Interventi sul settimanale “Nonviolenza. Femminile plurale”.

NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 73 del 20 luglio 2006

In questo numero:
1. Codepink: Un appello per il "cessate il fuoco"
2. Luciana Castellina: La solitudine di Israele
3. Barbara Spinelli: Il fallimento delle "guerre redentrici"
4. Giuliana Sgrena: Il pacifismo indispensabile
5. Elena Loewenthal: Il coniuge, l’aguzzino
6. Heinrich Boell: Un’autrice
7. Franco Fortini: Un’autrice
8. Darina Silone: Un’autrice

1. APPELLI. CODEPINK: UN APPELLO PER IL "CESSATE IL FUOCO"
[Da Floriana Lipparini (per contatti: effe.elle@fastwebnet.it) riceviamo e
volentieri diffondiamo il seguente appello di Codepink, movimento femminista
e pacifista americano. Scrive Floriana Lipparini nella lettera di
accompagnamento del testo dell’appello: "ricevo da CodePink
(www.codepinkalert.org) il seguente appello, con preghiera di inviare mail o
fax a John Bolton e Kofi Annan per chiedere il "cessate il fuoco" in Medio
Oriente (per contatti: John Bolton at the U.S. Mission to the UN: e-mail:
usa@un.int;  UN Secretary General Kofi Annan: e-mail: sg@un.org). Mi sembra
importante farlo anche per sostenere le pacifiste ed i pacifisti negli Usa
che hanno una vita ancor piu’ difficile della nostra in Europa". Floriana
Lipparini, giornalista (tra l’altro ha lavorato per il mensile "Guerre e
Pace", che per qualche tempo ha anche diretto, occupandosi soprattutto della
guerra nella ex Jugoslavia), impegnata nel movimento delle donne (Collettivo
della Libreria Utopia, Donne per la pace, Genere e politica, Associazione
Rosa Luxemburg), ha coordinato negli anni del conflitto jugoslavo il
Laboratorio pacifista delle donne di Rijeka, un’esperienza di condivisione e
relazione nel segno del femminile, del pacifismo, dell’interculturalita’,
dell’opposizione nonviolenta attiva alla guerra, da cui e’ lentamente nato
un libro, Per altre vie. Donne fra guerre e nazionalismi, edito in Croazia
da Shura publications, in edizione bilingue, italiana e croata]

Le popolazioni del Medio Oriente stanno soffrendo ancora una volta perche’ i
militaristi di tutte le parti hanno scatenato una nuova ondata di
devastazione e violenza, questa volta fra Israele e Libano. Ogni bomba
lanciata, ogni bambino ucciso rappresenta la sconfitta collettiva della
nostra speranza di vivere tutti insieme come un’unica famiglia umana, e la
vittoria del militarismo irrazionale sui valori di empatia e compassione.
Siamo sconvolte non soltanto dalla violenza in se’ ma anche dall’assenza di
una leadership internazionale che tenti di fermarla. Questo e’ vero
specialmente per chi vive negli Stati Uniti: mentre il mondo sta chiedendo a
gran voce un intervento globale per fermare la follia, il nostro governo
impedisce all’intera comunita’ internazionale di chiedere il cessate il
fuoco, confondendo il diritto di Israele a difendersi con la scelta di
uccidere civili innocenti e distruggere i ponti, gli aeroporti e le centrali
energetiche del Libano.
Nonostante i morti libanesi siano gia’ oltre 200 e gli israeliani 24, gli
sforzi di attivare la diplomazia sono stati accolti con estremo scetticismo.
Il 13 luglio, come risposta alla massiccia azione militare di Israele a Gaza
per il rapimento di due soldati israeliani, il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite ha proposto una risoluzione che chiede a entrambe le parti di
fermarsi, votata da John Bolton, ambasciatore Usa all’Onu. Domenica, il
tentativo dell’Onu di chiedere il cessate il fuoco fra Israele e Hezbollah
e’ stato ancora una volta bloccato dagli Usa.
Nel frattempo, le notizie sull’Iraq sono scomparse dai nostri giornali,
sebbene almeno 100 civili siano morti negli ultimi giorni. Una volta di
piu’, vediamo che il governo Usa impedisce gli sforzi del governo iracheno e
degli oppositori di muoversi verso un piano di riconciliazione, cosa che
porterebbe al rientro a casa delle truppe Usa.

2. RIFLESSIONE. LUCIANA CASTELLINA: LA SOLITUDINE DI ISRAELE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 luglio 2006. Luciana Castellina,
militante politica, promotrice dell’esperienza del "Manifesto", piu’ volte
parlamentare italiana ed europea, e’ tra le figure piu’ significative
dell’impegno pacifista in Europa. La gran parte degli scritti di Luciana
Castellina, testi di intervento politico e di giornalismo militante, e’
dispersa in giornali e riviste, atti di convegni, dibattiti parlamentari; in
volume segnaliamo particolarmente: Che c’e’ in Amerika?, Bertani, Verona; e
il recente (a cura di), Il cammino dei movimenti, Intra Moenia, Napoli]

