In Libano resteremo anni.

In Libano resteremo anni

di Gigi Riva

I Caschi blu italiani non dovranno disarmare gli Hezbollah. Ma favorire la loro integrazione nelle forze regolari. Un processo lungo. Che può portarci anche a Gaza. Parla il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema

 
Non andremo in Libano a disarmare Hezbollah, «ma a coadiuvare l’esercito libanese ad acquisire piena sovranità nel sud», dice Massimo D’Alema per sgombrare il campo da «analisi sbagliate» sul senso e lo scopo della nostra missione. Quanto all’ala militare di Hezbollah, l’unica prospettiva «realistica» è quella dell’integrazione della milizia nelle forze armate libanesi. Sarà un’operazione che richiederà «anni». In questa intervista a "L’espresso" D’Alema parla «da amico d’Israele» della guerra a suo avviso sbagliata condotta dal governo Olmert. Individua nel problema palestinese il vero nodo irrisolto da cui derivano i guai della regione. Nota infine con soddisfazione che anche gli americani, a cominciare da Condoleezza Rice, stanno avendo ripensamenti sulla dottrina della guerra preventiva e dell’unilateralismo. Proprio il Libano ha segnato una svolta, ha ridato centralità all’Onu e ha trovato, a sorpresa, un nuovo protagonista: l’Europa. L’unità dei Paesi del vecchio Continente è stata la chiave che ha portato a trovare un consenso sulla risoluzione votata all’unanimità al Consiglio di sicurezza.

Come spiega agli italiani che è giusto ritirarsi dall’Iraq ed è giusto invece andare in Libano?
«Le differenze sono enormi. Il quadro è totalmente diverso. Ci andiamo coi caschi blu, nel rispetto del mandato costituzionale e per garantire la pace. La condizione della pace è la presenza della forza dell’Onu. Più di così?».

E tuttavia non vanno sottaciuti i pericoli.
«Ci sono dei pericoli. Ma è sbagliato dire che i nostri soldati vanno lì a disarmare Hezbollah, che ora è percepito in larghe fasce della popolazione libanese, giusto o sbagliato che sia, come una sorta di forza di resistenza nazionale dopo il disastroso errore politico rappresentato da questa guerra. Il premier Fuad Siniora, un democratico sostenuto dall’Occidente, si è trovato nella situazione di doverli pubblicamente ringraziare per aver difeso la patria».

Chi disarma gli Hezbollah allora?
«L’unica prospettiva realistica è un accordo tra forze politiche libanesi che probabilmente si risolverà con l’integrazione di Hezbollah nella forza armata libanese regolare. D’altra parte chi potrebbe mai fare azioni di forza contro un movimento considerato da molti, in Libano, come patriottico? Dunque la soluzione vera consiste nel ricondurre quella forza militare sotto l’autorità di chi governa».

Lo sceicco Nasrallah si è già detto contrario allo smantellamento del suo esercito.
«Questo è un punto cruciale per il governo del Libano. Perché non c’è governo democratico senza il monopolio della forza. Il premier Fuad Siniora mi sembra determinato e deve avere il sostegno della comunità internazionale. Il disarmo, oltretutto, è previsto da un accordo infralibanese. Quindi noi andiamo lì ad aiutare il Libano a fare ciò che aveva deciso di fare. Non è un’imposizione esterna».

L’integrazione di Hezbollah nell’Esercito dovrà avvenire prima dell’invio dei nostri soldati?
«Se così fosse, andremmo in Libano tra un paio d’anni! È certamente pregiudiziale che tacciano le armi, che le milizie si ritirino dal Sud del Libano dove dovranno esserci soltanto le armi dell’esercito libanese e dell’Unifil. Il processo di liquidazione o riassorbimento della milizia avverrà gradualmente. La forza internazionale darà un supporto organizzativo, preparerà i libanesi, li aiuterà ad avere forze armate efficaci».

Saremo in Medio Oriente tra una decina di giorni, secondo un suo pronostico.
«Non ho mai detto questo. Ho sostenuto che siamo in grado di dispiegarci in un tempo rapido dal momento in cui tutti i passaggi politici internazionali e interni saranno completati. La decisione la deve assumere anzitutto l’Onu che ora sta prendendo nota delle disponibilità e pianificando l’operazione. Ci troviamo dentro un contingente internazionale, non possiamo certo andare da soli. E poi ci sono i nostri passaggi parlamentari».

A Ferragosto lei ha visto il presidente egiziano Mubarak che sembra preoccupato del crescente peso nell’area dell’Iran e della popolarità di organizzazioni terroristiche.

«Lo è, come tutti. È un dato l’enorme crescita di consenso verso Hezbollah per essere riuscito a non farsi travolgere dalla forza militare d’Israele. Paradossalmente, è apparso come l’alfiere della dignità del mondo arabo».

