'Israele: 60 anni di Apartheid, colonialismo e pulizia etnica'. Verso un nuovo paradigma.

Dopo il ciclo di incontri con Omar Barghouti

verso un nuovo paradigma

qualche riflessione e qualche proposta operativa

Israel:60 years of Apartheid Settler-Colonialism

Ethnic Cleansing

Time for the

Ethical Alternative

Omar Barghouti

Italy, October 2007

 

Indice

Introduzione

Verso un nuovo paradigma

Le attuali tendenze naziste secondo Giuliano Pontara

Oslo e il collaborazionismo palestinese

La deriva e il collaborazionismo occidentale

Il movimento di solidarietà

Le nostre responsabilità

Call for action

Allegato: Della barbarie di Giuliano Pontara

 

Alfredo Tradardi

ISM-Italia

 

 

1- Introduzione

Dall’8 all’11 ottobre ISM-Italia ha curato un ciclo di incontri con Omar Barghouti, a Milano, Verona, Brescia, Ivrea e Firenze, che ha parlato sul tema: "Israele: 60 Anni di Apartheid, di Colonialismo e di Pulizia Etnica – E’ tempo per l’alternativa di uno stato laico e democratico".

Sono stati anche organizzati a Roma, con la collaborazione di Michelangelo Cocco, due incontri, con la redazione de "Il Manifesto" il primo e con il responsabile esteri del PdCI, Jacopo Venier e il direttore di "Rinascita", Maurizio Musolino il secondo.

Sabato 13 ottobre, nell’ambito della terza edizione del FestivalStoria promosso dal prof. Angelo d’Orsi, dedicato al tema "Di che "razza" sei? Un mito pericoloso" (www.festivalstoria.org),  si è tenuta una tavola rotonda su "Etnos e religione: il caso di Israele", con Omar Barghouti, Gideon Levy, Catrin Ormestad e Michel Warschawski.

Omar Barghouti ha presentato una relazione dal titolo: "La Percezione dei Palestinesi  come "Umani-Relativi – L’apartheid israeliana come una miscela di razzismo coloniale e di fondamentalismo ebraico."

A marzo, in un precedente ciclo di incontri con Omar Barghouti, erano state organizzate assemblee a Parma, Biella, Torino, Varese, Roma e Napoli.

Omar Barghouti ha anche partecipato con due relazioni al seminario di Biella del 12 – 13 maggio 2006, "La dimensione della parola condivisa: Quale futuro per Palestina/Israele?", "Arte e Oppressione" e "Il boicottaggio", www.frammenti.it.

E’ stato uno dei promotori del corso estivo tenutosi a El Escorial (Spagna), dal 2 al 6 luglio 2007, sul tema "Palestine/Israel: One Country, One State".

Verso un nuovo paradigma

Il dibattito che si è aperto attraverso numerose iniziative all’estero, come il corso estivo che si è tenuto a El Escorial, e anche attraverso questi incontri in Italia, segna l’inizio di un percorso verso un nuovo paradigma per il pensare e l’agire sulla questione palestinese, nel quadro più generale della situazione politica internazionale caratterizzata dalle guerre in corso e da quelle imminenti.

Per dirla con Ilan Pappe "il tempo è scaduto!":

"Giunti al 40° anno di occupazione e al 60° anno dalla Nakba, dobbiamo dire che il tempo è scaduto E uno dei motivi principali per cui il tempo è scaduto è il fatto che noi siamo ancora incollati allo stesso discorso che i moderatori di pace in questa area ci hanno propinato da dieci o quindici anni. Stiamo ancora parlando di soluzione due-stati mentre dovremmo parlare di soluzione uno-stato. Stiamo ancora parlando della possibilità che i rifugiati rinuncino al loro diritto al ritorno, mentre noi dovremmo insistere che i rifugiati dovrebbero avere il diritto al ritorno. E stiamo ancora parlando di accordi parziali mentre dovremmo parlare di una soluzione globale della questione palestinese. Stiamo facendo tutte queste cose perchè alcuni di noi sembra pensino che questa è una posizione pratica, efficace che avvicinerebbe la possibilità di una pace, come se tutto ciò che è accaduto negli ultimi 20 anni indicasse che questa è la via giusta per andare avanti. Al contrario, noi dovremmo parlare un linguaggio diverso, dovremmo fissare altri obiettivi e dovremmo incominciare a perseguirli oggi, prima che sia troppo tardi.", da "Tempo scaduto", intervento alla seconda conferenza annuale a Bil’in, 18 aprile 2007.

Oppure seguendo Omar Barghouti:

"Soltanto ponendo fine al sistema israeliano di ingiustizia a tre livelli contro il popolo di Palestina può esserci una speranza per una pace durevole fondata su giustizia, eguaglianza e diritti universali. La soluzione di uno stato laico e democratico offre una possibilità reale per la de-sionizzazione o una decolonizzazione etica della Palestina, senza trasformare i palestinesi in oppressori dei loro precedenti oppressori e può porre fine al circolo vizioso scatenato dall’Olocausto.

Questa nuova Palestina de-sionizzata dovrebbe:

1) Permettere e facilitare il ritorno di tutti i profughi palestinesi e il loro risarcimento. Un tale processo deve però essere sempre accompagnato dall’imperativo morale di evitare di infliggere sofferenze ingiuste o non necessarie alla comunità ebraica in Palestina;

2) Garantire pieni, uguali e non equivoci diritti di cittadinanza a tutti i cittadini, palestinesi-arabi, inclusi i profughi, e ebrei-israeliani;

3) Riconoscere, legittimare ed anche nutrire le particolarità e le tradizioni, culturali, religiose ed etniche di ciascuna comunità.