Sono preoccupata – molto – per tutti quegli ebrei di origine assai diversa
che hanno deciso di essere israeliani. Condivido l’allarme di questi giorni
sulla sorte del paese che hanno creato.
Come potra’ infatti mai sentirsi sicuro uno stato che ha fatto crescere
attorno a se’ tanto odio?
Come potra’ mai legittimare davvero la sua esistenza, non nelle istanze
istituzionali dove e’ piu’ che riconosciuto ma nella coscienza dei milioni
di arabi che gli vivono accanto e che per ragioni analoghe a quelle della
diaspora ebraica si sentono anche loro fra loro solidali, se non assumendo
il problema del popolo che la costituzione del loro stato ha lasciato senza
patria ne’ casa?
Come potra’ il governo di Tel Aviv invocare l’applicazione – sacrosanta –
della risoluzione 1559 dell’Onu che ingiunge a Hezbollah di disarmare,
quando ha, esso stesso, da mezzo secolo, ignorato ogni altra risoluzione
delle Nazioni Unite, a cominciare dalla fondamentale 242 che gli ingiungeva
di ritirarsi entro i confini del ’48?
Come potra’ rendere convincente la propria voce che si accompagna a quella
del suo altrettanto incosciente alleato americano nel rivendicare
l’intervento armato contro l’Iran perche’ pretende di possedere un
potenziale nucleare, quando Israele stessa lo possiede in violazione di ogni
norma internazionale?
Come potranno raccogliere adesione nella denuncia degli orrendi regimi
dell’Iran, di Saddam Hussein, dei Talebani, quando intrattengono ottime
relazioni con altrettanto orrendi regimi reazionari (a cominciare da quelli
del Golfo), e di fronte al disastro cui ha condotto l’intervento
"democratizzatore" degli americani?
Come potra’ chiedere solidarieta’ contro la minaccia di Ahmadinejad, di
Hamas, di Hezbollah, che rifiutano di riconoscere ufficialmente lo stato
d’Israele, quando ogni giorno non solo insidia ma rende risibile ogni
prospettiva di creare uno stato palestinese, che infatti ancora non c’e’,
ne’ mai ci potra’ essere fino a quando a quel mozzicone di terra che
dovrebbe costituirne l’embrione e’ negato ogni attributo di sovranita’, del
controllo delle proprie frontiere, economia e risorse, esposto al kidnapping
e all’assassinio dei propri rappresentanti democraticamente eletti, ridotto
a peggio di un bantustan nell’Africa dell’apartheid?
Come potra’ ottenere una reale accettazione della propria esistenza e far
dimenticare le sofferenze e privazioni inaudite che la creazione di Israele
ha imposto a chi ci abitava ed ebreo non era, se non col coraggio di
ragionare sulla rispettiva storia e cercare con umilta’ un compromesso, non
negando con arroganza i diritti degli altri, ma riconoscendoli e chiedendo
pero’ che anche gli altri riconoscano i propri?
Come mai sara’ possibile cancellare dalla memoria dei propri vicini le
stragi quotidiane di innocenti, l’aver ridotto la striscia di Gaza a un
campo di concentramento esposto alle incursioni, senza acqua, cibo e lavoro?
Come potra’ sentirsi piu’ forte ora che si e’ giocato ogni simpatia anche in
Libano?
*
Sgomenta in queste ore, ancor piu’ che la sostanziale indifferenza verso le
vittime, la cecita’ e l’incoscienza di chi si pretende amico di Israele e
che, pur vivendo altrove, dovrebbe dunque avere il vantaggio della
lungimiranza che da’ la distanza. E invece scelgono di aggiungere le loro
grida alle grida della piu’ irragionevole, furiosa e primitiva reazione,
anziche’ richiamare quel governo alla ragione, farlo riflettere sull’errore
tremendo di aver volutamente bruciato l’interlocutore migliore che avrebbe
potuto avere, la laica Olp, e di detenere tuttora i suoi uomini piu’ lucidi
in galera, cosi’ aiutando il popolo israeliano a capire che la vera
sicurezza del paese puo’ esser conquistata solo per via politica, creando
legami sociali culturali economici con i propri vicini, dando sicurezza e
non insicurezza ai palestinesi.
E’ vero: Israele e’ sola. Avere dalla sua il paese piu’ potente del mondo, e
con esso i suoi vassalli – media governi imprese – non riduce il suo
isolamento. A chi sta a cuore salvare questo stato deve smetterla con questa
mortifera, pericolosa, cieca solidarieta’.

3. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: IL FALLIMENTO DELLE "GUERRE REDENTRICI"
[Dal quotidiano "La stampa" del 9 luglio 2006 riprendiamo il seguente
articolo (pubblicato prima degli ultimi tragici sviluppi della crisi
mediorientale). Ovviamente alcune delle analisi e dei punti di vista qui
formulati possono essere ben discutibili, ma ci sembra decisivo l’assunto di
fondo, che dal nostro punto di vista vorremmo riassumere cosi’. rispondere
al terrore con piu’ terrore provoca solo catastrofi (Gandhi – se la memoria
non ci inganna – lo disse con una metafora indimenticabile: occhio per
occhio rende tutti ciechi); occorre contrastare la violenza facendo leva
sulla razionalita’; la nonviolenza e’ la via, la nonviolenza e’ la piu’
forte forma di resistenza al male; la nonviolenza e’ il principio
giuriscostituente richiesto dalla politica internazionale del XXI secolo (p.
s.). Barbara Spinelli e’ una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue
opere segnaliamo particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano
2001, 2004; una selezione di suoi articoli e’ in una sezione personale del
sito del quotidiano (www.lastampa.it)]

