loro in cambio dei permessi.
“Gli altri mandano di nuovo le domande, o cercano cure alternative, o muoiono”, chiarisce Zahar, aggiungendo che l'Oms ha infatti documentato ben quaranta casi di persone decedute mentre attendevano il permesso per farsi curare negli ospedali israeliani.
I pazienti non sono gli unici che tentano di lasciare la regione. Anche molti dottori sperano di farcela. Nello stabilimento di ash-Shifa, ar-Ramlawy recita i nomi di sei colleghi che hanno lasciato il lavoro per studiare lontano. Il mese prossimo, anche lui emigrerà in Australia.
“Sono diventato dottore per servire il mio popolo, non per lasciare il paese – afferma – ma non riesco a reggere la situazione di Gaza, la pesante mancanza di tutto – rifornimenti medici, attrezzature: qualsiasi cosa!”.
Liam Stack è un corrispondente speciale di McClatchy Newspapers.
Fonte: Az-Zeytuna
(In homepage: tenda con frammenti di missile, dopo Piombo Fuso. Ospedale ash-Shifa. Foto Infopal 2009)