Gli israeliani dovrebbero percepire la sfida morale dei palestinesi alla loro esistenza coloniale non come una minaccia esistenziale verso di loro, ma piuttosto come un magnanimo invito a smantellare il carattere coloniale dello Stato. Questo permetterebbe agli ebrei in Palestina di trasformarsi da colonizzatori in esseri umani e in cittadini eguali di uno stato laico democratico – una terra veramente promettente, piuttosto che una falsa Terra Promessa.", da "Israele: 60 Anni di Apartheid, di Colonialismo e d
i Pulizia Etnica – E’ tempo per l’alternativa di uno stato laico e democratico", ottobre 2007.

Il nuovo paradigma parte dalla constatazione che la soluzione "due popoli – due stati" è ormai "una patetica illusione o una crudele impostura". 

Da qui la necessità di pensare soluzioni, o, meglio, percorsi diversi che risolvano alla radice le tre forme di ingiustizia sionista contro il popolo palestinese, il rifiuto del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, l’occupazione militare, la colonizzazione e la repressione in Cisgiordania e a Gaza e la versione sionista di apartheid all’interno di Israele.

Percorsi come quello proposto da Omar Barghouti, Ilan Pappe e altri, di uno stato unico laico e democratico nella Palestina storica. Compito dei palestinesi e dei dissidenti radicali israeliani, non sionisti, ne è la definizione e la proposizione ai movimenti di solidarietà di ogni paese del mondo che devono assicurare il sostegno internazionale necessario, come si è cercato di fare con l’appello della società civile palestinese al boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS) del 9 luglio 2005.

 

3. Le attuali tendenze naziste secondo Giuliano Pontara

E innanzitutto necessaria è una riflessione sulla condizione della società mondiale e in particolare di quella occidentale all’inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio. A questo scopo può essere di aiuto, tra le tante, la lettura del saggio di Giuliano Pontara "L’antibarbarie – La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo", EGA 2006:.

In allegato riportiamo una parte del primo capitolo, della quale anticipiamo alcuni passi a nostro parere assai significativi.

"Il XX secolo è stato profondamente segnato dall’acuirsi di due processi strettamente congiunti: l’escalation della brutalizzazione e la globalizzazione della violenza. Agli inizi del XXI secolo non vi sono segni di arresto e inversione.

Molto fa ritenere che le componenti che assieme costituiscono la Weltanschauung nazista siano l’espressione estrema di strutture mentali, assunti, norme, valori a lungo presenti e coltivati non solo nella cultura tedesca, bensì più in generale nella cultura occidentale. Né si tratta di un fenomeno circoscritto allo specifico contesto dei dodici anni di dittatura hitleriana in Germania. A determinate condizioni le componenti che congiuntamente costituiscono il nocciolo duro dell’ideologia nazista si possono realizzare, singolarmente o tutte assieme, in altri contesti. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo… e dappertutto».

In effetti molte sono le situazioni che portano a pensare che diverse delle componenti essenziali del nazismo siano ancora oggi largamente presenti nel mondo, a Nord come a Sud, in Occidente come in Oriente. Non penso qui tanto ai vari gruppi neonazisti attivi in diversi Paesi e che si ispirano direttamente agli insegnamenti di Hitler, richiamandosi più o meno apertamente al suo nome. Penso piuttosto alla diffusione di modi di pensare, di concepire l’uomo e il mondo per vari versi simili a quelli propri del nazismo, alle strutture autoritarie e oppressive non molto dissimili da quelle naziste tuttora imperanti nel mondo, alle forme sempre più brutali e distruttive assunte dalla violenza armata dopo la caduta del nazismo in Germania e che, come già aveva rilevato Primo Levi, sembrano in parte diramarsi proprio dalla violenza dominante nella Germania di Hitler.

Nelle pagine che seguono cercherò di mettere brevemente e sinteticamente in luce ciascuna delle componenti che costituisce il nocciolo della Weltanschauung nazista, indicando di volta in volta come ciascuna di esse sia ancora ben presente nel mondo in tendenze naziste che costituiscono una grande minaccia per il futuro dell’umanità.

Ostacolare lo sviluppo di queste tendenze costituisce una delle maggiori sfide del secolo XXI.

1.3 La nuova barbarie: tendenze naziste oggi

Elenco riassuntivamente le componenti essenziali dell’ideologia nazista sulle quali nel resto di questo capitolo intendo incentrare il discorso. Esse sono otto:

a. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia;

b. il diritto assoluto del più forte;

c. lo svincolamento della politica da ogni limite morale;

d. l’elitismo;

e. il disprezzo per il debole;

f. la glorificazione della violenza;

g. il culto dell’obbedienza assoluta;

h. il dogmatismo fanatico."

4. Oslo e il collaborazionismo palestinese

Molti palestinesi hanno scritto sul collaborazionismo palestinese o meglio sul rapporto accordi di Oslo – collaborazionismo – corruzione.

Joseph Massad, professore associato di Politica e Storia Intellettuale del mondo Arabo moderno alla Columbia University ha scritto, in un articolo apparso su Al-Ahram Weekly del 15 -21 giugno 2006, dal titolo "L’(Anti-) Autorità Palestinese":

"Una delle misure più importanti che gli architetti Israeliani e Palestinesi degli accordi di Oslo hanno preso per garantire la sopravvivenza strutturale di quello che è stato conosciuto come il "processo di pace" di Oslo è stata la creazione di strutture, istituzioni e classi, che sarebbero state direttamente connesse ad esso e che potessero sopravvivere al collasso degli accordi di Oslo e al tempo stesso difendere il "processo" che gli accordi avevano prodotto.

Questa garanzia si era trasformata in legge, protetta dalle donazioni internazionali destinate alla continuazione del "processo di Oslo", fino a che questo continuava a servire gli interessi Israeliani e degli USA e allo stesso tempo gli interessi dell’elite Palestinese corrotta e complice.