Mondo arabo peraltro in preda a un conflitto per la supremazia tra sunniti e sciiti.
«Penso al contrario che questa divisione stia abbastanza perdendo di significato, a parte in Iraq dove si manifesta nel rischio tragico di guerra civile. Nel corso delle ultime settimane la popolarità dell’Iran è cresciuta anche in Paesi a larga maggioranza sunnita».

Pensa che l’ordine di rapire i soldati israeliani, causa scatenante della guerra, sia partito da Teheran?
«Nasrallah aveva annunciato da mesi l’intenzione di rapire dei soldati per ottenere la liberazione di tre detenuti. Ci avevano anzi già provato. Era un atto annunciato. Poi, certo, mi sembra oltre ogni ragionevole dubbio che l’Iran abbia finanziato e sostenuto Hezbollah. Ma le teorie per cui si muovono i fili mi sembrano troppo complottarde».

Secondo una teoria lanciata da qualche giornale americano, sarebbero stati gli Usa a spingere Israele alla guerra vista come primo round del grande conflitto con l’Iran.
«Dubito che risponda al vero. Ho l’impressione che gli israeliani non si facciano guidare da nessuno. Si appoggiano agli americani, ma non si fanno guidare. Li guidano le preoccupazioni, le angosce, il pubblico sentire di un Paese che si sente accerchiato».

Il 22 agosto è vicino: la comunità internazionale si aspetta una risposta dall’Iran circa il nucleare.
«Io continuo a sperare che arrivi dall’Iran una risposta ragionevole. Personalmente, non credo alla politica dell’isolamento e delle sanzioni, non ha mai prodotto effetti positivi. Si deve contare sulle forze della società iraniana che vogliono evitare lo scontro. Abbiamo cercato di tenere aperto un canale di dialogo senza rinunciare a una posizione di fermezza condivisa da tutti: evitare che l’Iran si doti di armi nucleari. Spero che, come per il Libano, anche questa questione si affronti in sede Onu e d’altra parte il Consiglio di sicurezza ne è già investito».

Torniamo al Libano. Basta la popolarità acquisita per dire che Hezbollah ha vinto?
«C’è un risultato politico evidente. La stessa opinione pubblica israeliana lo percepisce come tale. Questa guerra è stata un errore. La prima reazione è stata comprensibile, ma dopo alcuni giorni gli israeliani avrebbero dovuto fermarsi così come gli avevamo chiesto di fare, avendo ragione. In generale credo che si debba uscire dalla discussione su chi sta con Israele e chi no: tutti stiamo con Israele. Ciò che stiamo facendo è per la sicurezza d’Israele. Ma subito si pone un problema: qual’è la strategia che meglio garantisce questa sicurezza? A mio avviso la ricerca di una pace giusta coi vicini».

La storia ci dice qualcosa.
«Sì: che dalla pace giusta con Egitto e Giordania, Israele ha ottenuto più sicurezza».

Ma la formula "territorio in cambio di pace" non ha funzionato coi ritiri dal Libano nel 2000 e da Gaza nel 2005.
«Quei ritiri non sono stati negoziati con nessuno. La logica dell’unilateralismo non paga. Al contrario il ritiro da Gaza ha dato ai palestinesi la sensazione che Israele voglia ritagliarsi i confini che vuole in Cisgiordania e non lasciare alcun pezzo di Gerusalemme. Oltretutto gli estremisti hanno potuto dire: vedete? Abbiamo messo le bombe e se ne sono andati da Gaza, mentre i moderati non hanno potuto dire: abbiamo negoziato e se ne sono andati».

A Gaza lei ha detto di volere i caschi blu.
«In prospettiva sarei favorevole. Anche Mubarak pensa a una risoluzione Onu che ponga fine al conflitto a Gaza. Ma adesso dobbiamo procedere per gradi. Se le cose funzioneranno in Libano, gli israeliani potrebbero comprendere che anche altrove una presenza della comunità internazionale è un fattore di garanzia per loro».

Perché Israele oggi accetta una forza Onu quando non l’aveva mai fatto?
«Capiscono che il tema della sicurezza non può essere affidato esclusivamente alla loro forza militare, ma anche a una responsabilità della comunità internazionale. Cominciano a comprendere il rischio che il conflitto cambi natura. Non più un conflitto coi soli palestinesi che tutto sommato Israele avrebbe potuto regolare con la sua forza preponderante, ma un conflitto che travalica addirittura i confini del mondo arabo. E Israele diventerebbe una sorta di avamposto dello scontro di civiltà con l’Islam. Un pericolo per il quale non esiste soluzione militare».

