Infanzia palestinese: "Gioventù bruciata". Un'inchiesta di A.Antonelli.

 

Non se ne parla. Ancor meno se ne scrive. Ma nell’indifferenza generale, sono quasi 3000 i bambini palestinesi che dall’inizio dell’Intifada ad oggi sono stati arrestati, torturati e rinchiusi nelle prigioni israeliane in violazione delle leggi internazionali.

   Questo articolo, che ha vinto la Menzione Speciale della Giuria del Premio Paola Biocca per il Reportage, è stato scritto nel 2003. Sfortunatamente, è ancora di drammatica attualità. Unico dato da aggiornare: i bambini detenuti sono ora 394 anziché 320.

   E’ lungo. A tratti burocratico, altri duro. Ma vi prego di leggerlo perche’ la situazione di questi ragazzini non e’ migliorata. Al contrario – il 2006 è iniziato con un’impennata negli arresti: oltre 200 nei soli mesi di gennaio e febbraio. 

 

Alessandra Antonelli

 GIOVENTU’ BRUCIATA

Dall’arresto alla condanna: bambini palestinesi nelle carceri israeliane

di Alessandra Antonelli (giornalista residente in Giordania e autrice di "Sposata a un palestinese", ed. Paoline)

  ‘Vai da Omar?’ La domanda arriva senza preamboli da una di quella mezza dozzina di teste infilate nel finestrino della macchina. Seduta al volante, gli occhi indagatori di questi ragazzini scrutano dritti dentro ai miei. ‘Sì, vado da Omar’ rispondo, stupita di come la mia visita sia un evento ancor prima del mio arrivo.  ‘E’ un vostro compagno di scuola?’ Ma non c’è tempo per la risposta: una mano ben più grande di quelle aggrappate alla portiera si fa largo per porgermi un bicchiere d’acqua.

E’ novembre, mese islamico di Ramadan. Ma quando chiedo una bottiglia d’acqua alla prima bottega che incontro entrando a Qerb-al-Misbah,  paesetto di 5 mila anime ad ovest di Ramallah, gli sguardi interrogativi che si appendono alla mia richiesta non riguardano tanto la pretesa di bere acqua nel bel mezzo di un giorno di digiuno, quanto il volerla in bottiglia – sfizio e lusso da stranieri in un paese, la Cisgiordania, dove l’acqua è più cara della Coca Cola.

‘Acqua? Acqua da bere?’ Vuole essere sicuro di aver capito bene l’uomo della bottega prima di precipitarsi in casa per ritornare subito dopo, con un bicchiere d’acqua corrente. Si fa largo tra musi incuriositi e mi indica la  strada per arrivare a casa di Omar. 

Avrei evitato di bere se il viaggio non fosse stato così estenuante. Non più di 15 chilometri, aveva assicurato l’avvocato. Ma  dopo un’ora di guida sotto un sole insolitamente infuocato, la macchina arrancava ancora lungo una strada di sassi e buche che correva abbracciata ai fianchi di colline pietrose. Gli ammortizzatori e l’indicatore della temperatura oltre i 90 gradi supplicavano una sosta da almeno dieci minuti mentre la mia gola, asciugata dal caldo e impastata dalla polvere, supplicava disperatamente acqua.

La casa di Omar è una delle ultime del paese. Si affaccia sull’autostrada  Gerusalemme-Tel Aviv.  Ed è da lì che in effetti sarei dovuta arrivare – 9 minuti da Ramallah, mi informano –  se non fosse stato per le barriere di cemento e terriccio che Israele ha eretto agli accessi da, e per, il villaggio.

  

Siamo tutti seduti, la famiglia di Omar ed io, e tutti sembrano pronti ad iniziare. Aspettano le domande ed io aspetto Omar. ‘E’ lui,’ indica la mamma, sorpresa che io non avessi capito alla prima presentazione. A guardare il ragazzino seduto alla mia sinistra la confusione è lecita: la scheda diceva 15 anni ma gli occhi un po’ schivi che mi guardano sembrano appartenere ad un esile maschietto di non più di undici anni.

 

Eppure è proprio lui che è appena uscito di prigione. Ha scontato quattro mesi  per aver tirato sassi, benché,  a livello internazionale, la reclusione di un bambino sia consentita solo in casi di reati gravi.  

 

Chi sia un bambino viene espressamente definito dal  primo articolo della Convenzione delle Nazioni Unite per i Diritti del Bambino (CRC) e cioè  "chi non ha ancora compiuto i 18 anni di età".