Le cinque principali classi che gli architetti di Oslo hanno creato per assicurare che il "processo" sopravvivesse sono:

– Una classe politica divisa fra gli eletti per servire il processo di Oslo, sia nel Consiglio Legislativo o nel ramo esecutivo (essenzialmente la posizione del presidente dell’Autorità Palestinese) e coloro che sono stati nominati per servire gli eletti, sia nei ministeri sia nell’ufficio presidenziale.

– Una classe di polizia, formata da decine di migliaia di persone, il cui ruolo è quello di difendere il processo di Oslo contro tutti i Palestinesi che cercano di indebolirlo. Classe divisa in numerosi corpi di sicurezza e di intelligence in competizione l’uno con l’altro, ciascuno rivaleggiando con l’altro per dimostrare che è il più adatto a neutralizzare ogni minaccia al processo di Oslo. Sotto l’Autorità di Arafat, membri di questa classe inaugurarono la loro attività sparando e uccidendo, a Gaza nel 1994, 14 Palestinesi che essi ritenevano nemici del "processo" – un risultato che guadagnò loro il rispetto iniziale degli Americani e degli Israeliani che insistevano che i "servizi" avrebbero dovuto usare più repressione di quella per essere ancora più efficaci.

– Una classe burocratica legata a quella politica e a quella di polizia e che costituisce un corpo amministrativo di decine di migliaia di persone che eseguono gli ordini degli eletti e di quelli assunti per servire il "processo".

– Una classe di ONG: un’altra classe burocratica e tecnica i cui finanziamenti dipendono completamente dal servire il processo di Oslo e assicurare il suo successo attraverso attività di planning e di fornitura di servizi.

– Una classe di uomini d’affari composta di uomini d’affari emigrati ma anche locali – inclusi in particolare membri della classe politica, di quella di polizia e di quella burocratica – i cui redditi derivano dall’investimento finanziario nel processo di Oslo e da tutti gli affari profit-making che l’Autorità Palestinese ha reso possibile."

Numerosi sono gli articoli e le pubblicazioni sul collaborazionismo palestinese.

Risale a tempi non sospetti l’articolo "The road of collaboration" di Tanya Reinhart, ‘Yediot Aharonot’ April 7, ‘97,http://www.tau.ac.il/~reinhart/political/TheRoadOfCollaboration.html.

Oppure gli atti di un workshop tenutosi a cura di PASSIA (Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs) a Gerusalemme il 5 febbraio 2001, "The Phenomenon of collaborators in Palestine".

 

5. La deriva e il collaborazionismo occidentale

L’elenco di Joseph Massad ci permette di mettere in evidenza che esistono in occidente gruppi o classi o istituzioni di collaborazionisti con Israele che svolgono un ruolo equivalente e parallelo:

l’Unione Europea, i governi europei, i partiti politici (quasi tutti) e i sindacati (tutti, almeno quelli grandi, in Italia)

le organizzazioni militari e di intelligence

i burocrati che obbediscono agli ordini dei governi, dei partiti e dei sindacati

il pullulare di ONG di destra-centro-sinistra

gli uomini d’affari e non solo, diciamo il mondo economico occidentale che intrattiene con Israele strettissimi rapporti di collaborazione

L’Italia con 515 milioni di dollari è il quarto partner commerciale di Israele dopo gli USA (1.537), la Germania (830) e la Cina (764).

Il collaborazionismo si può esprimere in modo attivo e anche in modo subdolo e passivo, mettendo in sordina il problema del conflitto israelo-palestinese e/o cercando di dividere, di indebolire e di demonizzare le posizioni critiche.

Se il collaborazionismo palestinese è direttamente legato agli accordi di Oslo, quello occidentale è legato a quella che si può chiamare una vera e propria deriva dell’occidente che a tutti i livelli ha finito per introiettare le idee dei neocons USA anche adottandone la neolingua. Ad esempio, non si è solo contro la guerra, ma si è "contro la guerra e contro il terrorismo!". Oppure in una manifestazione romana si sono invitate le armi a tacere!

I partiti dell’Unione e le grandi organizzazioni sindacali hanno di fatto cancellato dalla loro agenda il problema Palestina, facendo proprie le equazioni "Israele=democrazia" e "Palestinesi=terrorismo+fondamentalismo islamico".

Emerge in modo preoccupante un gravissimo inquinamento prodotto anche a sinistra dalle teorie dei neocons americani e l’emergere di una strisciante cultura neocoloniale. E’ una deriva a destra pericolosissima perché alimenta indirettamente quello stesso "scontro di civiltà" che a parole tutti sembrano deprecare, salvo poi prendersela con i lavavetri e, più in generale, con i "diversi".

I paesi del G7 che rappresentano l’11,5 % della popolazione mondiale consumano il 50 – 55 % delle risorse energetiche mondiali e spendono per assicurarsi lo sfruttamento di queste e di altre risorse l’80-85% (se non di più) delle spese mondiali per armamenti.

Difendono con ogni mezzo "il proprio tenore di vita", attraverso l’aggressione militare e ogni altro tipo di condizionamento politico.

Di qui la deriva militaristica, l’aumento delle spese militari, il compattamento sulla politica USA-Israele dell’Europa, del governo Berlusconi prima e di quello attuale poi in Italia. Anche la Francia ha rinunciato, con Sarkozy, alla sua caratteristica di paese non necessariamente e non sempre allineato con gli USA.

In Italia la costituzione del partito democratico sposta ulteriormente a destra l’asse della politica interna e internazionale. Veltroni non è filoamericano solo per le sue passioni cinematografiche, né filoisraeliano solo perché ha ospitato le maccabiadi (un evento sportivo simile ai Giochi Olimpici, nato in ambiente ebraico e organizzato in Israele ed in Europa).

Lo è perché condivide pienamente e servilmente la politica USA-Israele.

