Intervista all'avv. Dario Rossi di ritorno dalla Palestina

La vittoria del partito islamico Hamas – Movimento di resistenza islamica -,  nelle recenti elezioni palestinesi, ha portato alla ribalta il ruolo fondamentale assunto ormai da anni dalle numerose associazioni caritatevoli nel sostegno materiale e morale della popolazione.

Un gruppo di trenta italiani, tra cui l’avvocato genovese Dario Rossi al seguito di Action for Peace, a gennaio si è recato nei Territori palestinesi per seguire la corsa elettorale e per visitare alcune di queste organizzazioni.

Avvocato Rossi, come si sono svolte le elezioni?

“Abbiamo visitato varie città palestinesi: Jenin, Hebron, Tulkarem, Nablus, Ramallah, Betlemme, ecc. Eravamo divisi in gruppi di dieci persone ciascuno, per monitorare ciò che succedeva nei seggi elettorali, ma anche nei check-point. Da una parte volevamo constatare se le operazioni di voto avevano uno svolgimento regolare, dall’altra se l’esercito israeliano ostacolava  la libera circolazione e con essa l’accesso alle sedi elettorali. Per ciò che riguarda voto e operazioni di scrutinio, tutto si è svolto nella piena regolarità”.

E da parte israeliana?

“Hanno dato fastidio, soprattutto nei check-point. Ad esempio, in prossimità di Nablus alcune persone hanno avuto l’accesso bloccato; altre, invece, sono passate grazie all’intervento degli osservatori presenti. Ostruzionismo assolutamente ingiustificato, come lo sono tutte le limitazioni nella libertà di circolazione. Da altre parti sono stati chiesti i documenti a tutti quelli che andavano a votare, quindi l’identificazione era a scopo intimidatorio. Per il resto, ho notato una grande correttezza da parte palestinese, anche nelle manifestazioni in piazza. I militanti dei vari partiti si mescolavano tra loro, con tranquillità e per far festa, senza tensioni”.

E dopo la vittoria di Hamas?

“Il giorno dopo ci sono state manifestazioni, sia di al-Fatah sia di Hamas, ma senza atteggiamenti ostili. I militanti di al-Fatah hanno protestato contro i leader del proprio partito accusandoli di essere la causa della sconfitta.

Quanto all’uso di armi, come si è visto su tv e giornali, bisogna dire che era “scenografico”. Lì ce le hanno tutti e si spara in aria. Sono un po’ parte del folclore, un po’ dell’auto-difesa personale in uno stato sotto permanente occupazione”.

Come è stata accolta dalla popolazione la vittoria di Hamas?

“I militanti o simpatizzanti di al-Fatah sono preoccupati e delusi: il timore è che, trattandosi di un  partito a base religiosa, possa far prevalere questa componente sugli aspetti della vita politica. Ma non credo ci possa essere questo rischio: la popolazione palestinese ha una cultura e una tradizione piuttosto radicate, di cui Hamas è cosciente.

Dall’analisi della vittoria di Hamas si desumono alcuni elementi: a) essa è stata determinata da un’adesione totale al movimento; b) attraverso le istituzioni caritatevoli islamiche, Hamas interviene sulla popolazione a livello assistenziale, sociale ed economico. Questo fatto, importante, è riconosciuto e apprezzato dagli ampi strati della popolazione palestinese che vivono in condizione di indigenza; c) la componente di protesta contro la politica di al-Fatah è stata molto forte”.

Dal punto di vista sociale, quale le è sembrato il ruolo delle varie realtà assistenziali islamiche?

“Ho potuto constatare che sono davvero centri di assistenza. Sono stato in quello di Hebron – l’Islamic caritable society -, dove lavorano circa 200 persone prestando assistenza a 1700 orfani. E’ molto grande e con diramazioni in varie città palestinesi. E’ un tipo di organizzazione simile alla nostra Caritas. Ho trovato persone in giacca e cravatta dietro a scrivanie; uffici, mense, refettori, luoghi di ricreazione, pulmini per portare i bambini in giro, ecc. Viene finanziata da ong e enti pubblici, italiani e stranieri, tra cui la Abspp, l’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, con sede a Genova.