Resta da stabilire se il lancio di pietre possa essere annoverato nella rubrica crimini gravi.

 

Lo Stato di Israele  ha  firmato la CRC il 2 Novembre del 1991 e, rispettosamente, applica i suoi dettami sui minori israeliani. Per definire e trattare con i bambini palestinesi sembra invece far riferimento ad altri parametri.

 

Primo fra tutti, l’ordine militare #132 che abbassa la soglia alla maggiore età a 16 anni e che consent
e l’arresto di bambini tra i 12 e i 14 anni. L’ordine, originariamente nato nel 1967, subito dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, era stato ampiamente sfruttato durante la prima Intifada (1987- 1993) e poi soppresso con la firma degli Accordi di Oslo. Durante il mandato dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak l’o.m. #132 è tornato in vigore.

 

A questa precisa regolamentazione militare si affiancano parametri più arbitrari, come emerge dallo stralcio di un’intervista della giornalista israeliana Amira Hass ad un soldato dell’IDF, l’esercito di Israele.

Soldato: ‘Ci è proibito sparare ai bambini.’

AH: ‘In che  modo?’

Soldato: ‘Non si può sparare a bambini al di sotto dei 12 anni.’

AH ‘Quindi è permesso sparare ad un bambino dai 12 anni in su.’

Soldato:  ‘Dai 12 anni in su potete sparare, questo è quello che ci dicono.’

La lettura integrale dell’intervista, apparsa su Ha’aretz, tra i più rispettati quotidiani israeliani il 20 ottobre 2000, rivela anche come sia lasciato a totale discrezione dei militari, giudicare l’età del bersaglio prima di premere il grilletto e di come l’intervistato non abbia idea dell’esistenza di uno standard internazionale per la definizione di "bambino".

 

Né sembra averla un altro noto giornalista, Zeev Schiff, che dalle pagine dello stesso quotidiano, pochi giorni dopo, afferma che ‘bambino è un chiunque sotto i 13 anni’.

 

Riamane il fatto che, stando alla definizione internazionalmente riconosciuta, dal Settembre 2000 ad oggi ben più di 1000 bambini palestinesi sono passati per l’iter arresto, interrogatorio, processo e detenzione. Ad oggi, sono 320* i bambini palestinesi rinchiusi in prigioni israeliane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

    

   

   

 

  

 

 

 

 

 

Dall’inizio dell’Intifada, il fenomeno degli arresti e delle detenzioni ha assunto dimensioni tali che l’Autorità Nazionale Palestinese ha istituito uno specifico ministero per i detenuti e ha creato un apposito dipartimento per i minori.

 

"L’impennata nel numero degli arresti ha imposto il fenomeno come problema" conferma il direttore generale del ministero, Radi Jarai. "Nemmeno durante la prima Intifada si era verificata una campagna di arresti di minori così massiccia."

Per la gestione del problema è stato creato un database attraverso il quale vengono identificate e studiate storie personali, casi legali, problemi fisici e psicologici. Informazioni sulle quali vengono poi disegnati, in base ad ogni esperienza, adeguati programmi di aiuto psicologico, di reintegrazione scolastica e sociale. Programmi coordinati, tra gli altri, anche con l’Unicef.

Il primo trauma che colpisce i bambini palestinesi avviene al primo contatto con le forze militari israeliane: l’arresto.

e maggiori associazioni che trattano realtà legate alla detenzioni  (Defence for Children International, LAW, Mandela Institute, B’tslem) puntano il dito sulle modalità degli arresti in piena violazione  dell’art 37 della CRC  che dichiara "ogni bambino privato della libertà deve essere trattato con umanità e rispetto (…) e in modo tale che tenga in considerazione le necessità della sua età."

Ma la quasi totalità degli arresti avviene o in rastrellamenti di massa, dove quindi sembra piuttosto essere una categoria di persone ad essere presa in considerazione anziche’ che un singolo individuo, oppure in piena notte.

Gli arresti notturni implicano un brusco risveglio, la confusione del sonno e sono spesso accompagnati da minacce o maltrattamenti dei famigliari, compresi i genitori. Secondo gli psicologi vengono così subito a cadere i simboli della protezione e del rifugio, la famiglia, il padre, la casa, lasciando i bambini in uno stato di angosciosa paura.

