Il progetto “Grande Gaza”: Israele sta provando a spingere i Palestinesi verso il Sinai?

Jonathan Cook, 30 settembre 2014

Qual è il gioco finale di Israele a Gaza? Questa è una domanda che ha confuso analisti e osservatori da diverso tempo. Ma i segnali su quello che Israele e Washington hanno in mente per Gaza stanno iniziando ad emergere.

Disperatamente sovraffollata, a corto di risorse di base come l’acqua corrente, isolata da otto anni da Israele, con infrastrutture distrutte a intermittenza dai bombardamenti israeliani, Gaza sembra un’enorme pentola a pressione pronta ad esplodere.

È difficile non aspettarsi che prima o poi Israele debba ritrovarsi in mezzo ad un enorme sconvolgimento. Pertanto, che cosa propone Israele per evitare una situazione in cui dovere reprimere selvaggiamente un sollevamento di massa di palestinesi a Gaza oppure sedersi a guardarli mentre fanno crollare i muri delle loro prigioni?

Alcuni resoconti dei media israeliani e arabi, in parte confermati dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, suggeriscono che l’Egitto sia al centro dei progetti per risolvere i problemi per Israele.

Questo mese i media israeliani hanno riportato affermazioni, apparentemente divulgate da ufficiali israeliani, secondo le quali il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, avrebbe offerto alla leadership palestinese la possibilità di annettere a Gaza un’area di 1600 kilometri quadri nella regione del Sinai. L’area donata quintuplicherebbe il territorio di Gaza.

Si dice che questo progetto abbia ricevuto la benedizione degli Stati Uniti.

Il progetto “Greater Gaza”

Secondo le notizie ricevute, il territorio del Sinai diventerebbe uno stato palestinese demilitarizzato – chiamato “Greater Gaza” – nel quale verrebbero destinati i rifugiati palestinesi. L’autorità palestinese di Mahmoud Abbas avrebbe dominio autonomo sulle città della Cisgiordania, che comprende circa un quinto di quel territorio. In cambio, Abbas dovrebbe rinunciare al diritto di uno stato in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Questo piano, che avrebbe probabilmente portato un significativo numero di palestinesi a spostarsi al di fuori dei confini della Palestina storica, è stato subito scartato dai funzionari egiziani e palestinesi perché “contraffatto e senza fondamento”.

Tayeb Abdel Rahim, un portavoce di Abbas, ha accusato Israele di usare questa proposta per “distruggere la causa palestinese”, riferendosi agli sforzi compiuti da Abbas all’ONU per ottenere il riconoscimento di uno stato palestinese entro parti della Palestina storica.

Ma la dichiarazione di Abdel Rahim ha sollevato più domande che risposte. Pur negando che Sisi avesse fatto una simile offerta, Abdel Rahim ha fatto una affermazione sorprendente: un piano simile, per reinsediare i rifugiati palestinesi nel Sinai, era stato avanzato per breve tempo dal predecessore di Sisi, Mohamed Morsi.

Morsi, che ha servito come presidente per un anno a partire dall’estate 2012, fino alla sua estromissione ad opera di Sisi tramite un colpo di stato militare, era a capo di una amministrazione dei Fratelli Musulmani che ha cercato di rafforzare i legami con la leadership di Hamas a Gaza.

Ha affermato che il piano era basato su una proposta fatta da Giora Eiland, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele dal 2004 al 2006. Abdel Rahim sembrava fare riferimento a un piano svelato da Eiland nel 2004 che Israele sperava venisse attuato dopo il ritiro di coloni e soldati da Gaza – il cosiddetto disimpegno – un anno dopo.

Stando alle condizioni di Eiland, l’Egitto sarebbe d’accordo a lasciare espandere Gaza nel Sinai se Israele gli desse in cambio terreni nel Negev.

Strategie sioniste

L’idea di creare uno stato palestinese al di fuori della Palestina storica – in Giordania o nella regione del Sinai – è presente da molto tempo nel pensiero sionista. “La Giordania è la Palestina” è stato un grido di battaglia della destra israeliana per decenni. Ci sono stati simili proposte riguardo al Sinai.

In tempi recenti, l’opzione Sinai ha trovato il favore della destra israeliana, soprattutto dopo lo scoppio della seconda intifada 14 anni fa. Questo supporto sembra si sia intensificato dopo il Piano di disimpegno unilaterale israeliano  nel 2005 e la vittoria di Hamas alle elezioni nazionali palestinesi un anno dopo.

In particolare, lo schema è diventato il fulcro della conferenza di Herzliya 2004, una riunione annuale di élite accademiche, politiche e di sicurezza di Israele per scambiare e sviluppare idee politiche. È stato poi entusiasticamente adottato da Uzi Arad, fondatore della conferenza e consigliere da lungo tempo di Benjamin Netanyahu, l’attuale primo ministro.

Uzi Arad ha proposto uno scambio a tre vie, in cui i palestinesi otterrebbero parte del Sinai per il loro stato, mentre in cambio Israele riceverebbe la maggior parte della Cisgiordania, e all’Egitto verrebbe garantito un passaggio attraverso il Negev per collegarsi alla Giordania.

