Israa Jaabis: in un solo istante, da vittima a criminale

MEMO. Di Mahmoud Usruf. Un tribunale israeliano ha condannato una madre palestinese, gravemente ustionata, ad undici anni di carcere per non aver fatto letteralmente niente, nel 2017. Soltanto in Israele può accadere di essere incarcerati senza nessun tipo di accusa perseguibile ed essere condannati a sopportare delle ferite per sempre, fino alla morte.

Israa Jaabis, 37 anni, era in viaggio diretta verso casa sua, a Gerusalemme, il 10 ottobre 2015, un giorno prima della presentazione finale del suo progetto di ricerca per il modulo di Educazione Speciale. La sua auto all’improvviso prese fuoco a causa di un guasto tecnico, a cinquecento metri dal checkpoint militare di Al-Zayyim, a Gerusalemme. I soldati israeliani nelle vicinanze pensarono che Israa fosse un potenziale pericolo e puntarono le armi contro la donna che aveva perso il controllo del veicolo ed era avvolta dalle fiamme.

Secondo l’avvocato di Israa, che fa parte del gruppo per i diritti umani Addameer, una bombola di gas era esplosa accidentalmente nell’auto di Israa, e a seguito di quanto accaduto la donna si era precipitata fuori dal veicolo gridando aiuto. Nonostante ciò, la risposta che ricevette fu la canna di un fucile puntata contro e una guardia israeliana che le urlava: “Lascia cadere il coltello”. Israa si stese sull’asfalto col corpo in fiamme per 15 minuti, aspettando la pietà del soldato o la morte imminente. Ma alla fine venne arrestata.

I militari israeliani accusarono Israa di “tentato omicidio”. Ma non venne presentata alcuna prova. Inoltre, questa madre palestinese negò con veemenza tali accuse, sottolineando che stava trasferendo dei mobili nella sua casa, nel quartiere di Jabal Al-Mukaber.

Questo episodio si svolse durante la cosiddetta “Intifada di Gerusalemme”, scoppiata nel 2014, sulla scia dell’indignazione tra i Palestinesi dovuta alle provocazioni israeliane alla moschea di al-Aqsa. La rivolta continuò fino alla seconda metà del 2015.

Gli scontri quotidiani e un’ondata di violenza si diffusero in tutta la Cisgiordania e lungo i confini di Gaza. Tuttavia, le risposte israeliane furono spesso di ritorsione e indiscriminate.

Un giovane con doppia amputazione, Ibrahim Abu Thuraya, è un esempio delle decine di palestinesi uccisi per divertimento dalle forze israeliane. E’ stato freddato presso il muro di separazione di Gaza, mentre protestava pacificamente contro le violazioni israeliane a Gerusalemme.

Le milizie israeliane hanno giustiziato molti Palestinesi, adolescenti compresi, nelle strade di tutta la Cisgiordania, con il pretesto di “portare un coltello”. Durante questi eventi, il bilancio delle vittime ha raggiunto 222, tutti Palestinesi.

Israa sta languendo nella prigione di Damon, a nord di Israele, assieme ad altre dieci madri palestinesi e 35 detenute, secondo Addameer.

Ha ustioni di secondo e terzo grado sul 60% del corpo. Otto delle sue dita non esistono più a causa delle gravi ustioni riportate nell’incidente e ha bisogno di cure mediche di emergenza, secondo un rapporto di Medici Senza Frontiere.

Nasreen Abu Kmail, una detenuta appena rilasciata che è stata con Israa nella stessa cella del carcere di Damon, ha descritto la madre come il “caso più difficile” dietro le sbarre. “Non riesce a mangiare e respirare normalmente e soffre di infiammazioni acute a causa delle sue ferite”.

Nonostante il suo dolore, l’amministrazione penitenziaria della prigione di Damon non fornisce le adeguate cure mediche necessarie per il trauma che ha subito. Il Servizio Penitenziario Israeliano (ISP) lascia deliberatamente che Israa continui a soffrire.

“Ogni qualvolta che Israa richiede assistenza medica, sia cure mediche di base che interventi di chirurgia plastica, l’amministrazione carceraria risponde dicendo che è lei stessa che si è fatta del male da sola”, racconta Anhar Al-Deek, una detenuta palestinese rilasciata su cauzione lo scorso settembre.