Cerchiamo  Omar Ali, mi dicono i soldati. Ed io dico, non c’è nessun Omar Ali qui. Ci chiedono i documenti e quando vedono quello di Omar, Omar Abdelalim Darraj. ci dicono, è lui che vogliamo.

 

"Non riuscivo a credere che cercassero il mio Omar, ma sono andata a chiamarlo perché nonostante il trambusto non si er
a svegliato.  Era caldo e Omar dormiva in pantaloncini. Non appena i soldati gli hanno ordinato di andare a vestirsi e ha capito che volevano portarlo via si è spaventato, ha cominciato a piangere, a gridare, fuggiva gattoni tra le nostre gambe tentando di sfuggire alla presa dei militari. Ma poi l’hanno afferrato e hanno detto a me e mio marito di stare tranquilli che fuori c’era un ufficiale che voleva fargli qualche domanda. E invece l’hanno caricato su una camionetta e l’hanno portato via."

Per quattordici giorni la famiglia di Omar non ha avuto nessuna notizia sulla sorte del figlio. Secondo la legge militare, sotto la giurisdizione della quale si trovano attualmente tutti i residenti della Cisgiordania e di Gaza esclusi i coloni israeliani, le autorità militari hanno l’obbligo di notificare alla famiglia del prigioniero la sua destinazione nelle 24 ore successive all’arresto. Obbligo abitualmente ignorato dalle forze armate e di polizia.

In soccorso alla famiglie e agli avvocati dei ragazzi arrestati viene spesso HaMoked, Centro per la Difesa dell’Individuo, una associazione israeliana che monitora e denuncia violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi. 

"Dare notizia delle destinazioni e degli spostamenti  dei prigionieri è un preciso compito delle autorità militari dettato da altrettante precise norme – solo che vengono ignorate nel cento per cento dei casi" dice Delia Karestein, direttrice esecutiva di HaMoked. "In realtà all’interno della Polizia esiste uno specifico ufficio che dovrebbe assolvere questo compito ma, evidentemente, non lo fa." 

 

Quando le informazioni vengono negate per giorni, HaMoked procede per vie legali portando i casi alla Corte Suprema.

"Nella maggioranza dei casi perdiamo," rivela sconsolata Karestein che però, nonostante gli insuccessi, continua a lavorare con il suo staff a pieno ritmo.

 

Una volta rintracciato il ragazzo, inizia il duro lavoro degli avvocati per poterlo assistere. Ostacolo primo da superare: riuscire ad incontrarlo.

 

"Prima dell’inizio dell’Intifada un minore doveva sostenere il processo entro quattro giorni dall’arresto o in caso di proroga, al massimo entro otto giorni," dice Khaled Qusmari, coordinatore legale della sezione palestinese di Defence for Children International.

 

 

 

 

 

  

 

   

 

"Non erano ancora le quattro del mattino quando ho sentito le jeep fermarsi sotto casa" racconta Rosa, la mamma di Omar. "Non pensavo davvero che potessero cercare qualcuno qui. E invece hanno cominciato a battere sulla porta. 

 

    

 

  

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"Ma dallo scorso Marzo è stato introdotto un nuovo ordine militare, il numero 1500, che prevede un’estensione fino a 18 giorni durante i quali al prigioniero è negato qualsiasi contatto con un avvocato,"  spiega  Qusmari.

 

 

 

Anche dopo aver avviato il primo contatto il rapporto  avvocato-cliente  è spesso problematico e  osteggiato dalle autorità militari, in contravvenzione a leggi e trattati internazionali che regolano tale rapporto.

 

"Dopo aver investito – o sprecato – giorni per scoprire in quale centro di detenzione è stato portato il ragazzo, bisogna confrontarsi con eventuali ordini dell’intelligence che ci vietano di vedere il minore per un tempo indeterminato," racconta Mahmoud Jabarin, avvocato di LAW, organizzazione palestinese per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente." A volte ci viene comunicato che un certo ragazzo è nella prigione X e quando arriviamo ci riferiscono che non è più lì, che è stato trasferito. Il che può anche essere vero, ma è anche successo che dopo ore di telefonate  si è scoperto che nonostante i dinieghi il ragazzo era proprio lì."

 

Oltrepassata la soglia d’ingresso le cose non migliorano.

 

"E’ capitato a me, così come ad altri colleghi, di dover attendere per ore prima di poter vedere un ragazzo e talvolta di dovermene andare ancor prima di averlo visto perché non sempre ci si può permettere il lusso di perdere giornate intere," continua Jabarin.

