L’elegia del Muro. Organizzazioni per la difesa dei diritti umani, tribunale internazionale, palestinesi…nessuno vuole intendere il grande messaggio di salvezza portato dal muro Muro della Vergogna.
dal Corriere della Sera del 29 maggio.
Di Magdi Allam.
Dall’alto, colpisce la costruzione a forma di testuggine delle città israeliane. Le case in prima linea dispiegate a semicerchio come scudi levati a protezione della retrovia. Concepite come delle roccaforti che devono essere sempre pronte a difendersi da un nemico onnipresente che le assedia da ogni lato. Un insieme urbanistico compatto e rinchiuso su se stesso. In stridente contrasto con il panorama che offrono le città italiane, distribuite a goccia sull’insieme del territorio, con una distribuzione abitativa in cui prevale la separazione e la distinzione del singolo, anziché l’unione e l’omogeneità della collettività.
La paura dell’aggressione terroristica che permea la vita degli israeliani in ogni sua manifestazione e in ogni suo minimo dettaglio ha impresso il suo indelebile marchio nella progettazione urbanistica. Era inevitabile che questo muro della paura, a fronte della crescita del livello della minaccia, dalla sua dimensione psicologica interiore si trasformasse in una realtà oggettiva esteriore. Che gli israeliani non chiamano «wall», muro, come è in voga tra i suoi critici, e neppure «barrier», barriera, come usano le Nazioni Unite, ma semplicemente «fence», recinto. Per la precisione «recinto di sicurezza anti-terrorismo». Perché correttamente al 94% consta di tralicci e reti metalliche facilmente rimovibili. Soltanto il 6% del tracciato è costituito da un muro in cemento, esclusivamente laddove si è ritenuto indispensabile separare fisicamente dei centri israeliani e palestinesi contigui.
Da bordo di un piccolo elicottero dell«Israel Project» la vista dell’insieme del «recinto di sicurezza», che una volta completato si svilupperà per 670 km, non offre quell’immagine criminalizzante accreditata da gran parte dei mass media internazionali. Soprattutto quando, cifre alla mano, si prende atto che la sua costruzione ha salvato innumerevoli vite umane, sia israeliani sia palestinesi. E’ sufficiente considerare che nel 2005 le vittime israeliane per attentati terroristici sono calate a 45, rispetto alle 117 del 2004, il 60% in meno. Nello stesso periodo, secondo i dati della Mezzaluna rossa palestinese, i palestinesi uccisi in azioni militari israeliane sono calati a 255, rispetto agli 881 del 2004, il 62% in meno.
La separazione fisica tra israeliani e palestinesi si è resa inevitabile nel momento in cui è apparso del tutto evidente il fallimento di un progetto di pacifica convivenza basato sul mantenimento dello status quo. Che si presentava come una inestricabile contiguità e compenetrazione territoriale, urbanistica, demografica ed economica.
Ricordo come la prima volta che mi recai in Israele nel gennaio del 1988, all’indomani dell’esplosione della prima Intifada delle pietre, era praticamente impossibile individuare il confine tra Gerusalemme e, rispettivamente, Betlemme e Ramallah. Perché vi era una continuità abitativa e un’assenza di confini naturali, eccezion fatta per i posti di blocco israeliani che cominciavano a spuntare per controllare il territorio. Una realtà che aveva fatto immaginare a Abba Eban, l’ex ministro degli Esteri israeliano, e anche al suo successore Shimon Peres, che si potesse dar vita a una sorta di Benelux mediorientale, creando un’entità politico-economica integrata tra Israele, la Giordania e il futuro Stato palestinese. Un sogno che si è tragicamente infranto dopo il tradimento di Arafat nel 2000, che ha privato i palestinesi di un’opportunità storica per avere il loro Stato.
Chi di voi sa che il 75% della popolazione israeliana è rinchiusa nella stretta fascia costiera che va da Hadera a Ashdod, ampia non oltre 10 chilometri? Un ghetto nel ghetto che lo stesso Abba Eban definì la «Auschwitz di Israele», dato l’assedio e la minaccia di morte costante che grava sullo Stato ebraico. Come non comprendere la priorità della sicurezza di Israele?
Piaccia o meno, ma il tanto diffamato «muro» non solo ha salvato tante vite umane, ma rappresenta la base certa di un’identità nazionale, per gli israeliani e per i palestinesi, che finora non aveva un riferimento territoriale. Non perché il «muro» costituisce il tracciato dei confini definitivi, ma perché per la prima volta permette di individuare concretamente dei confini. La separazione fisica è un passaggio inevitabile, un trauma che non si è potuto evitare, per consentire ai due popoli di accreditare una identità nazionale chiaramente autonoma e definitiva, ponendo delle nuove basi per accettarsi come Stati indipendenti, ma non più nemici.
Magdi Allam
29 maggio 2006