Una variante dell’opzione “il Sinai è la Palestina” è stata rispolverata nuovamente quest’estate.dalla destra durante l’operazione Protective Edge, l’attacco di Israele su Gaza durato 50 giorni.

Moshe Feiglin, il Presidente della Knesset israeliana e membro del partito Likud di Netanyahu, ha richiesto che gli abitanti di Gaza vengano espulsi dalle loro case sotto la copertura dell’operazione e siano trasferiti in Sinai, secondo quello che definisce una “soluzione per Gaza”.

È stato Morsi a offrire il Sinai?

Dato che la logica dietro all’ “opzione Sinai” è di rimuovere i palestinesi da quello che la destra israeliana chiama Grande Israele, e che a tale piano si oppongono con veemenza tutte le fazioni palestinesi, inclusa Hamas, perché viene sostenuto da Morsi?

Inoltre, perché avrebbe proposto di rinunciare ad un pezzo di territorio egiziano per soddisfare le ambizioni di Israele, compromettendo in tal modo la sua credibilità nazionale, in un momento in cui stava lottando per la sopravvivenza politica su molti altri fronti?

Una possibilità è che l’ufficio di Abbas abbia semplicemente inventato la storia per screditare Morsi e i Fratelli musulmani, e per estensione i rivali politici di Abbas ad Hamas, e quindi vincere il favore di Sisi.

Ma pochi palestinesi o egiziani sembrano trovare questa versione credibile, e Sisi non ha mostrato alcun interesse nel perseguire questa linea di attacco contro Morsi. Perché Abbas dovrebbe inventare una storia che potrebbe rimbalzare su di lui associandolo a strategie subdole da parte di Egitto, Israele e Stati Uniti?

Ci sono altri due pezzi del puzzle che suggeriscono che ci potrebbe essere qualcosa di più di quello che è immediatamente visibile dietro a questa storia del Sinai.

In primo luogo ci sono i commenti fatti da Abbas subito prima che i media israeliani iniziassero a parlare di questa presunta offerta di Sisi, quando la voce iniziava a circolare nei media arabi.

Il 31 agosto in una riunione con i lealisti di Fatah, Abbas ha segnalato che la proposta di creare uno stato palestinese in Sinai era ancora di interesse per i funzionari egiziani.

Egli avrebbe detto: “Un leader di alto livello in Egitto ha detto: ‘un rifugio deve essere trovato per i palestinesi e noi abbiamo tutta questa terra’. Questo mi è stato detto personalmente. Ma è illogico che il problema sia risolto a spese dell’Egitto. Noi non ci stiamo”.

Il sito del Times of Israel ha dichiarato di avere successivamente verificato questi commenti con Abbas.

Il leader palestinese ha fatto osservazioni simili alla TV egiziana una settimana prima, quando ha detto a un intervistatore che un piano israeliano per il Sinai era stato “purtroppo accettato da alcuni qui [in Egitto]. Non chiedetemi altro su questo. L’abbiamo abolito, perché non può essere accettato”.

Che dire di Mubarak?

Il secondo indizio è stato fornito in un rapporto in inglese, tenuto poco in considerazione, pubblicato il mese scorso sul sito del quotidiano arabo Asharq Al-Awsat, con sede a Londra, ma con forti legami con la famiglia reale saudita.

L’articolo sosteneva che, negli ultimi anni della sua presidenza in Egitto, Hosni Mubarak avrebbe ricevuto forti e ripetute pressioni dagli Stati Uniti che gli chiedevano di cedere territorio nel Sinai ai palestinesi per aiutarli a stabilire uno stato.

L’articolo, scritto sulla base di informazioni apparentemente fornite da un ex funzionario di Mubarak rimasto anonimo, dichiarava che queste pressioni hanno cominciato ad essere esercitate in Egitto dal 2007.

La fonte ha riportato che all’epoca Mubarak avrebbe detto: “Stiamo combattendo sia gli Stati Uniti che Israele. Ci viene fatta pressione per aprire il valico di Rafah per i palestinesi e concedere loro la libertà di residenza, soprattutto nel Sinai. In un anno o due, la questione dei campi profughi palestinesi nel Sinai sarà internazionalizzata”.

Secondo Mubarak, stando a quel che dice il rapporto, Israele sperava che, una volta che i palestinesi fossero in territorio egiziano, la superficie complessiva del Sinai e Gaza sarebbe stata trattata come stato palestinese. Questo sarebbe l’unico territorio in cui ai rifugiati palestinesi verrebbe permesso di ritornare.

Anticipando le dichiarazioni successive dall’ufficio di Abbas, questa fonte egiziana ha detto che una proposta simile era stata fatta a Morsi quando salì al potere nel 2012. Una delegazione di leader della Fratellanza Musulmana si recò a Washington, dove funzionari della Casa Bianca proposero che “l’Egitto cedesse un terzo del Sinai a Gaza in un processo in due fasi lungo quattro o cinque anni “.