A parte qualche battuta del ministro degli esteri, dovuta alla sua nota propensione al sarcasmo, battute trasformate con disinvoltura dai media nella prova provata di una nuova politica italiana anti-USA e anti-tutto, la politica estera italiana è quella descritta da Danilo Zolo: "Nel suo discorso al Senato, D’Alema è stato molto esplicito: la sua politica estera ambisce alla "continuità", non alla discontinuità e all’innovazione. Certo, qualche elemento di differenziazione rispetto al governo Berlusconi è emerso nelle sue dichiarazioni, ma in un contesto chiaramente bipartisan. Il suo stile di pensiero potrebbe essere detto "andreottiano" per la sistematica contaminazione fra il riferimento a valori ideali – la pace e l’art. 11 della Costituzione, ad esempio – e un realismo politico che talora tende al cinismo. Come dimenticare la sua fervida adesione, da Presidente del Consiglio, alla guerra della Nato del 1999 contro la Repubblica Jugoslava, in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e della Costituzione italiana?

La "continuità" proclamata da D’Alema comporta una ferma professione di fede atlantica, cui si aggiungono l’apologia della "grande democrazia" statunitense – considerata il "cardine della politica estera italiana" – e un’immagine sbiadita delle funzioni internazionali dell’Europa. Su tutto emerge, come un refrain d’altri tempi, un’idea del "prestigio dell’Italia" come un paese in grado di farsi valere, di essere presente nei luoghi dove, anche al di fuori di regole democratiche, si decidono le sorti dell’umanità. L’Italia deve essere un paese i cui leaders siano "riconoscibili, prevedibili e autorevoli" nelle cancellerie del potere mondiale. Si tratta di una sorta di narcisismo nazionalistico che pretende di fare dell’Italia una grande potenza dislocando ovunque nel mondo qualche spezzone delle sue milizie: dalla Bosnia al Kosovo, al Libano, a Timor Est, all’Afghanistan, e magari alla Palestina. E lo fa nel quadro di un disciplinato ossequio alle aspettative strategiche della superpotenza americana che si propone di dominare il mondo grazie al suo strapotere militare e di reprimere con la forza la replica sanguinaria del "terrorismo globale". E’ una visione strategica poco lucida, poiché non intravede i grandi movimenti che stanno trasformando in radice i rapporti di forza internazionali.", da "La politica estera italiana e l’egemonia mondiale degli Stati Uniti" di Danilo Zolo, Liberazione 26 febbraio 2007.

E sulle missioni all’estero da parte della sinistra detta "radicale" è stato forse ottenuta una qualche minima "riduzione del danno"? Ci è toccato anche assistere allo spettacolo di un deputato del PRC, italiano e palestinese, che vota a favore del rifinanziamento della missione militare, "naturalmente di pace", in Afghanistan.

E più filoisraeliani non si può, fino a superare ogni ipocrisia e ogni cinismo: il presidente della repubblica: "antisionismo = antisemitismo"; il presidente della camera recatosi a Ramallah spiega ai palestinesi che "Israele è un luogo dello spirito"; mentre il presidente del consiglio, "Israele ha il diritto di essere uno stato ebraico", (incontro del 13 dicembre a Roma con Olmert), per finire nella dimensione del ridicolo con il segretario del PRC che è arrivato a parlare di un "rigurgito di antisionismo" (sic!).

A Kamal, comunista palestinese che vive a Betlemme, ogni volta che ricorda le visite di Achille Occhetto, andato a spiegare ai comunisti palestinesi, ignari e "ignoranti" della storia, che il sionismo è un movimento di liberazione nazionale, gli si rizzano manifestamente i capelli!.

"Grandi movimenti stanno trasformando in radice i rapporti di forza internazionali".

A questi movimenti è necessario dedicare la massima attenzione per definire i termini della battaglia politica contro la politica estera italiana e europea, riflettendo anche su questa affermazione di Gaetano Arfè, storico del movimento socialista italiano recentemente scomparso: " ….. va detto a chiare lettere che bisogna sbarazzare il terreno di quella parola insulsa e vuota che ha nome riformismo. Non c’è riforma che possa dar pane agli affamati del mondo, non c’è riforma che possa bloccare gli uragani e fermare lo scioglimento dei ghiacci, che possa impedire la desertificazione del pianeta, non c’è riforma che possa spegnere le guerre, i terrorismi, i genocidi. E per questo bisogna aggredire i miti omicidi che oggi egemonizzano il mondo e ne indirizzano le politiche: il culto idolatra del mercato che contiene, nella sua dottrina e nella sua pratica, la negazione di ogni diritto, anche quello di vivere, all’essere umano; lo sviluppo che ha cessato di essere, in tutti i campi,"compatibile"per cui ogni progresso su questa via è un colpo dato alla possibilità di sopravvivenza dei nostri figli e dei nostri nipoti; la competitività intesa e praticata come la legittimazione della bestialità nei rapporti sociali e umani.", da "Cinquantadue anni dopo" di Gaetano Arfè, Il Ponte – Novembre 2005.

6. Il movimento di solidarietà italiano e europeo

Il movimento di solidarietà italiano e europeo è profondamente diviso e in crisi, una crisi profonda che solo in piccola parte è il riflesso della crisi palestinese.

Per semplificare, ripeto solo per esemplificare, il movimento di solidarietà italiano si divide tra quelli che il 18 novembre 2006 sono andati a Roma alla manifestazione promossa dal Forumpalestina e quelli che sono andati alla manifestazione di Milano, ("the so-called no-solidarity movement!").