Le guerre contro il terrorismo, da quando si sono amplificate e diffuse
all’inizio di questo secolo, nascono quasi tutte da una grande delusione, e
dalla convinzione che occorra imboccare una strada alternativa a quella che
vien ritenuta l’illusoria, e fallita, strada di ieri. L’illusione oggi
vituperata consiste nel credere che l’avversario, pur essendo qualcuno che
intimidisce e assale, abbia come minimo un fondo di razionalita’.
Razionalita’ non e’ bonta’, bene-volenza: e’ l’attitudine a fare calcoli
sulla base di criteri che la controparte condivide, e che dunque sono
prevedibili, probabili.
L’uomo razionale sa che due piu’ due non puo’ far cinque, anche quando la
sua mente e’ tutta volta alla distruzione altrui. La scommessa sulla
razionalita’ del nemico ha dato come risultato, nel Novecento, la teoria
della dissuasione nucleare, del contenimento, della guerra fredda. Una
teoria che venne applicata al comunismo sovietico e che puo’ esser riassunta
cosi’: io so che tu vuoi eliminarmi e hai intenzioni malvagie, ma a partire
dal momento in cui sei razionale – a partire dal momento in cui sei convinto
che due piu’ due fa quattro, in ogni circostanza – posso ragionevolmente
supporre che nell’euforia della distruzione non dimenticherai che sarai
distrutto anche tu, simultaneamente. Quel che ci unisce non e’ qualcosa di
positivo e caldo (amicizia, amore, unione) ma qualcosa di negativo e freddo
(evitare il comune suicidio). E’ questa idea che viene messa in questione,
all’indomani dell’attentato alle torri dell’11 settembre 2001.
*
Il presidente Bush ha costruito un’intera strategia su questa disillusione:
il contenimento dell’avversario non funzionava piu’, essendo divenuto
qualcosa che garantiva lo status quo delle tirannidi, e andava a suo parere
soppiantato da guerre calde, se necessario preventive. Di qui le offensive
in Afghanistan e Iraq, in risposta agli attentati. La stessa delusione nei
confronti dell’avversario la notiamo negli ultimi giorni a Gaza, dove il
governo Olmert sembra intenzionato ad annientare Hamas, piu’ che a liberare
il soldato Gilad Shalit, nella convinzione che il comportamento di Hamas non
possa essere ne’ contenuto, ne’ razionalizzato. L’operazione "Pioggia
d’estate" e’ un tipico esempio di lotta post-dissuasiva al terrorismo.
Mettere in discussione la strategia della dissuasione vuol dire non puntare
piu’ sulla possibile razionalita’ di chi aggredisce con l’arma terroristica,
e dunque rinunciare a far politiche che questa razionalita’ pian piano la
suscitino, l’alimentino, l’allenino. Il pericolo non e’ piu’ l’avversario
folle (il crazy state) che paventava Herman Kahn negli anni ’60, ma e’
l’avversario canaglia (il rogue state), la cui criminosita’ non e’
addomesticabile e che va di conseguenza eliminato abbattendo il suo regime
dall’esterno.
Se un governante e’ folle o irrazionale, si tenteranno politiche che
risveglino in lui l’interesse a non esserlo, indipendentemente
dall’inimicizia che egli prova nei miei confronti. Se e’ una canaglia, altro
non restera’ che rinchiuderlo in prigione o ucciderlo. Nel primo caso ha
senso una panoplia di strumenti (militari, diplomatici, politici); nel
secondo hanno senso solo poliziotti e soldati. Il governo Hamas che ha vinto
le elezioni nel gennaio 2006 e’ giudicato irrimediabilmente canaglia, non
rimediabilmente irragionevole. Il comune presentimento di un comune suicidio
svanisce, e al suo posto torna la chimerica legge del taglione, affrontabile
solo sul campo di battaglia: o muoio io o muori tu, ma qualcuno alla fine si
salvera’.
*
Il governo Olmert ha scelto questa strada, invadendo di nuovo Gaza a seguito
del rapimento del soldato Shalit e di molti attacchi di missili che hanno
colpito ripetutamente terre israeliane situate dentro la frontiera del ’67:
alla follia di Hamas non si puo’ che rispondere con un’altra follia,
all’insana predilezione suicida del terrorismo non si puo’ che replicare con
equivalenti politici del suicidio. Non si scommette piu’ su niente, tanto
forti sono delusione e sfiducia: guerra fredda e dissuasione sono
impraticabili con Hamas, quindi impossibili.
Lo scrittore Doron Rosenblum ha parlato di fascino dell’insania e di "follia
redentrice", in un articolo su "Haaretz" del 7 luglio. Anche questo fascino
e’ tipico della delusione apparsa all’inizio del XXI secolo: l’avversario
non va lentamente portato a usare la logica, come e’ avvenuto con Urss e poi
Cina. La storia non si fa giorno dopo giorno creando spazi di razionalita’
condivisa, ma si dirige apocalitticamente verso la propria fine: di
redenzione o dannazione. Prima cercavo di accostare l’avversario a me,
allenandolo non all’amicizia (quella verra’ dopo, se mai) ma almeno a un
calcolo di buon senso. Ora sono io che mi accosto a lui, emulando la sua
follia. Che Olmert sia tentato dall’emulazione e’ confermato da quello che
egli stesso ha confidato in una riunione ristretta, dopo il rapimento di
Shalit: "Hamas deve capire che il padrone di casa e’ diventato pazzo". Che
"l’epoca dell’autocontrollo e’ finita".
*
Si potrebbe capire questa strategia, se funzionasse. Ma non funziona, e non
a caso mentre guerreggia il governo israeliano gia’ pensa a trattare la
restituzione di prigionieri, come chiesto dai rapitori e come indirettamente
accettato dal ministro della Sicurezza Avi Dichter.
Non funziona perche’ lo stato d’Israele non puo’ al tempo stesso promettere
il ritiro dai territori e continuare a definire se stesso padrone di casa in
regioni evacuate dieci mesi fa. E non puo’ perche’ in passato consenti’ al
rilascio di molti prigionieri, anche incondizionatamente. Ne rilascio’
perfino in cambio di tre soldati morti, nel 2004. Perfino Ahmed Yassin, il
fondatore di Hamas ucciso da bombe israeliane nel 2004, era stato liberato
da Netanyahu nel ’97.
Due strategie coesistono insomma nella storia israeliana, e non e’ detto che
la piu’ dura prevalga. Resta il giudizio negativo – in America e Israele –
su una dissuasione che faccia leva sulla ragionevolezza altrui. Ambedue si
propongono "un potere dissuasivo riabilitato", ma coi loro metodi lo
debilitano ancor piu’, reagendo alla pazzia dell’aggressore con una pazzia
redentrice che va ben oltre il salvataggio del soldato Shalit.
*
Questo giudizio negativo su dissuasione e contenimento e’ d’altronde
avventato. Gli occidentali hanno pur sempre vinto la guerra fredda con i
metodi oggi vilipendiati, anche se la trasformazione fu lenta e i sacrifici
molteplici (rivoluzione annientata in Ungheria, carri armati a Praga,
insurrezione polacca sfociata in stato di guerra). Ma son metodi che hanno
dato qualche risultato, non solo con l’Urss ma anche con i palestinesi. E’
quel che ricorda Aluf Benn, commentatore di "Haaretz": se si vuol dissuadere
Hamas e non accentuare la sua mortifera follia, che si operi per trasformare
i suoi dirigenti in politici stile Assad, presidente siriano. "Il quale
sara’ un terrorista, ma non e’ pazzo". Il governo israeliano ha gia’ agito
cosi’ ai tempi di Ehud Barak, quando negozio’ con Hassan Nasrallah, leader
di Hezbollah in Libano del Sud, per organizzare con ordine il proprio
ritiro.
*
Scommettere sulla razionalita’ dell’avversario rafforza quest’ultimo, e’
vero. Gli da’ stabilita’, riconosce un suo status quo. Ma la storia di
questi anni ha mostrato che sono i governi instabili o inesistenti a
favorire il ritorno o il proliferare dei terroristi: in Afghanistan, Iraq,
Somalia, Gaza. Le guerre "redentrici" hanno tremendamente diminuito il peso
dell’America nel Medio Oriente e nel Golfo. L’amministrazione Usa e’
diventata afasica, impotente, priva di alleati locali.
E’ una catastrofe l’abbandono del contenimento, e i nemici che abbiamo
davanti sono animati da follie imprevedibili – come quella di Ahmadinejad in
Iran, di Hamas nei territori – cui le nostre democrazie (compresa
l’israeliana) non sanno rimediare. Non aspettandosi nulla da simili
avversari, esse non sanno neppure svegliare in loro il raziocinio condiviso
che e’ la premessa di qualsiasi negoziato. Sanno solo eliminarli o subirli:
senza idea alcuna, comunque, su chi verra’ dopo di loro.
*
Aluf Benn ricorda come Nasrallah in Libano, al pari di Hamas nei territori
occupati, odiasse Israele e sionismo. Ma a differenza di Hamas egli aveva
autorita’, pieno monopolio sulla violenza, e dunque responsabilita’: il suo
comportamento era razionale e ragionevolmente prevedibile.
Non e’ la soluzione ideale, nella lotta al terrorismo. La soluzione ideale
sarebbe di avere attorno a se’ amici, non nemici con cui si negoziano
equilibri di deterrenza e raffreddamenti di guerre. Ma il meno peggio e’
almeno un passo avanti rispetto al peggio, e oggi e’ vero che "ci sarebbe
bisogno di un Nasrallah palestinese" nei territori: non di un Abu Mazen
senza forza, non di Hamas senza monopolio della violenza. Di un terrorista
magari, ma che lentamente si avvicini alle regole e scopra gli svantaggi
tutti di quella speciale follia che mischia omicidio e suicidio.

4. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: IL PACIFISMO INDISPENSABILE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 luglio 2006. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu’
prestigiose, e’ tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e’
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu’ ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e’ stata
rapita il 4 febbraio 2005; e’ stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l’auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e’ stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu’ del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

Quando un mese fa, a New York, mi hanno chiesto se ero disposta a incontrare
Mario Lozano – il soldato che ha sparato contro l’auto su cui viaggiavo e ha
ucciso Calipari – ho risposto che non avrei avuto nessun problema. La
motivazione? Voglio sapere la verita’, non voglio vendette. Sono pacifista e
penso che anche Lozano, come i miei rapitori, siano vittime della guerra.
Hanno delle responsabilita’ ma la maggiore e’ di chi conduce questa guerra.
I miei interlocutori statunitensi non capivano. Perche’? Noi siamo un
movimento anti-war, non pacifista, mi hanno spiegato.
Il gap e’ notevole anche se c’e’ in comune l’opposizione alla guerra. Un
principio contro una filosofia, una cultura di vita. Una single issue contro
un progetto che non si accontenta di impedire una guerra ma vuole costruire
una cultura di pace per risolvere i conflitti.
Anche se non e’ facile impedire una guerra, non ci sono riuscite le
imponenti manifestazioni che hanno invaso le piazze alla vigilia
dell’attacco all’Iraq. E propria questa sconfitta ha imposto una battuta
d’arresto al pacifismo ma non ne ha segnato la fine, anzi ha imposto nuove
sfide, dal Libano alla Palestina all’Afghanistan. Sfide che si collocano in
un contesto nuovo: la fine del governo Berlusconi. Un primo risultato con
Prodi e’ stato ottenuto: il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, ma e’ un
risultato misero, anche se importante per noi, visto che in Iraq rimangono
soldati e terrore.
Fin dalla sua nascita il movimento pacifista ha avuto dimensioni
sovranazionali, con piu’ solide radici in Europa. E fin da allora i
pacifisti italiani avevano intuito che i maggiori pericoli venivano dal
Mediterraneo e dal Medioriente.
E la nuova esplosione di guerra nella regione ci riporta con le immagini a
quegli inizi con l’invasione del Libano. Avvenimenti che non dimostrano
l’inutilita’ del movimento pacifista ma la necessita’ che una cultura della
pace si rafforzi ed estenda. Quindi un lavoro politico di lunga lena che
comincia dal nostro paese per continuare in Europa, per individuare forze e
movimenti che nelle aree di crisi possono diventare interlocutori di una
politica di pace fondata sulla reciprocita’ della cooperazione, sullo
scambio eguale nello sviluppo economico, su comuni luoghi di decisione
politica, non un G8 che sentenzia e decide e gli altri che si adeguano.
Il ritiro italiano dall’Iraq non cambia la situazione di quel paese cosi’
come non la cambierebbe un ritiro dall’Afghanistan. Puo’ essere utile,
certo, ma serve di piu’: il ritiro di tutte le truppe per creare le
condizioni in Iraq come in Afghanistan di reale indipendenza e sovranita’ di
quei popoli che hanno bisogno d’aiuto, ma non quello portato da eserciti o
da migliaia di mercenari armati.
Non e’ solo un discorso di principio, come afferma Adriano Sofri
("Repubblica",17 luglio) ma di questioni di merito, anche per l’Afghanistan.
A parlarne e’ chi fra gli altri, e soprattutto le altre, ha manifestato
contro i taleban quando Bush li considerava ancora un gruppo rock. E oggi
non vorrebbe essere costretta a scegliere tra la pace del terrore (taleban)
e un regime dominato dai signori della guerra e della droga che all’interno
del parlamento si possono permettere di urlare "stupratela" contro una
deputata che denuncia la corruzione e la violenza dei nuovi-vecchi
governanti.
E’ questo il risultato di quasi cinque anni di intervento in Afghanistan. E
non si giustifichi l’intervento con la copertura dell’Onu: quando l’allora
rappresentante di Annan, Lakhdar Brahimi, aveva chiesto piu’ truppe per
estendere il controllo a tutto il paese nessuno gliele aveva date.
Quella che ora si trova in Afghanistan non e’ piu’ la forza di peacekeeping
avallata dall’Onu, che doveva assistere alla creazione di un governo
afghano. Si tratta invece di truppe che sempre piu’ numerose al sud portano
avanti la guerra contro il terrorismo e contro gli irrudicibili taleban che
non si sono riciclati nel nuovo governo.
Nell’Afghanistan di Karzai si applica la sharia, la Corte suprema e’ in mano
a uno dei piu’ trucidi fondamentalisti, ed e’ tornato in vigore il
"ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtu’".
Questa e’ la realta’ e non si puo’ ridurre, come fa Sofri, a un duello tra
Gino Strada e Alberto Cairo.

5. RIFLESSIONE. ELENA LOEWENTHAL: IL CONIUGE, L’AGUZZINO
[Dal quotidiano "La stampa" del 19 luglio 2006. Elena Loewenthal, limpida
saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a Torino nel 1960, lavora
da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d’Israele,
attivita’ che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del
Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa" e a "Tuttolibri";
sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il rigore, ma anche la
tenerezza e l’amista’ di cui sono impastati, e fragranti e nutrienti ti
vengono incontro. Nel 1997 e’ stata insignita altresi’ del premio Andersen
per un suo libro per ragazzi. Tra le opere di Elena Loewenthal: segnaliamo
particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi, Milano
1996, 2002; L’Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002;
Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le altre. Letture
bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi ha curato
Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al
XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando l’edizione
italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis Ginzberg]

E’ una sentenza di ammirevole giustizia. E’ in fondo ben di piu’, nel suo
immortalare, sul banco di un tribunale, lo spettro nitido di un’antica
schiavita’. La Corte di cassazione ha confermato la condanna della Corte
d’appello di Torino per un marito accusato di reiterati maltrattamenti in
famiglia e valutato "come sintomatico lo stato di esasperazione in cui la
donna versava dopo l’ennesimo litigio del marito che la umiliava e la
vessava in tutti i modi, giungendo a imporle di pulire il pavimento in
ginocchio come punizione dell’insufficiente cura che, secondo lui, la donna
dedicava ai lavori di casa".
Una donna costretta a lavare il pavimento in ginocchio: sospinta da echi
remoti, la nostra adulta memoria torna subito alla favola di Cenerentola che
immerge la spazzola nel secchio per strigliare le mattonelle di quella casa
che ormai non e’ piu’ la sua. Ma la fiaba e’, doverosamente, a lieto fine. E
a vessare la povera fanciulla e’ una matrigna acquisita per pura sfortuna,
non un marito che, presumibilmente, e’ diventato tale per popolare una
specie di nido d’amore, o quasi. In parole povere, la storia di questa
sventurata donna che per anni ha subito angherie di ogni sorta nonche’ lo
sprezzo per il suo modo di condurre le faccende domestiche, e’ infinitamente
piu’ triste di quella della nostra fiabesca eroina.
In primo luogo per il suo modesto lieto fine. Una sentenza della suprema
corte fa certo onore, ma non riscatta gli anni di soprusi ne’ li fa
dimenticare. Perche’ lavare il pavimento in ginocchio, se e’ qualcuno che ti
comanda di farlo (e non invece uno slancio di fervore igienico quale prende
a volte le donne in carriera, ingorgate dai sensi di colpa), dev’essere
davvero umiliante. Il contatto con il suolo freddo, le ossa infastidite
dalla posizione innaturale. E poi, basta un rapido giro dentro un
supermercato qualsiasi per rendersi conto di quanto quest’impresa sia
superflua, ormai: spazzoloni autopulenti, stracci che si strizzano da soli,
secchi docili all’uopo, manici di scopa a presa ergonomica. Il mercato della
detergenza domestica sforna praticamente ogni giorno piccole e grandi
invenzioni che, con una delicata dose di eufemismo, in inglese si potrebbero
dire "commodities": aggeggi sorridenti e astuti accorgimenti per rendere
alla massaia postmoderna la vita piu’ facile (o anche soltanto un po’ meno
difficile).
Di fronte a tale dovizia consumistica, pertanto, l’imposizione delle
ginocchia a terra per lavare il pavimento assume una valenza ben piu’
tirannica rispetto a quella che teneva Cenerentola chiusa in casa: nel suo
mondo non c’erano ancora gli spazzoloni intelligenti, ne’ gli stracci usa e
getta.
Costringendo la propria moglie a tale postura, quell’odioso marito
esercitava invece un sopruso della forma peggiore: quello condito di
inutilita’. Oggi come oggi, non c’e’ piu’ nessun bisogno di lavare i
pavimenti in ginocchio. Nessuna datrice di lavoro domestico dotata di
ragionevolezza lo imporrebbe piu’ alla sua colf (che, sia detto per inciso e
con un occhio di riguardo alla povera signora protagonista della sentenza,
comunque fa i lavori in cambio di un compenso) se non in casi particolari
come angoli ciechi di cucina o zone impervie nella cameretta dei ragazzi.
Insomma, quell’odioso marito e’ doppiamente colpevole, ben di piu’ della
solita, perfida matrigna. Al marito violento, condannato anche per aver
fatto mancare i mezzi di sussistenza per 14 mesi al figlio minorenne, e’
stato addebitato il pagamento di circa tremila euro per le spese di giudizio
oltre che il risarcimento in sede civile per la moglie e il figlio
maltrattati.

6. RIFLESSIONE. HEINRICH BOELL: UN’AUTRICE
[Da Heinrich Boell, Terreno minato. Saggi 1977-1981, Bompiani, Milano 1990,
pp. 7-8 (e’ il testo integrale di un breve saggio del 1978, "Un peso
sull’anima").
Heinrich Boell e’ nato a Colonia nel 1917, testimone degli orrori del
secolo, uomo di tenace, intransigente impegno morale e civile, una delle
figure piu belle dell’impegno per la pace e la dignita’ umana. Premio Nobel
per la letteratura nel 1972. E’ scomparso nel 1985. La sua bonta’ dovrebbe
passare in proverbio. Opere di Heinrich Boell: tra le opere di narrativa
(che sono sempre anche di testimonianza) piu’ volte ristampate: Il treno era
in orario (Mondadori), Viandante, se giungi a Spa. (Mondadori), Dov’eri,
Adamo? (Bompiani), E non disse nemmeno una parola (Mondadori), Racconti
umoristici e satirici (Bompiani), Il nano e la bambola (Einaudi), Opinioni
di un clown (Mondadori), Foto di gruppo con signora (Einaudi), L’onore
perduto di Katharina Blum (Einaudi), Vai troppo spesso a Heidelberg
(Einaudi), Assedio preventivo (Einaudi), Il legato (Einaudi), La ferita
(Einaudi), Donne con paesaggio fluviale (Einaudi). Tra le raccolte di saggi
e interventi: Rosa e dinamite, Einaudi, Torino 1979; Lezioni francofortesi,
Linea d’ombra, Milano 1990; Terreno minato, Bompiani, Milano 1990;
Fraternita’ difficile, Edizioni e/o, Roma 1999. Opere su Heinrich Boell:
Italo Alighiero Chiusano, Heinrich Boell, La Nuova Italia, Firenze 1974;
Lucia Borghese, Invito alla lettura di Boell, Mursia, Milano 1990.
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita’, abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero’ conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l’augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta’ come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da’ nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta’ consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu’ importanti in edizione
italiana segnaliamo: L’ombra e la grazia (Comunita’, poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita’, poi Mondadori), La prima radice (Comunita’,
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta’ e
dell’oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell’edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e’ la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita’, Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano
1994.]

Se considero il bagaglio come un peso – e uno dei miei sogni e’ di essere un
"viaggiatore senza bagaglio" -, mi trovo due pesi che mi gravano sul petto,
sullo spirito. Il primo e’ costituito dai libri e dai manoscritti che non ho
letto, che non ho potuto leggere; la crudele necessita’ che mi costringe, a
determinati intervalli, a sgomberare tavoli e scaffali, fa delle cose non
lette un peso e mi rende consapevole che leggere e’ un processo ingiusto,
perche’ ha come premessa una scelta che non so esattamente come si realizzi,
quali motivi, quali casi fortuiti – o non sono fortuiti? – quali
pregiudizi – o non sono tali? – ne siano la causa.
Il secondo peso: i libri che ho letto e di cui non mi sento all’altezza. Un
esempio: un’autrice alla quale giro continuamente intorno, che non raggiungo
mai, forse perche’ ho paura di andarle troppo vicino. Mi procuro
continuamente i suoi libri, li regalo o li metto in disparte, me li procuro
di nuovo, li ho con me quando disfo le valigie, a casa, in albergo o
altrove. L’autrice mi grava sul cuore come un profeta; e’ lo scrittore in me
che prova vergogna davanti a lei; e’ il potenziale cristiano in me che
l’ammira, il nascosto socialista che intuisce in lei una seconda Rosa
Luxemburg; che vorrebbe, con le sue parole, dare maggiore intensita’ a
quelle di lei. Vorrei scrivere su di lei, dar voce alla sua voce, ma lo so:
non ci riesco, non sono all’altezza, non intellettualmente, non moralmente,
non sul piano religioso. Cio’ che lei ha scritto e’ assai piu’ che
Letteratura; il modo in cui ha vissuto e’ assai piu’ che Esistenza. Ho paura
della sua severita’, delle sferiche dimensioni della sua intelligenza o
sensibilita’, ho paura delle conseguenze che mi imporrebbe se io realmente
le arrivassi vicino. In questo senso essa non e’ letteratura come bagaglio,
ma per me un peso sull’anima. Il suo nome: Simone Weil.

7. RIFLESSIONE. FRANCO FORTINI: UN’AUTRICE
[Da Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1586 (e’
un passo dall’articolo "Il controllo dell’oblio", apparso sul "Corriere
della sera" il 24 febbraio 1982). Franco Lattes (Fortini e’ il cognome della
madre) e’ nato a Firenze nel 1917, antifascista, partecipa all’esperienza
della repubblica partigiana in Val d’Ossola. Nel dopoguerra e’ redattore del
"Politecnico" di Vittorini; in seguito ha collaborato a varie riviste, da
"Comunita’" a "Ragionamenti", da "Officina" ai "Quaderni rossi" ed ai
"Quaderni piacentini", ad altre ancora. Ha lavorato nell’industria,
nell’editoria, come traduttore e come insegnante. E’ stato una delle persone
piu’ limpide e piu’ lucide (e per questo piu’ isolate) della sinistra
italiana, un uomo di un rigore morale ed intellettuale pressoche’
leggendario. E’ scomparso nel 1994. Opere di Franco Fortini: per l’opera in
versi sono fondamentali almeno le raccolte complessive Poesie scelte
(1938-1973), Mondadori; Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi;
Versi scelti. 1939-1989, Einaudi; cui si aggiungano l’ultima raccoltina
Composita solvantur, Einaudi, e postuma la serie di Poesie inedite, sempre
presso Einaudi. Testi narrativi sono Agonia di Natale (poi riedito col
titolo Giovanni e le mani), Einaudi; e Sere in Valdossola, Mondadori, poi
Marsilio. Tra i volumi di saggi, fondamentali sono: Asia Maggiore, Einaudi;
Dieci inverni, Feltrinelli, poi De Donato; Tre testi per film, Edizioni
Avanti!; Verifica dei poteri, Il Saggiatore, poi Garzanti, poi Einaudi;
L’ospite ingrato, De Donato, poi una nuova edizione assai ampliata col
titolo L’ospite ingrato. Primo e secondo, presso Marietti; I cani del Sinai,
Einaudi; Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore;
Questioni di frontiera, Einaudi; I poeti del Novecento, Laterza; Insistenze,
Garzanti; Saggi italiani. Nuovi saggi italiani, Garzanti (che riprende nel
primo volume i Saggi italiani apparsi precedentemente presso De Donato);
Extrema ratio, Garzanti; Attraverso Pasolini, Einaudi; e adesso il postumo
incompiuto Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006. Si veda anche l’
antologia fortiniana curata da Paolo Jachia, Non solo oggi, Editori Riuniti;
la recente bella raccolta di interviste, Un dialogo ininterrotto, Bollati
Boringhieri; e la raccolta di Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003.
Tra le opere su Franco Fortini in volume cfr. AA. VV., Uomini usciti di
pianto in ragione, Manifestolibri, Roma 1996; Alfonso Berardinelli, Fortini,
La Nuova Italia, Firenze 1974; Romano Luperini, La lotta mentale, Editori
Riuniti, Roma 1986; Remo Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Jesi 1988. Su
Fortini hanno scritto molti protagonisti della cultura e dell’impegno
civile; fondamentali sono i saggi fortiniani di Pier Vincenzo Mengaldo; la
bibliogafia generale degli scritti di Franco Fortini e’ in corso di stampa
presso le edizioni Quodlibet a cura del Centro studi Franco Fortini; una
bibliografia essenziale della critica e’ nel succitato "Meridiano"
mondadoriano pubblicato nel 2003]

Chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di
servi) vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le
emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli
religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi
impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del
"ricordo", cioe’ della tradizione, e’ il vero esito della colonizzazione;
perche’ di questa, in definitiva, sto parlando. Su questo tema Simone Weil
ha scritto parole indelebili.

8. MEMORIA. DARINA SILONE: UN’AUTRICE
[Da Ignazio Silone, Severina, Mondadori, Milano 1981, 2001, pp. 19-22 (e’ il
testo integrale della "Premessa" di Darina Silone all’edizione – postuma, e
da lei curata – del romanzo incompiuto di Silone.
Darina Laracy Silone, indimenticabile e tenerissima lottatrice per la
dignita’ umana, la verita’ e la nonviolenza, e’ nata a Dublino il 30 marzo
1917, laureata in letteratura francese alla Sorbona di Parigi, conobbe
Silone tra gli esuli antifascisti a Zurigo durante la guerra e ne divenne
compagna, interlocutrice e collaboratrice preziosa, e traduttrice in inglese
e in francese; dalla fine della guerra viveva a Roma nella casa in cui aveva
abitato con Silone fino alla sua scomparsa nel 1978; e’ deceduta il 25
luglio 2003; curatrice del lascito siloniano, alle sue cure si deve la
pubblicazione postuma dell’ultimo e incompiuto capolavoro siloniano,
Severina, presso Mondadori.
Ignazio Silone, nato come Secondino Tranquilli a Pescina dei Marsi, nel
cuore della Marsica, il primo maggio 1900; a quindici anni il terremoto lo
lascia orfano. Avviene allora l’incontro con don Orione, cui restera’
profondamente legato. Impegnato nel movimento socialista, al congresso di
Livorno del 1921 aderisce al Partito Comunista, di cui sara’ dirigente nel
periodo della clandestinita’. Nel 1931, maturate posizioni antitotalitarie,
esce dal partito. Negli anni della guerra dirige il centro estero del
Partito Socialista. Dal ’49 abbandona la militanza politica di partito e per
il futuro sara’ – come dira’ in un’intervista del ’61 – "cristiano senza
chiesa e socialista senza partito". Nel 1950 viene fondato il movimento per
la liberta’ della cultura, Silone fonda e dirige la sezione italiana. Nel
1956 con Nicola Chiaromonte fonda e dirige la rivista "Tempo presente".
Scompare il 22 agosto 1978. Strenuamente impegnato per la dignita’ ed i
diritti degli oppressi, intransigentemente antitotalitario, la sua prima e
fondamentale opera letteraria, Fontamara, fu quasi un grido di battaglia per
l’antifascismo internazionale e ancora dopo e sempre per generazioni di
militanti impegnati per i diritti e la dignita’ umana. Le recenti ricerche
storiografiche in quanto e quando apportino contributi utili e certi alla
conoscenza storica e all’acclaramento della verita’ fattuale ed
esistenziale, non potranno che essere giovevoli e benvenute: la figura
dell’autore di Fontamara che dal travaglio e dal momento (il kairos) della
scelta antitotalitaria sempre piu’ approfondi’ e illimpidi’ il suo impegno
per la giustizia e la dignita’ umana, per la nonmenzogna e la nonviolenza,
nulla ne ha da temere nella sua grandezza e umanita’. Opere di Ignazio
Silone: un’edizione complessiva e’ quella dei Romanzi e saggi, 2 voll.,
Mondadori, Milano 1998-1999 (cui va aggiunto, edito solo in volume a se’, Il
fascismo, Mondadori, Milano 2002, 2003); edizioni di singole opere:
Fontamara; Il fascismo, le sue origini e il suo sviluppo; Pane e vino (poi:
Vino e pane); La scuola dei dittatori; Il seme sotto la neve; Ed egli si
nascose; Una manciata di more; Il segreto di Luca; La volpe e le camelie;
Uscita di sicurezza; L’avventura di un povero cristiano; Severina; si veda
anche il Memoriale dal carcere svizzero. Tutte edite da Mondadori, ad
eccezione de: Il fascismo dalla Fondazione Silone (ma ora anche Mondadori),
Ed Egli si nascose da Staderini poi da altri editori; Uscita di sicurezza da
Vallecchi e poi Longanesi, il Memoriale da Lerici (ma tutti e tre questi
ultimi testi ora inclusi nei due volumi mondadoriani dei Romanzi e saggi).
Opere su Ignazio Silone: oggi la biografia di riferimento e’ quella di
Ottorino Gurgo, Francesco de Core, Silone. L’avventura di un uomo libero,
Marsilio, Venezia 1998. Tra i saggi su Silone segnaliamo particolarmente:
come introduzioni ad uso scolastico: Carlo Annoni, Invito alla lettura di
Silone, Mursia, Milano 1974, 1986; Sebastiano Martelli, Salvatore Di Pasqua,
Guida alla lettura di Silone; come saggi di autrici che lo conobbero ed
hanno quindi anche un valore testimoniale: Luce D’Eramo, Ignazio Silone.
Studio biografico critico, Mondadori, Milano 1972; Margherita Pieracci
Harwell, Un cristiano senza chiesa, Studium, Roma 1991]