 
Le si può obiettare che la percezione cambia se davanti c’è qualcuno che vuole distruggerti.
«È vero il contrario. È proprio l’esistenza di un partito di questo tipo che dovrebbe consigliare di rivolgersi alla comunità internazionale. Noi non abbiamo interessi strategici in Libano. Se mandiamo i nostri soldati laggiù è per garantire Israele. E Israele ci dovrebbe essere grato e dovrebbe ragionare con noi su quale sia il modo migliore per affrontare questi pericoli. Oggi ci occupiamo di Libano, ma il cuore, la madre di tutte le guerre resta quella coi palestinesi. L’errore americano è stato quello di pensare che fosse l’Iraq la leva per la soluzione dei guai dell’area e invece la leva è la questione palestinese».

Che è tra l’altro una rivendicazione nazionale, dunque contenibile in certi confini.
«Però è diventata il pretesto, o la ragione, che alimenta il fondamentalismo e il senso di frustrazione e di ingiustizia subita. Ed è vissuto come tale da enormi masse di persone in tutto il mondo arabo».

Invece si è preferito far guerra all’Iraq.
«Adesso non possiamo accontentarci di dire: avevamo ragione su quella guerra. Dobbiamo cercare di uscire dalle difficoltà mettendo in campo una strategia nuova i cui capisaldi sono: presenza dell’Onu e fine dell’unilateralismo; unità dell’Europa che si è manifestata in modo efficace in questa crisi ed è stata una novità vera; rapporto con le componenti democratiche del mondo arabo che significa Siniora, Abu Mazen, Mubarak. Se vogliamo sostenerli dovremo sentirne le ragioni».

Perché è stato possibile il ritorno in scena dell’Onu?
«Perché gli americani hanno cominciato a rendersi conto che la loro politica nel Medio Oriente non ha prodotto i risultati attesi. Da questo punto di vista ho trovato un’interlocuzione interessante col segretario di Stato, Condoleezza Rice, perché lei è probabilmente la persona dell’amministrazione più consapevole della necessità di un rapporto diverso con l’Onu. Questo è stato il fondamento di una collaborazione inattesa da parte di chi pensava che un governo di centrosinistra avrebbe lacerato i buoni rapporti con gli Usa».

La cartina di tornasole è stata la Conferenza di Roma?
«Non solo. La recente telefonata di Bush con Prodi, il rapporto di lavoro continuativo con la Rice. Quanto alla Conferenza di Roma vorrei far notare che quel documento considerato "deludente" è esattamente la traccia della risoluzione adottata dall’Onu».

Ministro, la destra le rimprovera di essersi allontanato dalle posizioni filoisraeliane. L’accusano per quella frase "reazione sproporzionata".
«Era scritta nei documenti europei, non è un’invenzione strana di quell’antisemita di D’Alema. Avevo avvertito gli israeliani che con la guerra avrebbero dato più forza agli estremisti arabi. Avevo ragione, purtroppo. Sono finiti in una trappola e non ne avevano valutato le conseguenze neppure sotto il profilo delle capacità militari effettive contro un nemico sfuggente e irregolare».

Il cuore della questione, lei dice, sta nella soluzione del problema palestinese. Ma non si vedono interlocutori adeguati.
«La pace si fa con chi c’è. Il governo Olmert è nato per fare la pace, dobbiamo avere fiducia che rispetterà l’mpegno, dobbiamo incoraggiarlo e sostenerlo. Ha avuto un esordio infelice ma spero ritrovi la sua vocazione più autentica».

Anche il governo Olmert sembra privilegiare la sicurezza alla pace.
«Questa ossessione della sicurezza ha un fondamento. Ma Israele deve riscoprire il nesso tra sicurezza e pace che Rabin aveva capito perfettamente. Hanno sempre pensato che la sicurezza è la premessa della pace, mentre sono due facce della stessa medaglia».

Quale lezione si può trarre dalla guerra appena conclusa?
«Di fronte a una guerriglia motivata dal fanatismo religioso nessun esercito può spuntarla. Il terrorismo che scaturisce dal fanatismo religioso non si sconfigge con le guerre, ma con la politica, la cultura, l’economia. Processi lunghi, insomma».

Se Hezbollah ha vinto come immagine, significa Israele ha perso?
«Si è trovato di fronte a un fenomeno che non si risolve con la forza dell’sercito. Potrebbe essere un’esperienza utile a Israele per capire che è finita una fase e per incamminarsi su una strada più efficace proprio ai fini della sua sicurezza».

Anche il Libano ha comunque perso.
«Ha subito enormi distruzioni. Ma è stato invaso sei volte e una certa esperienza di ricostruzione ce l’ha».

Chi ha vinto allora?
«Come spesso accade in guerra hanno perso tutti. Si vince quando si esce dal conflitto. Ha vinto l’Onu che ha posto fine alla guerra».

 

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