Il “winewashing” dell’occupazione israeliana

Aljazeera.com. Di Belen Fernandez (Da InvictaPalestina.org). Israele sta usando la sua industria  vinicola per distogliere l’attenzione  dai suoi altri “hobbies” come la pulizia etnica, l’apartheid e il periodico massacro di palestinesi.

Nel 2016, l’emissaria del Washington Post Anne-Marie O’Connor si avventurò nell’avamposto illegale israeliano di Havat Gilad in Cisgiordania per riferire su come “il turismo è il nuovo fronte nella battaglia per la legittimazione dei coloni israeliani”. In effetti, non c’erano molti altri modi migliori per un importante quotidiano statunitense nel contribuire a questa battaglia, che inviare una scrittrice ad assaggiare “‘la bella vita’, con ottimi cabernet e formaggio artigianale sulle cime delle colline dell’aspra terra biblica rurale popolata dai figli armati di Abramo”.

Dal punto di vista sionista, ovviamente, l’associazione del territorio con la “terra biblica” conferisce legittimità più che sufficiente alla sua “usurpazione illegale” da parte dei palestinesi. A Havat Gilad, O’Connor raccolse affascinanti osservazioni politico-turistiche come “Gli chalet per le vacanze sono nuovi e costruiti direttamente sul campo” e “Le degustazioni di vini sono una nuova arma contro la soluzione a due stati” – con una proliferazione di cantine boutique in Cisgiordania utili a un “winewashing” dell’occupazione.

La giornalista scelse di concludere il suo servizio con una citazione di Karni Eldad, coautrice di una guida alle vacanze in Cisgiordania, la quale  insisteva sul fatto che il panorama locale comprendeva  molto di più che un “giovane in cima a una collina che brucia una casa” nel villaggio di Duma – un riferimento, spiegava O’Connor, ai “giovani estremisti ebrei che sono i presunti autori di un attacco incendiario” nel 2015 che ” uccise  una madre e un padre palestinesi e il loro bambino di 18 mesi, e  ustionò gravemente il loro altro  figlio di 5 anni”.

In quella “stessa collina” che ha prodotto i presunti bombardieri incendiari, sottolineava Eldad, “c’è un gregge di capre il cui latte produce un formaggio incredibile”.

È stato detto abbastanza.

Torniamo velocemente al presente e vediamo come il “winewashing” proceda a ritmo sostenuto. Un post del marzo 2022 sul sito web della società di media VinePair con sede a New York descrive in dettaglio come il Ministero del Turismo israeliano stia capitalizzando la “realtà del vino in piena espansione”, che comprende più di 300 aziende vinicole in un paese delle dimensioni del New Jersey di cui più di 50 solo nei pressi di Gerusalemme, “alcuni di esse costruite in zone dove il vino veniva prodotto dai coloni migliaia di anni fa”.

L’industria vinicola israeliana “ha radici antiche”, ci viene detto, per evitare che si perda ogni opportunità di negare la pretesa eterna e inalterabile pretesa di Israele su questo pezzo di terra. Tuttavia, è stato “solo negli anni ’90, con l’azienda vinicola Golan Heights, che il vino israeliano ha potuto competere su scala internazionale”. Queste sarebbero le stesse alture del Golan che Israele ha sequestrato illegalmente dalla Siria, il che sottolinea ancora una volta quanto possa essere ottimo per gli affari appropriarsi violentemente della terra fertile di altre persone e di altre attività redditizie.

Secondo la narrativa sionista, occorre ringraziare le tecniche israeliane di “fioritura del deserto” per la progressiva fertilità di selezionati paesaggi levantini dopo il 1948, quando Israele si è ufficialmente inventato su terreno palestinese rubato. Nonostante non esista “un popolo palestinese”, come notoriamente ha affermato l’ex primo ministro israeliano Golda Meir – e nonostante la presunta incompetenza agricola del non popolo, che preferiva invece abitare in una sterile terra desolata – Israele ancora oggi ritiene necessario sradicare e distruggere ulivi e alberi da frutto, raccolti e frutteti palestinesi, per non parlare degli stessi palestinesi. Ciò sembrerebbe suggerire che l’accordo precedente al 1948 non riguardava certo un deserto orientale in attesa di conquista civile – e che le macchinazioni israeliane sono s tutt’altro che, ehm, fiorite.