Funzionari degli Stati Uniti, afferma il rapporto, promisero di “stabilire e sostenere pienamente uno stato palestinese” nel Sinai, compresa la creazione di porti marittimi e di un aeroporto. La Fratellanza fu allora sollecitata a preparare l’opinione pubblica egiziana su questo progetto.

Pezzi del puzzle

Quindi che cosa possiamo dedurre da tutti questi pezzi di puzzle?

Preso singolarmente ognuno di questi indizi può essere trascurato. Il rapporto di Asharq al-Awsat si basa su una fonte anonima e ci potrebbero essere interessi sauditi dietro alla promozione di questa storia. Allo stesso modo, gli israeliani potrebbero aver messo in atto una campagna di disinformazione.

Ma nel loro insieme, e dato che Abu Mazen sembra, seppur con riluttanza, avere ammesso alcuni elementi della storia, diventa molto più difficile ignorare la probabilità che questi reportage abbiano qualche fondamento.

Sembra indubbio – visti questi rapporti ma anche viste le aspirazioni più ampie della destra israeliana – che un piano di espansione verso il Sinai sia stato realizzato dai servizi di sicurezza di Israele e che stia aggressivamente avanzando, anche attraverso le attuali fughe di notizie ai media israeliani. Sembra anche che varie versioni di questo piano siano state messe in atto con più vigore a partire dal 2007, da quando Hamas ha preso il controllo esclusivo di Gaza.

La logica attuale di Israele per fare avanzare l’opzione Sinai è che essa mina la campagna sempre più intensa di Abbas per chiedere il riconoscimento di uno stato palestinese alle Nazioni Unite, campagna alla quale Israele e gli Stati Uniti si oppongono categoricamente.

Sembra anche plausibile, data la forza dei loro legami con Israele, che gli Stati Uniti stiano sostenendo il piano e aggiungendo la loro considerevole influenza per convincere i dirigenti egiziani e palestinesi.

Più difficile da capire invece, è se l’Egitto abbia risposto positivamente ad una tale campagna.

Un analista egiziano ha spiegato la reazione attesa da Sisi e dai suoi generali: “L’Egitto sta costantemente cercando di tenere a bada Gaza. Le gallerie sono state distrutte ed è prevista una zona cuscinetto. Portare più elementi potenzialmente ostili più vicini all’Egitto sarebbe una mossa pericolosa e imprudente”.

Questo è abbastanza vero. Quindi che potere hanno Israele e Stati Uniti  sull’Egitto che potrebbe convincere questo paese a ignorare le preoccupazioni per la sicurezza nazionale?

Giro di vite

A parte le grandi somme di aiuti militari che Washington dà all’Egitto ogni anno, c’è la questione sempre più pressante per il Cairo della terribile penuria di carburante, che rischia di portare a un nuovo ciclo di proteste di piazza.

Israele ha recentemente scoperto grandi giacimenti offshore di gas naturale, che è pronto a esportare ai suoi vicini. Israele sta gia silenziosamente siglando accordi con l’Autorità palestinese e la Giordania, e pare che ne stia discutendo anche con l’Egitto.

E’ questo parte della pressione esercitata sui leader egiziani per concedere territori in Sinai? Ed è stato sufficiente per fare dimenticare le preoccupazioni per la sicurezza?

Infine, c’è il ruolo della leadership palestinese. Abbas ha detto con fermezza che non tollererà un tale accordo. Come può pensare Israele di fargli cambiare idea?

Una possibilità controversa, che getta una luce molto diversa sugli eventi di questa estate, è che Israele potrebbe sperare di “ammorbidire” l’opinione palestinese, in particolare a Gaza, rendendo la vita ancora meno sopportabile di quanto già non sia per la popolazione.

E’ evidente che le operazioni di Israele di attacco su larga scala a Gaza – nell’inverno del 2008-09, 2012 e di nuovo quest’anno -sono iniziate poco dopo che Israele e gli Stati Uniti, secondo Asharq al-Awsat, hanno iniziato a mettere pressione su Mubarak per concedere parte del Sinai.

La distruzione massiccia e ripetuta di Gaza ha il vantaggio per Israele di consentire al Cairo di lanciare la sua offerta di una piccola fetta del Sinai ai palestinesi come gesto umanitario disperatamente necessario.

Il successo dell’approccio di Israele richiede di isolare Gaza, attraverso un blocco, e infliggendo danni enormi su di esso per incoraggiare i palestinesi a rivedere la loro opposizione ad uno stato al di fuori della Palestina storica. Tutto ciò è  perfettamente in linea con la politica israeliana dal 2007.

L’opzione Sinai potrebbe essere difficile da confermare in questa fase, ma dovremmo tenerla bene in mente, mentre cerchiamo di dare un senso agli eventi che accadranno nella regione nel corso dei prossimi mesi e anni.

Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta su Middle East Eye

 

Jonathan Cook

Jonathan Cook ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. I suoi ultimi libri sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books).Il suo sito web è jonathan-cook.net.

Traduzione di Livia Salvatori