Israa apparve in tribunale nel gennaio 2018 per presentare appello contro la sua sentenza di condanna. Quando le venne chiesto delle sue condizioni, durante l’udienza, Israa alzò quel che resta delle sue mani davanti alla corte, dicendo: “Esiste un dolore più grande di questo?” Il suo volto e i suoi occhi raccontarono tutto su come si sentiva e quanto stava soffrendo.

La sorella di Israa, Mona Jaabis, ha raccontato a MEMO che Israa ha bisogno di otto interventi chirurgici urgenti, per non parlare delle trenta operazioni di chirurgia plastica necessarie per trattare le sue vaste ferite, anche solo parzialmente. “Israa respira attraverso la bocca perché le narici sono completamente ostruite. Ora siamo in una battaglia legale per fare pressione sul Servizio Penitenziario Israeliano affinché permetta a Israa di sottoporsi alle necessarie operazioni chirurgiche al naso, alle orecchie, alla gola e al labbro inferiore”.

Il Servizio Carcerario Israeliano non fornisce a Israa nessun unguento per le ustioni, né permette alla sua famiglia di farlo. “Non consentono alcun tipo di assistenza medica”.

Mona ha sottolineato il fatto che sua sorella ha subito un forte trauma psicologico dall’inizio della detenzione, citando le sue parole: “Ho paura quando mi guardo la faccia allo specchio… e ho il ricordo dell’incidente come un incubo quotidiano”.

Abu Kmail e Al-Deek, che hanno trascorso la loro condanna in carcere nella stessa stanza con Israa, hanno riferito che ogni mattina si sveglia gridando “Fuoco, fuoco, fuoco!”

Gli attivisti palestinesi si sono mobilitati sui social media a sostegno della madre palestinese. #Save_Israa è stato in cima agli hashtag su Twitter all’inizio di settembre. La famiglia di Israa ha detto a MEMO che la campagna è ancora in corso.

Anche il figlio tredicenne di Israa, Mutasim, ha preso l’iniziativa in questi tentativi per far liberare sua madre. “Sono sei anni che vivo separato da mia madre. Tutti i bambini nel mondo tornano a casa e vedono le loro madri. Ma questo non è il mio caso”, dice Mutasim in un video.

Dall’inizio della sua detenzione, il Servizio Penitenziario Israeliano ha negato a Israa le visite familiari, in flagrante violazione della IV Convenzione di Ginevra del 1949, ad eccezione di un incontro speciale avvenuto tra Israa e Mutasim e coordinato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), diciotto mesi dopo l’inizio dell’incarcerazione.

“C’era un doppio vetro tra Israa e Mutasim, e un telefono con scarso segnale su ogni lato della barriera. I due si parlavano attraverso il telefono. ‘Mostrami la tua faccia, mamma’. Israa ha sollevato con riluttanza una parte della testa che intendeva nascondere dietro una mensola di pietra, sotto la barriera di vetro. Israa si copriva il viso anche con una maschera gialla, fatta da lei. Sulla maschera aveva disegnato un animale dei cartoni animati, per coprire le sue ferite e per non spaventare il bambino. ‘Mostrami il tuo volto, mamma’, ripeteva Mutasim”, ha raccontato la sorella di Israa, Mona, che ha accompagnato il bambino alla visita.

“In quel momento tutti, nella sala delle visite, sono scoppiati in lacrime, anche gli altri visitatori e le guardie israeliane. ‘Ti amo così come sei, mamma’, ha detto Mutasim, e ha appoggiato la mano su un lato della barriera, invitando sua madre a fare lo stesso”.

E’ stata la prima e l’ultima ‘stretta di mano’ tra i due, da allora.

Le autorità israeliane hanno anche ritirato l’assicurazione medica di Israa, rovinando così ogni possibilità di cure mediche in futuro, al momento del suo rilascio. Il Servizio Penitenziario Israeliano vuole sopraffare Israa con la sofferenza e l’umiliazione per il resto della sua vita. Può, quindi, l’essere vivi diventare ancora più doloroso?

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi