Incontro con Pappé a Cagliari, “Palestina e Israele: che fare?”

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A cura di Omar S. Sabato mattina, presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Cagliari, si è svolto un dibattito con lo storico israeliano Ilan Pappé. L’evento è stato organizzato in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, scritto con il filosofo e linguista Noam Chomsky, dal titolo “Palestina e Israele: che fare?”

Un linguista (Chomsky) e uno storico materialista (Pappé) sono d’accordo nella riflessione relativa alla necessità di trovare una nuova lingua che sostituisca quella utilizzata sino ad oggi per descrivere la questione palestinese. Il successo del sionismo e la possibilità di perpetrare la sua violenza, è anche determinato dall’uso che è stato fatto del linguaggio.
Per consolidare la propria legittimità il sionismo si è avvalso degli intellettuali, che hanno contribuito a descrivere gli eventi come dominati da due nazionalismi contrapposti, dunque oggi le potenze occidentali legano la questione palestinese a una questione nazionalistica, ma in questo modo il discorso sulla pace assume un diverso significato.
La spartizione per esempio, è una parte essenziale della questione. Come mai non ha mai funzionato? Perché non può essere oggetto di spartizione la terra di Palestina.
Per fare un riferimento biblico: re Salomone deve decidere come dividere i figli, la vera madre dice che se dovesse dividere il bambino in due, lascerebbe per amore il figlio. I sionisti invece, non hanno nessun problema a dividere il bambino in due, perché non è loro figlio. Dunque, la spartizione intesa come soluzione non consente di arrivare a risolvere nulla.
Come i nativi indiani sono stati cancellati dalle forze coloniali, lo stesso sta accadendo in Palestina (la nuova Sion). Gli occupanti giustificano la loro azione affermando che la terra era originariamente disabitata, mentre è storicamente dimostrato che non era assolutamente così. Il movimento sionista è un movimento coloniale esattamente come gli altri.
Questo è uno dei motivi per cui gli occupati (i palestinesi) sono consapevoli delle loro istanze e rifiutarono il piano di spartizione della loro terra del 1947.
Ciò che è necessario è in primo luogo una decolonizzazione della mente, del sistema politico e della cultura, oltre che della terra di Palestina. Il progetto sionista è colonialista, perché vuole eliminare i nativi.
Per esempio, l’assedio alla Striscia di Gaza è un genocidio.
Dunque, alla luce di quanto detto è necessaria un’analisi della questione non in termini di due forze nazionaliste, ma in quelli tra occupanti e occupati.

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Già dagli anni ’90 la presenza degli insediamenti era tale da vanificare qualsiasi possibilità di parlare di due stati, l’errore storico che è stato commesso consiste proprio nel aver permesso un dialogo per una pace inesistente e non voluta, perché in questo modo si è legittimata la colonizzazione della Palestina e così facendo i leader occidentali hanno accettato ciò che l’Autorità palestinese ha permesso di fare a Israele.
Si deve parlare di DECOLONIZZAZIONE e non di pace. L’idea di un processo di pace è funzionale alla narrazione israeliana, che presuppone che prima del 1967, tutto andasse bene, lasciando nell’oblio tutti i fatti storici precedenti.
La Palestina non deve essere ridotta alla West Bank e alla Striscia di Gaza, ma è necessario considerare anche tutti i palestinesi dentro Israele e sopratutto quelli della diaspora.
Insegnare la storia della Palestina, significa raccontare un episodio della storia coloniale. Il giornalismo dovrebbe parlare dei nativi di quel paese e dei loro diritti, dovrebbe utilizzare l’espressione di pulizia etnica e di genocidio per Gaza. Gli Stati Uniti a questo proposito affermano che nel 2025 sarà impossibile vivere a Gaza.
Dunque, è necessario chiedere l’intervento della Comunità Internazionale, perché prema su Tel Aviv affinché rispetti i diritti umani dei palestinesi.
In questo contesto è importante tornare al discorso che si faceva all’inizio sul potere del linguaggio: comprendere questo aspetto ci consente di capire come sia stato abusato sistematicamente per la narrazione della storia della Palestina in questi anni. Esso non è un potere politico, né militare o economico, ma evidenzia gli usi di questi poteri. Infatti se tutti fossimo d’accordo che i palestinesi sono oppressi sarebbe più facile in Occidente comprendere come sono andati i fatti, e i palestinesi non sarebbero ridotti a terroristi.
Per concludere è necessario l’impegno di tutti attraverso l’impiego delle nostre conoscenze, perché come recita un detto islamico: il sangue dell’accademico è più prezioso del sangue del martire.