Sulle ambiguità delle actionforpeace italiane o delle eccp europee (The European Co-ordinating Committee of NGOs on the Question of Palestine – ECCP) non vale la pena soffermarsi. E’ sufficiente ricordare che il 9 luglio 2005 in concomitanza con l’appello BDS palestinese, l’ECCP, di cui fanno parte le actionforpeace italiane, ha lanciato una petizione per la raccolta di firme per sanzioni dell’UE contro Israele, riuscendo a raccogliere in più di un anno meno di 2.000 firme che ovviamente non hanno indotto la UE ad alcuna modifica della sua politica filoisraeliana, boicottando allo stesso tempo, le actionforpeace italiane e le eccp europee, in modo sistematico, l’appello BDS palestinese, per poi alla fine farlo proprio solo a parole, per convenienza e per evitare una rottura con le organizzazioni palestinesi più presenti e attive (ma su questo punto torneremo in altra sede).

Basta ricordare che la manifestazione di Milano si è conclusa con la visita, da parte del promoter (l’ineffabile organizzatore di marce una volta per la pace e ora per i diritti, capace di far rivoltare nella tomba non solo Aldo Capitini ma anche lo stesso poverello di Assisi) e di altri, ai "nostri amici ebrei", organizzatori della mostra, a dir poco "infame", "Israele Arte e Vita", patrocinata dal re di maggio, il napoletano Napolitano, e sponsorizzata allegramente dai formigonipenatimorattisgarbi. Mostra ipersionista nella quale giganteggiavano (nell’infamia) le rivisitazioni dell’ultima cena (quella del nostro leonardo da vinci) e della pietà (quella del nostro michelangelo buonarroti), dove apostoli, madonne e gesùcristi erano sostituiti da soldati israeliani!

Il Penati non soddisfatto, oltre ad accordi con Israele per lo sviluppo di nanotecnologie necessarie allo Shimon Peres per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma contro le popolazioni civili, ha anche finanziato la distribuzione alle scuole della provincia di milano di due libretti, uno sulla storia e uno sulla democrazia israeliana, due pamphlet di propaganda che più bieca non si sarebbe potuto.

La deriva verso il business umanitario è evidente, fameliche le ONG di destra-centro-sinistra, mentre il lancio di campagne, con questo o l’altro obiettivo sempre parziale, sempre più numerose quanto improduttive di ogni minimo risultato, è un segnale evidente che si cercano solo alibi.

E’ infatti assai difficile che chi fa riferimento a partiti filoisraeliani o chi si considera filosionista-ma-di-sinistra, possa sostenere iniziative che non comportino o la tranquillizzante presenza di almeno un israeliano accanto a un palestinese o il ripetersi di rituali decotti.

La campagna "lapalestinahabisognodinoinoiabbiamobisognodellapalestina", promossa da 5 tra giornali e riviste di "sinistra", nel luglio 2006 è un esempio emblematico di come l’industria del processo di pace legata al processo di Oslo, con il suo turismo, il suo business umanitario et similia, abbia prodotto inquinamenti morali, culturali e politici.

Ma è comunque opportuno seguire e intervenire nel dibattito che si è aperto, non certamente al vertice del "so-called no-solidarity movement", costituito da burocrati di varia natura, ma tra molte e molti che fino ad ora hanno preferito far riferimento o partecipare alle sue iniziative, iniziative le cui contraddizioni e ambiguità sono sempre più evidenti.

Le nostre responsabilità

A 60 anni dalla Nakba e a 40 anni dalla guerra del 1967 anche per il movimento di solidarietà (quello che per intenderci è andato a Roma e non a Milano) il tempo è scaduto.

Una valutazione autocritica è necessaria.

La ripresa di un dibattito a tutto campo fondamentale.

Non sono mancate e non mancano iniziative generose.

Ma i risultati politici ottenuti in Italia e in Europa sono nulli.

Né il bruciare bandiere, siano esse israeliane, americane o italiane, sembra essere di una qualche efficacia, al di là della manifestazione epidermica di una indignazione più che giustificata.

Non c’è un appello, non c’è una campagna che abbia ottenuto un risultato politico degno di nota, se non quello di dimostrare ai palestinesi che c’è qualcuno nella sinistra italiana e europea che non soffre della sindrome della quadratura del cerchio, che porta molti, nel "so-called no-solidarity movement", a credere che si possa essere, tranquillamente e allo stesso tempo, filopalestinesi e filosionisti.

ISM-Italia, che è stata costituita all’inizio del 2006 con l’obiettivo di promuovere l’appello BDS, non ha difficoltà a riconoscere di non essere ancora riuscita ad impostare una campagna di boicottaggio degna di questo nome, a differenza di quanto sta capitando in altri paesi.

Ma molte
iniziative, come quelle promosse, ad esempio, dalla associazione "Per non dimenticare Sabra e Chatila", un esempio questo che ci permette di ricordare ancora una volta Stefano Chiarini, non politicamente equivoche, sono almeno riuscite a dimostrare che esiste in Italia e in Europa una solidarietà morale e politica autentica con il popolo palestinese.

Last but not least, il nostro compito non è certo quello di prendere posizione a favore di questo o di quel partito palestinese, ma di affermare, ad esempio, la piena legittimità del governo di Change and Reform (Hamas) eletto regolarmente nel gennaio 2006 (nemmeno gwbush ha avuto nulla da ridire, malgrado la innegabile faccia bronzea, forse memore dei trucchi in Florida), ma boicottato con ferocia dai paesi occidentali in combutta con Israele.

Per dirla con Ilan Pappe e Tanya Reinhart, "sfortunatamente per noi della sinistra, Hamas e Hizbollah, non sono della nostra cultura, ma sono gli unici movimenti di resistenza in Palestina e in Libano contro Israele-USA."

Nostro compito è anche quello di amplificare la denuncia che da parte palestinese, in forme diverse, (Omar Barghouti, Joseph Massad, Ali Abuminah, Wasim Dahmash e altri) è stata formulata contro i quisling palestinesi che fanno capo ad Abu Mazen.

Di Wasim Dahmash invitiamo a leggere, o a rileggere, il lucidissimo articolo "Continuo a credere nell’azione di massa, cosciente, costante, meticolosa, democratica, come nel 1987", pubblicato su "L’Ernesto" e ripreso sul sito di Forumpalestina:

http://www.forumpalestina.org/news/2007/Ottobre07/19-10-07AzioneDiMassa.htm, recentemente distribuito anche da ISM-Italia.

L’articolo di Wasim Dahmash è stato anche tradotto in francese e pubblicato sul sito www.ism-france.org.

8. Call for action

Diceva Rosa Luxemburg che abbiamo molte cose da fare ma, soprattutto, molte cose da studiare.

Nel periodo che va dal 29 novembre 2007, a 60 anni dalla risoluzione 181 di partizione, al 14 maggio 2008, 60 anni dalla costituzione dello stato di Israele, abbiamo proprio molto da fare e molto da studiare per impedire che questi mesi siano dedicati alla celebrazione della nascita dello Stato di Israele e non alla commemorazione della Nakba, cioè dell’inizio della pulizia etnica palestinese, commemorazione non fine a se stessa, ma tesa a ripensare i modi di un sostegno più efficace alla lotta palestinese.

Le ambasciate israeliane si stanno già muovendo in tutti i paesi; in Italia contattando i condiscendenti enti locali oltre che il governo. Conosciamo gli accordi, di turpe natura, di cooperazione militare o di collaborazione in ogni campo, fanno testo per la dimensione dell’infamia quelli delle regioni rosse (o ex-rosse) con il centro Peres.

Troveranno porte aperte.

Per quel che ci riguarda a fine novembre 2007 dovrebbe uscire, per i tipi della Jaca Book, "Palestina: Quale futuro? – La fine della soluzione dei due stati", a cura di Jamil Hilal, Ilan Pappe. Altri strumenti di conoscenza, di informazione e di dibattito possono essere messi a punto.

Ad esempio l’associazione di amicizia Italia-Palestina di Brescia ha programmato a partire dal 27 ottobre tre incontri, "Dalla nascita del sionismo alla proclamazione dello Stato d’Israele", "Dalla proclamazione dello stato d’Israele ad oggi" e "Quali prospettive per la Palestina?", riassunti sotto il titolo "LA QUESTIONE PALESTINESE – percorso storico-politico sul conflitto arabo-israeliano".

E’ una iniziativa che potrebbe essere estesa ad altre città.

Perchè non organizzare al più presto una assemblea di Forumpalestina a Firenze nel dopolavoro ferroviario, dove nel passato se ne sono tenute alcune?

Un modo anche questo per ricordare concretamente Stefano Chiarini.

Rispetto alle iniziative filoisraeliane bisognerebbe organizzare un monitoraggio in modo da definire di volta in volta le iniziative necessarie e/o opportune.

A Torino è stato chiesto ai responsabili della Fiera Internazionale del Libro di riesaminare l’intenzione-decisione di porre lo stato di Israele al centro dell’edizione 2008.

Il corso estivo di El Escorial avrà un primo seguito a Londra nei giorni 17 e 18 novembre con una conferenza "Challenging the Boundaries: A Single State in Palestine/Israel".

Una iniziativa analoga dovrebbe essere organizzata nel 2008 in Italia.

Quelle indicate sono solo esemplificazioni di iniziative possibili.

A tutte e a tutti il compito di completare il quadro.

Alfredo Tradardi – ISM-Italia

Torino, 30 ottobre 2007

9. Allegato: Della barbarie* di Giuliano Pontara

1.1 L’escalation della barbarie

Il XX secolo è stato profondamente segnato dall’ acuirsi di due processi strettamente congiunti: l’escalation della brutalizzazione e la globalizzazione della violenza. Agli inizi del XXI secolo non vi sono segni di arresto e inversione.

Tutti e due questi processi vengono da lontano: dai massacri imperialisti e razzisti perpetrati dagli spagnoli e dai portoghesi in America Latina e da altri europei nell’ America del Nord; da quelli perpetrati dagli inglesi, dai francesi, dai belgi, dai tedeschi e, in ritardo su questi, dagli italiani in Africa; dalla "missione civilizzatrice" degli inglesi in India, i quali alternarono l’uso della violenza armata e delle carestie per tenere l’intero subcontinente sotto il loro dispotico dominio.

I massacri colonialisti sono perpetrati da eserciti dotati di armi nettamente superiori e molto più distruttive di quelle di cui dispongono le popolazioni che cercano di resistere. Verso la fine dell’Ottocento sono inventate e adottate le prime mitragliatrici, prima semiautomatiche, poi automatiche. Nel 1885 l’esercito dell’impero britannico viene dotato della mitragliatrice automatica portabile Hiram Maxim, fornita di una capacità di fuoco tra i 500 e i 600 colpi il minuto. Nel 1898 l’uso di questa mitragliatrice fu decisivo nella battaglia di Ondurman, in Sudan, nella quale le truppe inglesi affogarono nel sangue i guerriglieri del movimento indipendentista che si era sviluppato nel Paese sotto la guida di Muhammad ibn Abd Allah (normalmente noto come Abdullahi). Nella battaglia furono massacrati 22.000 sudanesi, altri 20.000 furono feriti. I morti tra le file dell’esercito coloniale inglese furono 48. II giovane Winston Churchill, futuro primo ministro inglese, presente alla battaglia come corrispondente di guerra, descrive il fuoco «fermo e insistente» dei soldati che, «interessati al loro lavoro» e «minuziosi nell’espletamento di esso», sparavano «senza fretta e senza eccitazione», con la nuova mitragliatrice Hiram Maxim su un «nemico lontano» che non poteva colpirli. Churchill chiama la nuova arma automatica di distruzione un’«arma di civilizzazione»l.

Sono omicidi di massa di questo tipo a preparare quella che un noto storico contemporaneo ha chiamato «l’età dei massacri»2, tuttora in corso, iniziata con la Prima guerra mondiale, durante la quale centinaia di migliaia di soldati dei "Paesi civili" si massacrarono reciprocamente su scala industriale per quasi cinque anni: solo nella battaglia di Verdun, nel 1915 , i tedeschi uccisero 315.000 francesi e i francesi a loro volta trucidarono 280.000 tedeschi. Con la Prima guerra mondiale si rinforza un militarismo profondame
nte legato a grandi e potenti interessi economici e di classe. Di pari passo, e favorito dagli sviluppi sempre più rapidi della scienza e della tecnologia, si intensifica un processo sempre più serrato di corsa ad armamenti sempre più distruttivi che inghiotte somme sempre più astronomiche: tra le nuove mitragliatrici usate nella Prima guerra mondiale (dopo che prototipi erano stati provati contro i "barbari incivili" nei massacri coloniali) e lo sganciamento delle due bombe nucleari sul Giappone intercorrono solo una trentina d’anni. Molti meno ce ne vorranno per sviluppare e costruire su scala industriale sistemi di armi termonucleari, chimiche e biologiche con le quali è possibile distruggere l’intero genere umano, o gran parte di esso.

Contemporaneamente, causa ed effetto dell’ escalation della violenza, con la Prima guerra mondiale si innesca un rapido processo di vasta brutalizzazione, di crescente e sempre più largamente condivisa accettazione di forme di violenza precedentemente di regola non accettate e giudicate inaccettabili. Attraverso il blocco economico della Germania, efficacemente realizzato dalla flotta britannica per l’intera durata della guerra, lo sforzo bellico viene per la prima volta direttamente rivolto contro la popolazione civile allo scopo di abbatterne il morale. Le stime dei civili che morirono a causa della penuria di risorse essenziali causata dal blocco navale britannico variano da una cifra massima di 800.000 a una minima di 424.0004. Esso costituisce l’inizio della guerra come carneficina indiscriminata di combattenti e civili, perpetrata su scala industriale. L’invenzione e costruzione su larga scala dell’aereo rende possibile i bombardamenti terroristici diretti contro la popolazione civile, i primi dei quali si verificarono già verso la fine della Prima guerra mondiale. Fatti inizialmente oggetto di un’ondata di proteste, questi bombardamenti vennero in seguito sempre più accettati e sanzionati come parte integrante della guerra, diventando fatto giornaliero durante la Seconda.

Nel XX secolo la guerra, compresa quella "civile", è dunque diventata totale. La percentuale dei civili uccisi in guerra non ha fatto che crescere: alla fine dell’Ottocento è il 5%; nelle guerre di fine Novecento è il 90%5. Molte delle vittime sono bambini: soltanto nel corso dei vari conflitti violenti che hanno infestato varie regioni del pianeta negli ultimi quindici anni i bambini uccisi, resi invalidi, orfani, profondamente traumatizzati si contano a milioni. Alla fine degli anni Novanta esistevano oltre 110 milioni di mine attive disseminate in una settantina di Paesi martoriati da conflitti violenti6; è stato calcolato che in media ogni mese 2.000 persone pestano una di queste mine e vengono uccise o rese invalide per il resto della vita. Aveva ragione il militarista Karl von Clausewitz quando scriveva che «gli spiriti umani potrebbero pensare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza occorre distruggere tale errore. La guerra è un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutuamente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo»7. A massacri avvenuti, e suggellati dalle carneficine di civili causate dai bombardamenti atomici con cui gli Stati Uniti rasero al suolo le città di Hiroshima e Nagasaki e da quello "tradizionale" con cui gli alleati, a guerra praticamente conclusa e vinta, distrussero nel fuoco la città di Dresda, «i popoli della terra», nauseati dal sangue che arriva fino alle ginocchia, si dichiarano solennemente «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra»8. Ma il flagello continua attraverso una serie di guerre locali, alcune delle quali assumono dimensioni mondiali in quanto coinvolgono, direttamente o indirettamente, le maggiori potenze militari del pianeta: guerra di Corea, guerra di Indocina, guerra del Vietnam, guerra di Algeria, guerre in Africa, guerre balcaniche, guerre in Aghanistan, guerre in Iraq, guerre in Libano. Appare così un nuovo fenomeno: la crescente globalizzazione e internazionalizzazione del terrorismo non statale (quello di Stato è ben più antico e massiccio) favorito dalla globalizzazione del mercato, legale e nero, delle armi, dai nuovi fondamentalismi religiosi, ma anche da geopolitiche neo-imperialiste e dall’enorme iniquità nella distribuzione delle risorse nel mondo.

A suo tempo, Karl Marx, con una metafora divenuta celebre, poteva parlare della violenza come ostetrica della storia, come lo strumento attraverso il quale lo sviluppo storico si apre la strada, abbattendo vecchie e pietrificate strutture, verso forme sempre più aperte, meno violente e più umane di società. Oggi c’è il rischio che la metafora più calzante sia un’altra: quella della violenza come becchino della storia.

1.2 La barbarie nazista

I vasti processi di brutalizzazione e globalizzazione della violenza, innescati dai massacri imperialisti nel mondo extraeuropeo, e ulteriormente sviluppati nel corso della Prima guerra mondiale, favoriscono l’affermarsi del nazismo, una sistematica (anche se incoerente) ideologia della violenza e prassi metodica di essa come fine e come mezzo, che, a sua volta, fornisce combustibile a un ulteriore imbarbarimento.