 

Dal 5 luglio 2001 per mesi agli avvocati palestinesi è stato impedito di incontrare i loro clienti. Otto mesi dopo, il 19 febbraio 2002 una coalizione di organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani (l’Associazione per i Diritti Civili, la Commissione Pubblica contro la Tortura e Hamoked) si è  appellata all’Alta Corte di giustizia.

 

La sentenza ha favorito gli avvocati palestinesi a patto che venissero rispettate le procedure imposte dalle autorità penitenziarie. Il che ha avviato un ulteriore iter burocratico non sempre ligio al diritto internazionale.

 

Per incontrare il bambino l’avvocato deve dimostrare che è il suo rappresentate legale e per farlo ha bisogno di un mo
dulo firmato dal bambino stesso. L’incontro tra avvocato e bambino perché il modulo possa essere firmato viene negato. Quindi il modulo viene mandato via fax alla prigione e consegnato al bambino perché lo firmi. In almeno un caso, documenta DCI, insieme al foglio il bambino è stato costretto a firmare anche una confessione.

O ancora, agli avvocati palestinesi non è consentito rappresentare ragazzi che abbiano la residenza a Gerusalemme, devono sottoporre alla direzione carceraria la loro carta d’identità, la tessera che provi la loro appartenenza all’albo degli avvocati e il permesso rilasciato dalle autorità militari per entrare in Israele almeno 48 ore prima della visita, negando, di fatto, la possibilità di visite in tempi reali in casi di emergenza.

 

Se i contatti con l’avvocato sono spesso burocraticamente rocamboleschi, i contatti con le famiglie sono inesistenti.

 

"Ad ogni bambino deve essere garantito il diritto di avere contatti con la propria famiglia attraverso corrispondenze e visite" dice ancora la Convenzione per i Diritti del Bambino, ma durante tutto il periodo che va dall’arresto al processo, che a volte può essere anche di mesi, ai bambini  non è permesso vedere né i genitori, né alcun altro membro della famiglia.

 

"Ho rivisto Omar dopo un mese e mezzo, il giorno del processo," racconta Rosa Darraj. "Ma non me lo hanno fatto abbracciare, non mi hanno nemmeno fatto avvicinare. E poi ho guardato la sua faccia ed era tutta piena di segni… Guarda, guarda questi segni" mi dice, voltando bruscamente la guancia sinistra di Omar perché possa vedere le cicatrici." Questi non ce li aveva  quando è andato via…"

 

Tra l’arresto e il processo i ragazzi passano per una tappa obbligatoria che lascia segni fisici e psicologici: l’interrogatorio. 

 

Omar non ha proprio voglia di parlarne. Guarda fisso il pavimento alzando occasionalmente lo sguardo al di là dei vetri per riabbassarlo subito dopo. Ha incubi ricorrenti di quei mesi e questo sembra bastargli. Non ha voglia, e forse forza, di mettere in parole quelle immagini che già lo tormentano nel buio e che lo fanno gridare nel sonno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma accanto a lui c’è ora seduto uno dei compagni con cui ha condiviso l’arresto e che sembra fare meno fatica a raccontare.

 

"Erano le due di notte quando sono venuti a prendermi," racconta Mahmoud Misleh, capelli biondi, occhi verdi e quell’aria un po’ spavalda di tutti i quindicenni che dimostrano più della loro età. Ha l’aria di chi sta per raccontare qualcosa di speciale, quell’esperienza eccezionale che lo ha improvvisamente promosso ad eroe tra i suoi compagni di scuola.

 

"Avevo le mani legate davanti e gli occhi bendati. Ma non appena ho potuto ho scoperto un occhio e ho riconosciuto altri ragazzi del mio villaggio. Allora mi sono tranquillizzato un po’."

 

Il tono baldanzoso e la postura ben dritta contro la spalliera della sedia si abbassano man mano che i ricordi si accavallano sulle parole. 

 

Ad attenderlo a Bet Eil, una base militare israeliana al confine nord di Ramallah, c’era una cella di due metri per due, un odore insopportabile e tanta sporcizia. E l’interrogatorio: insulti, minacce, botte.

 

 

 

"Picchiato con cosa?" chiedo. "Perché credi che mani e piedi non bastino?" risponde.

