Il silenzio e l’ignavia della Comunità internazionale.

 

Il silenzio e l’ignavia della Comunità Internazionale

Di

Luisa Morgantini

Tratto da Liberazione 02.11.06

Fermare il governo israeliano, l’Ue sospenda gli accordi di associazione economica, il governo italiano revochi gli accordi militari e sulla sicurezza stipulati con il governo israeliano, l’Onu imponga il rispetto delle risoluzioni delle nazioni unite ed un minimo di legalità internazionale.

La politica unilaterale e militare di Israele conduce solo al disastro morale e politico della stessa Israele oltre ad infliggere alla popolazione palestinese sofferenze inaudite, umiliazioni e punizioni collettive. Dopo il Libano si era ventilata l’ipotesi di una presenza internazionale a Gaza, lo si faccia per proteggere la popolazione palestinese e israeliana. I tempi sono più che urgenti.

Ieri al Consiglio della sicurezza del govenro israeliano, il nuovo ministro Libermann di origine russa, noto per il suo razzismo e fascismo (è per la deportazione di tutti i palestinesi, compresi i palestinesi cittadini israeliani), pare abbia detto che a Gaza l’esercito israeliano dovrebbe comportarsi come i russi in Cecenia, in realtà l’esercito israeliano non ha bisogno di imitare nessuno, le sue azioni e quelle dei suoi generali sono da portare al Tribunale Internazionale dei crimini di guerra.

Due sere fa, mentre con una delegazione di 12 membri del Parlamento Europeo di tutti i partiti politici, lasciavamo Gaza dal confine di Eretz. Su Beit Hanoun, villaggio al confine, piovevano le bombe israeliane. Mentre osservavamo l’ area industriale di Gaza, ridotta ad un ammasso di rovine dai buldozer israeliani solo quattro giorni prima, vedevamo il drone puntare su Beit Hanoun.

Il nostro autista Ahmad era terreo. Con la sua e altre 25 famiglie avevano lasciato le loro case di Beit Hanoun, alla fine di agosto perché gli israeliani gli avevano fatto sapere che le avrebbero bombardate, adesso vive con i suoi dieci figli e la moglie in una casa in affitto a Gaza e ci dice che ogni giorno «è come aspettare di morire».

Uomini di affari e industriali palestinesi ci raccontavano come le demolizioni e i bombardamenti che avevano distrutto case, ponti, strade, la centrale elettrica e tutte le infrastrutture, insieme alla chiusura del check point di Karni di Rafah, impedivano qualsiasi importazione o esportazione di merci palestinesi, senza parlare dei movimenti delle persone e che questo conduceva al totale disastro economico ed umanitario della striscia di Gaza, ma anche della Cisgiordania. Il costo delle merci importate a Gaza è ormai più alto che in qualsiasi paese europeo, cresce il mercato nero e il contrabbando sia con Israele che con l’Egitto.

I dipendenti pubblici più di 150.000 in tutte la Palestina non sono pagati da 8 mesi. I soldi ci sarebbero se Israele restituisse i dazi doganali confiscati all’autorità palestinese. L’Unione Europeo e il quartetto invece di imporre al governo israeliano la restituzione dei dazi ha (cercando come al solito di risolvere la questione politica con gli aiuti umanitari), introdotto un meccanismo internazionale temporaneo (TIM) per alleviare i casi più disagiati, introducendo un meccanismo discriminatorio nei confronti dei lavoratori, infatti solo i dipendenti della sanità e dell’istruzione hanno ricevuto dei rimborsi parziali dei loro stipendi, mentre nulla avuto tutti gli altri compresi la polizia che dovrebbe portare sicurezza ma se non è pagata rischia di soccombere alla corruzione.

All’ospedale di Al Shifa a Gaza, abbiamo visto i corpi straziati di donne, bambini, uomini, anziani. I medici chiedono una inchiesta internazionale perché le ferite sembrano prodotti da armi al fosforo e chimiche. L’ospedale è a corto di medicinali e non attrezzato a curare ferite di questo tipo. Ammalati di cancro o terminali non possono più avere le cure al Cairo o in Israele per la chiusura delle frontiere.

Una situazione insostenibile, tracollo umanitario e massacri di popolazione civile. Nel silenzio e nell’ignavia della Comunità Internazionale. Diecimila e cinquecento prigionieri politici su una popolazione di 3.500.000 abitanti, tra loro 400 ragazzi, più di duecento donne, 1.500 in detenzione amministrativa da anni e anni senza avere avuto nessun processo.

Le forze politiche palestinesi è vero non sembra abbiano una strategia. Lo scontro tra parti di Hamas e di Fatah non è solo politico, porta allo scontro armato e all’insicurezza per tutti i cittadini. Lo sforzo di portare ad un governo di unità nazionale è continuamente minato da lotte di potere interne alle forze politiche palestinesi, ma soprattutto dall’assedio e dalla politica israeliane e dalle interferenze Usa.

Le forze politiche che abbiamo incontrato senza discriminazioni alcune, perché la nostra delegazione riconosce il governo liberamente e democraticamente eletto dai palestinesi, hanno ribadito che non arriveranno alla guerra civile, che troveranno un accordo sulla base del documento di riconciliazione nazionale e del documento sui 21 punti dei prigionieri politici, massimo promotore Marwan Barghouti. Il documento riconosce l’autorità dell’OLP, gli accordi firmati e lo stato palestinese nei confini del 1967. Sono impliciti, con il cessate il fuoco che Hamas rispetta, i tre punti richiesti dalla Comunità internazionale per la ripresa dei rapporti con l’autorità palestinese
E’ l’unica possibilità perché si possa riprendere un negoziato. Intanto Mahoud Abbas sta ricevendo pressioni per assumere decisioni unilaterali che sarebbero mortali per la democrazia e per il futuro della popolazione palestinese.

A noi forze sociali e politiche spetta di agire al massimo perché questo non avvenga e si ponga fine alla politica di occupazione militare israeliana e all’isolamento dei palestinesi.

Sarà capace il nostro governo di continuare la strada intrapresa con il Libano e lavorare intensamente e con urgenza per la convocazione di una conferenza internazionale di pace per la regione e intanto si fermi il massacro dei palestinesi?

 

 

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