Inteso come ideologia – Weltanschauung la chiamavano i suoi fautori – il nazismo è un misto di nazionalismo tribale, di darwinismo sociale e di elitismo conditi con idee sul superuomo e la volontà di potenza provenienti da Nietzsche (dai lati più oscuri del suo pensiero) e con la tendenza, di provenienza hegeliana, a concepire un popolo, una nazione come un’entità metafisica. Così inteso, il nazismo si articola in una costellazione di interconnesse componenti che si manifestano sia a livello verbale (a questo livello la bibbia del nazismo rimane pur sempre il Mein Kampf di Hitler), sia a livello comportamentale, attraverso atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi estremamente violenti e brutali, sia a livello strutturale in istituzioni e strutture che promuovono distribuzioni inique di potere e autorità nel sistema sociale e di risorse e ricchezza a livello economico.

Molto fa ritenere che le componenti che assieme costituiscono la Weltanschauung nazista siano l’espressione estrema di strutture mentali, assunti, norme, valori a lungo presenti e coltivati non solo nella cultura tedesca, bensì più in generale nella cultura occidentale9. Né si tratta di un fenomeno circoscritto allo specifico contesto dei dodici anni di dittatura hitleriana in Germania. A determinate condizioni le componenti che congiuntamente costituiscono il nocciolo duro dell’ideologia nazista si possono realizzare, singolarmente o tutte assieme, in altri contesti. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo… e dappertutto»10.

In effetti molte sono le situazioni che portano a pensare che diverse delle componenti essenziali del nazismo siano ancora oggi largamente presenti nel mondo, a Nord come a Sud, in Occidente come in Oriente. Non penso qui tanto ai vari gruppi neonazisti attivi in diversi Paesi e che si ispirano direttamente agli insegnamenti di Hitler, richiamandosi più o meno apertamente al suo nome. Penso piuttosto alla diffusione di modi di pensare, di concepire l’uomo e il mondo per vari versi simili a quelli propri del nazismo, alle strutture autoritarie e oppressive non molto dissimili da quelle naziste tuttora imperanti nel mondo, alle forme sempre più brutali e distruttive assunte dalla violenza armata dopo la caduta del nazismo in Germania e che, come già aveva rilevato Primo Levi, sembrano in parte diramarsi proprio dalla violenza dominante nella Germania di Hitler11
.

Nelle pagine che seguono cercherò di mettere brevemente e sinteticamente in luce ciascuna delle componenti che costituisce il nocciolo della Weltanschauung nazista12, indicando di volta in volta come ciascuna di esse sia ancora ben presente nel mondo in tendenze naziste che costituiscono una grande minaccia per il futuro dell’umanità.

Ostacolare lo sviluppo di queste tendenze costituisce una delle maggiori sfide del secolo XXI.

1.3 La nuova barbarie: tendenze naziste oggi

Elenco riassuntivamente le componenti essenziali dell’ideologia nazista sulle quali nel resto di questo capitolo intendo incentrare il discorso. Esse sono otto:

a. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia;

b. il diritto assoluto del più forte;

c. lo svincolamento della politica da ogni limite morale;

d. l’elitismo;

e. il disprezzo per il debole;

f. la glorificazione della violenza;

g. il culto dell’obbedienza assoluta;

h. il dogmatismo fanatico.

*Ho presentato una versione parziale e ridotta di questo capitolo in una delle riunioni del ciclo di seminari sulla pace e la guerra organizzati presso l’Università di Cagliari nel novembre-dicembre del 2004. Il testo presentato in quell’occasione è stato pubblicato, insieme ai testi presentati dagli altri relatori, nel volume La pace e la guerra. Guerra giusta e filosofia della pace, a cura di A. Loche, Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana, Cagliari 2005.

(1) J W. Churchill, The River War: An Historical Account of the Reconquest of the Sudan, Green Longmans, London 1899 (tr. it. Riconquistare Khartoum, Piemme, Casale Monferrato 1999). .

(2) E. Hobsbawm, The Age of Extremes, Abacus, London 1995, p. 24 (tr. it. Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1997).

(3) S. Robson, La prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2002, p. 89 (ed. orig. The First World War, Longman, London-New York 1998).

(4) J. Glover, Humanity. Una storia morale del ventesimo secolo, Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 90-91 (ed. orig. Humanity. A Moral History of the Twentieth Century, Pirnlico, London 2(01).

(5) UNDP, Human Development Report, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 35.

(6) Ivi.

(7) K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, pp. 21-22.

(8) Preambolo della Carta delle Nazioni Unite.

(9) Lo storico Enzo Traverso argomenta bene questa tesi nel suo lavoro La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002.

(10) P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 164.

(11) lvi, p. 165.

(12) Per una dettagliata analisi delle molteplici componenti che costituiscono la Weltanschauung nazista cfr. la meticolosa ricostruzione dell’intera ideologia fatta da H. Ofstad in Our Contempt for Weakness: Nazi Norms and Values – and Our Own, Almqvist & Wiksell International, Stockholm 1989 (ed. orig. in norvegese, Var forakt for svakhet, Pax Forlag, Oslo 1971). Debbo molto a questa analisi. Cfr. anche l’intera parte VI del lavoro di Glover, op. cit.

 

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L’International Solidarity Movement (ISM www.palsolidarity.org) è un movimento palestinese impegnato a resistere all’occupazione israeliana usando i metodi e i principi dell’azione-diretta non violenta. Fondato da un piccolo gruppo di attivisti nel 2001,  ISM ha l’obiettivo di sostenere e rafforzare la resistenza popolare assicurando al popolo palestinese la protezione internazionale e una voce con la quale resistere in modo nonviolento alla schiacciante forza militare israeliana di occupazione.

L’ISM –Italia è, per il suo stesso statuto, per i metodi di azione diretta non-violenta, come il boicottaggio, senza però negare in nessun modo il diritto dei popoli oppressi alla resistenza armata, che noi occidentali non abbiamo nessuna autorità morale né per giudicare né per condannare anche quando imita le forme più brutali con le quali abbiamo imposto e continuiamo a imporre il nostro dominio coloniale.

 

 

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