Un’altra realtà è il “Comitato Zakat”, a Nablus. Sono comitati molto famosi e presenti in tutte le città palestinesi. Anche questi vengono paragonati un po’ alla nostra Caritas, e portano avanti attività di assistenza sociale diffusa nei confronti di orfani e del resto della popolazione. Ho conosciuto il presidente dell’ufficio di Nablus, che è anche l’imam della principale moschea della città e direttore di un’industria di produzione di latte e latticini – di cui è proprietario il “Centro Zakat” (è una sorta di cooperativa). Sono stati molto cordiali, mi hanno fatto vedere tutti i documenti. I finanziamenti dell’Abspp sono destinati al sostegno di una quarantina di orfani”.

A proposito di Abspp, qualche settimana fa il Corriere della Sera ha pubblicato due articoli in cui dichiarava che l’associazione genovese mandava soldi alle famiglie dei kamikaze islamici in Palestina… Secondo lei ci sono elementi che possano confermare tali accuse? Che fine fanno i soldi raccolti in Italia?

“Ritengo si tratti di accuse diffamatorie. Ho provato a fare questo discorso sugli ‘orfani dei kamikaze’ ai miei interlocutori nelle varie associazioni da me visitate: mi hanno risposto che  ‘assistono gli orfani in quanto tali’ e che non vanno a discriminare questo o quel bambino in base a come sono morti i genitori. Non è un buon motivo per abbandonare a se stesso un minore, che può diventare così un emarginato e un delinquente e costituire un pericolo per la società. I piccoli non devono pagare le colpe dei grandi. In secondo luogo, mi hanno fatto notare che l’età media dei kamikaze è molto giovane e che non può trattarsi di ‘genitori’. Chi ha famiglia non fa questa scelta. Dunque, trovare un orfano di un kamikaze è raro. Mi hanno anche riferito che Israele riconosce solo le associazioni che garantiscono di non assistere le famiglie dei kamikaze, ma ovviamente nessuna è disposta a fare una tale dichiarazione. Comunque, per rispondere alla sua domanda, l’Abspp contribuisce soltanto all’assistenza di orfani, insieme a tante altre organizzazioni umanitarie, palestinesi, italiane e di altri paesi. E sono molto stimate e apprezzate dalla popolazione locale”.

Aiutano concretamente la gente?

“Certo. Sono centri di assistenza, caritatevoli, ma sono anche legati alle attività religiose delle moschee, proprio come le nostre organizzazioni cristiane a sfondo sociale. In un Paese dove il 70% della popolazione vive sotto il livello della povertà ed è sostenuta da queste organizzazioni, è comprensibile che, nel momento in cui si presentano alle elezioni, vengano votate in massa. Offrire assistenza e mezzi di sostentamento crea fiducia e seguito”.

Eppure, i media occidentali non sembrano capire che c’è un rapporto di causa-effetto tra la vittoria di Hamas e la dura situazione in cui vivono i palestinesi, sostenuti solo da ong e organizzazioni caritatevoli…

“Non è che non capiscano, non vogliono proprio capire. Si fa di tutto per travisare, per fare della disinformazione. Prendersela con queste associazioni benefiche è voler diffamare un’attività puramente assistenziale, senza portare alcun riscontro del contrario.

La forte limitazione nelle libertà di movimento e di commercio, imposte dal governo israeliano a tutto il territorio palestinese, ha enormemente impoverito una popolazione che è sempre stata attiva e laboriosa. Se per fare 40 chilometri non sai se arriverai a destinazione, perché ci sono tre check-point e dovrai aspettare ore e ore, come fai a portare avanti attività produttive? A Jenin, per esempio, c’è gente che è ridotta alla fame, senza fonti proprie di sussistenza, ed è sorretta da ong, palestinesi e straniere, e associazioni benefiche. Le realtà assistenziali sono veramente tantissime”.

Non c’è il rischio che questi fondi vengano bloccati?

“Il rischio c’è. La Palestina è sotto assedio. Per esempio, ho visitato un

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