Ora, la questione del vino israeliano ha gettato le basi per una propaganda sempre più spinta con lo scopo di distogliere l’attenzione da altri hobbies domestici come la pulizia etnica, l’apartheid e il periodico massacro di palestinesi. In un intervento del Jerusalem Post del novembre 2021, David M. Weinberg affermava che la “rivoluzione del vino di Israele è un segno del favore divino… un’indicazione innegabile e cruda del sostegno del cielo” e una realizzazione di “profezie bibliche”.

La “Terra d’Israele si è risvegliata”, proclamava Weinberg, “dando frutti al suo popolo indigeno, il popolo ebraico, che è ritornato a rinnovare la sua antica patria” – ora divenuta una “superpotenza mondiale dell’agricoltura verdeggiante”. Prosegue rilevando “echi biblici e sionisti in ogni bicchiere di buon vino israeliano”, il cui consumo è una “profonda professione di fede” e una “celebrazione del Popolo, della Terra e del Dio d’Israele riunificato”.

Nella terra di Palestina, vale la pena menzionare, il vino è stato prodotto per millenni, sebbene le contemporanee operazioni di vinificazione palestinesi siano rese difficili, tra l’altro, dal furto di terre e risorse, dal divieto di etichettare il vino palestinese come palestinese e dalle attività israeliane che fioriscono nel deserto, come l’erezione di mura massicce in mezzo ai vigneti palestinesi.

Weinberg non è l’unico ubriaco di sionismo. Con Israele che ha recentemente riaperto ai turisti internazionali indipendentemente dallo stato di vaccinazione COVID, vari siti di viaggio popolari si sono impegnati a mettere in evidenza le offerte per i viaggiatori  interessati al vino.

Poi c’è Adam S Montefiore, che “ha contribuito allo sviluppo dei vini israeliani per 35 anni” e si vanta di essere “indicato come ‘l’ambasciatore dei vini israeliani’ e ‘la voce inglese dei vini israeliani’”. Le sue regolari apparizioni sulle pagine del Jerusalem Post includono una presentazione del marzo 2022 dal titolo “Vola come una farfalla, pungi come un’ape” – appropriandosi  delle parole del leggendario pugile filo-palestinese Muhammad Ali – e un altro dello stesso mese dal titolo “Non c’è spazio per i piccoli sogni”.

Quest’ultimo titolo, sotto il quale Montefiore parla dell’inaspettato successo dell’israeliana Nachmani Winery a conduzione familiare, è esso stesso tratto dall’omonimo libro del defunto presidente israeliano Shimon Peres. Parlando di cose legate alla vite, Peres è incidentalmente anche l’uomo che ha presieduto l’Operazione “Grapes of Wrath”, il sanguinoso assalto militare israeliano del 1996 al vicino Libano – da non confondere con i sanguinosi assalti militari israeliani al Libano nel 1978, 1982, 1993, 2006 e così via.

Condividendo il nome con il romanzo di John Steinbeck, Grapes of Wrath comprende il massacro del 18 aprile 1996 di 106 civili che si erano rifugiati in un complesso delle Nazioni Unite nel villaggio di Qana, nel sud del Libano. Il defunto giornalista britannico Robert Fisk visitò le conseguenze del massacro trovando, come ricordò in seguito, “gambe e braccia, bambini senza testa, teste di vecchi senza corpo” e una ragazza piangente che sedeva cullando un cadavere dai capelli grigi: “Padre mio, padre mio”.

Per fortuna, Qana è lo stesso villaggio in cui, ai tempi, si dice che Gesù abbia miracolosamente trasformato l’acqua in vino. E poiché l’attuale glorificato miracolo vitivinicolo di Israele continua a inondare di vino ogni sorta di atrocità, è davvero una vendemmia di collera..

Belen Fernandez è l’autrice di Checkpoint Zipolite: Quarantine in a Small Place (OR Books, 2021), Exile: Rejecting America and Finding the World (OR Books, 2019), Martyrs Never Die: Travels through South Lebanon (Warscapes, 2016), e The Imperial Messenger: Thomas Friedman al lavoro (Verso, 2011). È collaboratrice di Jacobin Magazine e ha scritto per il New York Times, il blog London Review of Books, Current Affairs e Middle East Eye, tra numerose altre pubblicazioni.

(Immagine di copertina: vino rosso gocciola dal torchio dopo la fermentazione alla Seahorse Winery il 17 settembre 2021 al Moshav Bar Giora nelle Judean Hills a Gerusalemme [David Silverman/Getty Images]).

Traduzione di Grazia Parolari per Invictapalestina.org.