Bastano. Ma relazioni e risconti di DCI, Law e del Mandela Institute parlano anche di altri metodi. I più usati insieme alle percosse sono la "posizione di abuso" in cui il bambino, legato mani e piedi ad una sedia è costretto a rimanere in piedi sulla punta della dita, e quelle che vengono definite "situazioni umilianti e degradanti" compresi sputi, il costringere a bestemmiare Dio, ad insultare i propri famigliari, a liberarsi fisiologicamente con i vestiti indosso.

Mahmoud non resiste più di qualche ora.  Firma una confessione in cui dichiara di aver tirato sassi per 300 volte. Mi incuriosisce sapere come ha fatto un calcolo tanto preciso.

"Lo hanno fatto loro per me. Io ho solo firmato un foglio in ebraico, ed io parlo e leggo solo l’arabo."

Per questa confessione Mahmoud ha già scontato cinque mesi di reclusione e ne dovrà scontare altri otto se nei prossimi cinque anni dovesse commettere un altro reato.

"Con pressioni fisiche e psicologiche che sconfinano in torture i ragazzi sottoscrivono confessi
oni assurde" denuncia ancora il coordinatore legale di DCI, Qusmari. "Come si fa a credere ad una confessione che dichiara lanci di sassi in modo così matematico: 75, 150, 300… In una confessione un ragazzo sosteneva di aver tirato sassi con suo fratello ma il fratello era già in carcere da mesi."  

Per provare l’inattendibilità di tali numeri e delle confessioni, Qusmari ha chiesto al pubblico ministero se lui fosse in grado di ricordare quante volte era entrato in quell’aula dibattimentale in un determinato numero di mesi. Il PM non è riuscito a ricordarlo.

"Come si può allora pretendere che siano veritiere e affidabili delle confessioni firmate da un ragazzino svegliato in piena notte, portato in un luogo sconosciuto, rinchiuso in una cella claustrofoba e maleodorante, impaurito, isolato, fisicamente  e psicologicamente abusato?" chiede Qusmari.

E’ stata  proprio la paura la molla che ha fatto decidere Mahmoud a firmare in fretta un foglio scritto in una lingua sconosciuta di cui ignorava il contenuto.

"Ad un certo punto ho realizzato che mio fratello era in un cella vicina alla mia. L’ho capito quando lo hanno chiamato per nome per interrogarlo. Si sentivano le grida, non sapevo cosa fare, come aiutarlo, come uscire da quella situazione e tutto quel che riuscivo a fare era piangere," racconta Mahmoud deposta l’armatura del guerriero e rimasto nudo con tutta la fragilità della sua età.

  

Che ci sia una Convenzione che difenda i suoi diritti come minore e che vieti l’uso di "torture o altri trattamenti o punizioni crudeli, disumane o degradanti" custodita in un grattacielo di vetro a New York, per Mahmoud è del tutto irrilevante. 

Così come per Sana Amer, una ragazzina di 14 anni il giorno del suo arresto. Avrei dovuto incontrarla ad Hebron, dove ora vive, ma l’esercito israeliano ha occupato la città proprio pochi giorni prima del nostro incontro. Nel suo fascicolo, accanto alla foto di un viso senza stravaganze incorniciato da un impeccabile caschetto nero, la deposizione giurata tradotta da Defence for Children International.

"Sono stata arrestata il 20 febbraio 2001 in al-Shuada Street, ad Hebron. Ero con mia sorella Abir che però era diversi metri più avanti. Ad un tratto ho visto Abir correre verso un colono ed un soldato precipitarsi su di lei. C’era un giornalista e mentre attiravo la sua attenzione su quel che stava succedendo un altro soldato è corso verso di me e mi ha trascinata nella camionetta. Mi ha dato uno schiaffo così forte che l’orecchio mi ha fatto male per una settimana.

"Ci hanno portato alla colonia di Kiryat Arba e lì continuavano ad accusarmi di avere  un coltello nella borsa di aver tentato di accoltellare il colono con mia sorella. Tra gli interrogatori c’era un uomo che parlava arabo che mi ha presa per il collo, mi ha picchiata sul gomito con qualcosa che era sulla scrivania. La sera ci hanno trasferite al Russian Compound a Gerusalemme dove un agente mi ha molestata. Io e Abir siamo rimaste lì per 19 giorni, poi ci hanno trasferito alla prigione di Ramle."

Nella prigione femminile Neve Tertze a Ramle (dove attualmente sono detenute 6 minori) nell’Aprile del 2001 scoppia un’alterco verbale tra le prigioniere penali (israeliane) e quelle politiche (palestinesi). Le guardie carcerarie intervengono sulle detenute palestinesi. Per due giorni Sana viene legata al letto mani e piedi dalle 10 di sera alle sei del mattino. Il terzo giorno, per dodici giorni, viene messa in isolamento.

