In Palestina l’apartheid è anche economica e finanziaria

Valori.it. Di Andrea Barolini. A HebronRamallahBetlemme e nella Striscia di Gaza l’architettura urbana parla. Parlano le palazzine di cemento, i fasci di fili elettrici sospesi nelle periferie, il susseguirsi di strutture fatiscenti. Raccontano la storia della Palestina, la vita di chi la abita. Anche le insegne dei negozi parlano. Alcune possono risultare familiari anche a chi vive nel ricco mondo occidentale. I loghi di Starbucks e KFC, ad esempio. Colori e immagini figli di strategie di marketing pensate per un altro mondo, che si confondono in un oceano caotico e magmatico di scritte in lingua araba. È così nei dedali di strade punteggiati da negozi a conduzione familiare, nei viali commerciali, nei saliscendi incorniciati da piccoli ristoranti che colorano il cemento grigio degli edifici.

L’economia della Palestina è una battaglia quotidiana in un circuito in gran parte chiuso. Chiuso da barriere militari, politiche e ideologiche. Nel quale in pochi voglio penetrare. Non le multinazionali della grande distribuzione organizzata, non i grandi marchi industriali, non le catene della ristorazione. E neppure le grandi banche internazionali.

L’apartheid che, di fatto, rappresenta la quotidianità per gran parte del popolo palestinese è ben presente infatti anche nel settore finanziario. Limitando non solo l’accesso ai relativi servizi, ma anche i potenziali investimenti provenienti dall’estero.

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L’impatto dell’occupazione israeliana sull’economia palestinese.