Severina, l’ultima eroina di Ignazio Silone, e’ la prima ed unica donna di
un suo romanzo ad esserne protagonista. Egli ne era, naturalmente,
innamorato, come lo era di tutte le sue eroine, da Elvira a Cristina a
Faustina a Stella ad Ortensia (per la giovanissima Silvia di La volpe e le
camelie direi che sentiva piuttosto una commossa tenerezza), ma esse sono
tutte, chi piu’ chi meno, idealizzate ma non reali, ombre poetiche che
esistono in funzione del protagonista-eroe, quasi sempre in qualche misura
autobiografico. (Nel Segreto di Luca, romanzo ispirato ad una storia
veramente accaduta, il personaggio autobiografico e’ Andrea Cipriani, il
protagonista ovviamente dovendo essere Luca, il vecchio ergastolano, ma
Ortensia, pur trovandosi in una situazione piu’ complessa delle eroine dei
romanzi precedenti, e’ sorella spirituale di Elvira, di Cristina, di
Faustina, non di Severina. Al contrario di Severina, Ortensia si chiude in
convento perche’ non ha il coraggio di affrontare la verita’).
Severina e’ la protagonista perche’ in lei Silone ha messo la carica
autobiografica che negli altri suoi romanzi metteva nell’eroe. Il dramma di
Severina e’ il tema del romanzo. Gli altri personaggi, maschili e femminili,
le sono secondari. Se i momenti in cui Silone si intenerisce su di lei
ricordano quegli esempi precedenti che dimostrano la sua difficolta’ nel
creare personaggi femminili credibili al disotto dell’eta’ canonica,
rivedendo il testo egli li avrebbe certamente attenuati se non eliminati.
(Gli era invece facile creare donne anziane di tutti i tipi, forse perche’
l’unico legame femminile della sua adolescenza fu quello con la nonna
materna, idealizzata in donna Maria Vincenza, la nonna di Pietro Spina. Vi
sono probabilmente anche altre spiegazioni, ma sarebbe fuori posto qui
dilungarmi sui rapporti di Silone con i suoi personaggi femminili).
Il fatto che egli sia riuscito a creare Severina-protagonista e’ dovuto,
credo, ad un caso: la scoperta di una donna attraverso gli scritti postumi
di lei, nei quali egli trovo’ un riscontro ai propri drammi e problemi
spirituali. Egli ebbe, come spieghero’ piu’ tardi, pochissimo tempo per
stendere il testo attraverso il quale si compie il destino di Severina, ma
da vari anni lo andava meditando: e l’ispirazione originale risale risale a
moltissimi anni prima quando, per il Natale del 1950, gli regalai un piccolo
libro da poco uscito a Parigi, Attente de Dieu di Simone Weil. Non era
facile regalare libri a Silone e di solito i miei regali erano un
fallimento. Ma Attente de Dieu, che sto sfogliando ora mentre scrivo –
quello stesso esemplare, letto e riletto da lui, segnato dovunque da lui a
matita – compenso’ da solo tutti i regali falliti. Appena possibile gli
regalai, o egli si compro’, tutte le altre opere di Simone Weil che, assieme
alla Bible de Jerusalem e alla traduzione tedesca del Vecchio Testamento del
suo grande amico e maestro Martin Buber, rimasero per il resto della sua
vita la sua maggior fonte di nutrimento spirituale.
Non che il pensiero di Simone Weil fosse per lui una rivelazione; ma ebbe la
sensazione di scoprire in esso un itinerario spirituale molto vicino al suo.
Per spiegarmi meglio, citero’ alcune parole di Silone tratte da un articolo
pubblicato sulla rivista svizzera "Temoins" nella primavera del 1953, un
estratto del quale era apparso su "Epoca" del 17 gennaio 1953. "La crisi
della nostra epoca, che ha i suoi aspetti piu’ vistosi sul piano della
politica e dell’economia, coinvolge in realta’ tutta la convivenza degli
uomini e l’uomo nella sua totalita’; essa ha percio’ nelle sue radici un
carattere profondamente morale e religioso. La metafisica e i dogmi
religiosi hanno perduto, per noi, l’evidenza che forse avevano in altre
epoche. C’e’ di piu’: la loro problematica ci lascia indifferenti". E verso
la fine dell’articolo, a proposito di Simone Weil, scrive: "Sono rimasto
veramente sorpreso nel riscontrare come il dramma spirituale di questa ebrea
francese somigli a quello di molti di noi".
Cosi’ come, citando Andre’ Malraux, Silone amava ripetere che bisognava
"tradurre in coscienza il massimo numero possibile di esperienze",
lentamente egli traduceva in coscienza l’esperienza della lettura di Simone
Weil. Severina e’, in parte, Simone Weil come si era maturata in Silone.
Cio’ mi risulta da vari appunti. Nel loro atteggiamento verso Dio e verso la
Chiesa (che somigliava sotto diversi aspetti a quello di Silone) esse hanno
molto in comune; ebbero in comune anche l’amore per gli oppressi e i
diseredati. Non dico tuttavia che Simone Weil abbia ispirato il personaggio
di Severina; ma se fosse stato un uomo l’autore di quelle stesse opere, non
credo che Silone sarebbe riuscito a creare un personaggio femminile col
quale identificarsi nel suo ultimo tentativo di comunicare con gli altri
attraverso un romanzo.
Ricordo, infine, un fatto storico a sostegno della mia convinzione che
Severina si identifica con l’autore stesso, che Severina e’ il suo ultimo
messaggio. Nel maggio del 1927, a Mosca, Silone rifiuto’ di testimoniare
contro la propria coscienza, e questo rifiuto fini’ col portarlo fuori di
quel Partito che per lui rappresentava cio’ che per Severina era il convento
che lei abbandono’ dopo aver testimoniato la verita’.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 73 del 20 luglio 2006

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