Il 24 Aprile, in patteggiamento, il PM offre tre anni. L’avvocato di Sana rifiuta. Il 5 Luglio, a Ramle, le detenute palestinesi proclamano lo sciopero della fame. Protestano contro maltrattamenti e diritti negati: mancata assistenza medica, impossibilità di continuare gli studi, divieto di eleggere un rappresentate per dialogare con l’amministrazione carceraria. Ci sono ancora scontri,  Sana viene picchiata con manganelli su braccia e gambe. Viene colpita nello stomaco e tossisce  sangue. Una settimana dopo, quando l’avvocato rivede Sana in tribunale per il processo, non ha ancora ricevuto alcuna assistenza medica.

In aula Sana ha i piedi e le mani legate. Suo padre tenta di avvicinarsi ma gli viene impedito. Nemmeno un pezzo di cioccolata offerto da un rappresentante svedese della Commissione Internazionale dei Giuristi  riesce a passare l’intransigenza dei militari. 

Sana, al racconto dell’avvocato, sembra confusa, non capisce bene cosa le venga chiesto.

 

   

 

   

 

  

 

   

   

 

   

 

   

   

 

   

 

    

    

 

     

 

 

 

 

 

 

"In tribunale la lingua  usata è l’ebraico, quindi ai ragazzi viene assegnato un traduttore, che non è un traduttore legale ma un militare, di norma druso, che con
osce sia l’arabo che l’ebraico," spiega Qusmari.

Gli avvocati difensori dei bambini palestinesi sono tutti concordi nel denunciare la totale inadeguatezza delle strutture giudiziarie militari per gestire i minori.

"In Israele esistono procedure legali, giudiziarie e sanzionatorie studiate per i bambini. Ma i palestinesi , in quanto tali, diventano semplicemente un categoria, indipendentemente dall’età," continua Qusmari. "Di conseguenza sono le corti militari, perché si tratta di processi politici, le uniche disegnate a trattate e a giudicare l’insieme ‘palestinesi’, senza fare alcuna distinzione tra ragazzini dodicenni che si bagnano i pantaloni al momento dell’arresto e uomini maturi passati per esperienze militari."

Gran parte del personale militare e giudiziario è costituito da coloni secondo l’esperienza dei legali di DCI e questo potrebbe spiegare la severità di alcune sentenze e il paradosso di altre.

Alla quattordicenne Sana l’essere al posto sbagliato al momento sbagliato è costato un anno di vita in reclusione, nonostante la giuria abbia convenuto che non abbia accoltellato il colono e che fosse diversi metri lontana da sua sorella. Ne sconterà altri quattro se nei prossimi cinque anni commetterà qualsiasi reato.

Nei rapporti di Law, di DCI, del Mandela Institute, di B’tslem (associazione israeliana per la difesa dei diritti umani) viene citato un altro caso.  Una storia che impegnò diversi titoli di giornali e avviò accese discussioni anche all’interno della società israeliana.

E’ il caso di Nahum Korman, un colono  ebraico di 37 anni condannato, nel novembre 2000, a sei mesi di servizio in comunità per aver ucciso a bastonate Hilmi Shawasheh, un bambino palestinese di 11 anni.

A conferma  di un sistema giudiziario a volte arbitrario, la relazione dell’inviato speciale della Commissione ONU per i Diritti Umani, John Dugard.

"Israele è orgoglioso del suo sistema giudiziario. Come nazione, è impegnata nel far rispettare la legge e nel garantire giustizia nei procedimenti penali. Sorgono però dubbi sul fatto che questo rispetto e queste garanzie vengano estese ai territori palestinesi e in particolar modo ai bambini," scrive Dugard.

Il rapporto di Dugard, presentato nel Marzo 2002 alla 58ma sessione della Commissione per i Diritti Umani testimonia tra l’altro "un’allarmante tendenza a trattamenti inumani dei bambini nel sistema giudiziario militare israeliano imposto nei territori palestinesi."

Dugard non manca anche di citare come nel 1999 la Corte Suprema abbia abolito la tortura come metodo di interrogatorio, lasciando però aperta la possibilità di farne uso in caso di necessità – in casi, definiti " ticking bomb," cioè "bombe con la miccia accesa," in cui è di vitale importanza ottenere delle informazioni per sventare un pericolo imminente.

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