Israele dà il via alla più grande espulsione di palestinesi degli ultimi decenni

Valigiablu.it. Di Roberta Aiello.

Demolire. Ancora e ancora. Mercoledì 1 giugno l’esercito israeliano è tornato dove era già stato qualche settimana prima. Lì dove aveva distrutto le abitazioni di 45 persone stavolta ha eliminato le tende in cui si riparavano 21 residenti, rimasti senza casa, di al-Markaz e Fakheit, due villaggi di Masafer Yatta, una zona a sud di Hebron, nell’area C della Cisgiordania.

Dopo una prima demolizione avvenuta a maggio, l’amministrazione civile – il braccio operativo del governo militare israeliano che governa 2,8 milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata – è tornata a distruggere quello che ha trovato nello stesso punto in cui aveva raso tutto al suolo. Non c’è bisogno di un ordine, né di procedimenti legali. Si esegue. Si abbatte.

Per +972 Magazine i militari hanno cercato di impedire ai giornalisti di documentare quanto stesse accadendo. La zona è militare, l’ingresso è vietato. Un ufficiale avrebbe minacciato con la forza di arrestare Basil al-Adraa, un reporter della testata giornalistica indipendente, se non avesse lasciato la zona, nonostante si fosse identificato come giornalista e avesse mostrato il tesserino.

Alcune delle famiglie rimaste senza casa, e adesso anche senza tenda, dormiranno nelle grotte naturali le cui condizioni all’interno sono notevolmente deteriorate nel tempo. Ma altra scelta non c’è. Anche perché i residenti dei villaggi di Masafer Yatta non hanno alcuna intenzione di andarsene.

L’ondata di demolizioni arriva all’indomani di una sentenza della Corte suprema del 4 maggio. Dopo decenni di abbattimenti, ricostruzioni e una battaglia legale durata più di 20 anni l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto il ricorso per fermare lo sgombero di Masafer Yatta attribuendo all’esercito quell’area – dichiarata nel 1981 Zona di tiro 918, adibita a poligono – autorizzandolo, di fatto, a procedere con l’espulsione permanente di circa 1.300 palestinesi da otto dei dodici villaggi. Oltre a ciò ha disposto il pagamento di 20.000 shekel (poco più di 5.500,00 euro) a carico dei ricorrenti palestinesi.

Meno di una settimana dopo sono iniziati gli abbattimenti, segnando l’inizio di quella che secondo gli attivisti sarà probabilmente la più grande espulsione di massa di palestinesi dalla Cisgiordania occupata dalla guerra del 1967, quando in centinaia di migliaia fuggirono o furono cacciati dalle loro terre occupate da Israele.

In una dichiarazione, le forze di difesa israeliane (IDF) hanno affermato che le demolizioni sono la risposta al procedimento condotto per decenni dall’Alta Corte e alla sua decisione unanime in favore dell’esercito. Per tutti e tre i giudici del massimo organo di giustizia israeliano, David Mintz, Ofer Grosskopf e Isaac Amit, quei territori non appartengono a chi li abitava.

“La Corte suprema ha pienamente accettato la posizione dello Stato di Israele e ha stabilito che i ricorrenti non fossero residenti permanenti nell’area”, si legge nella nota. “La Corte ha inoltre osservato che i ricorrenti hanno respinto qualsiasi tentativo di compromesso che gli è stato offerto”, prosegue l’IDF.

Difficile, però, immaginare di lavorare nei campi soltanto durante i fine settimana e nelle festività ebraiche e per due mesi non consecutivi all’anno. Ed è per questo che la comunità di Masafer Yatta ha rifiutato esplicitamente l’accordo, per l’impossibilità di sostenere con queste modalità le attività agricole e guadagnarsi da vivere.

I residenti di Jinba, uno dei dodici villaggi di Masafer Yatta, hanno spiegato di essersi opposti a qualsiasi proposta perché residenti in quell’area da prima che Israele occupasse la Cisgiordania nella guerra del 1967.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, le grotte naturali sulle colline di Hebron sono abitate almeno dal 1830. Si tratta di rifugi usati come abitazioni che permettono l’allevamento di pecore e capre nella zona circostante per la produzione di latte e formaggio. La maggior parte dei prodotti è utilizzata per consumo domestico e per le greggi, mentre l’eccedenza viene venduta.

Issa Abu Eram è nato in una di quelle grotte naturali 48 anni fa.

In inverno è lì che vive, insieme ai suoi familiari. In estate si sposta in una roulotte nei pressi della grotta. Le capre sono la sua fonte di reddito.

I suoi figli, racconta ad Associated Press, sono cresciuti con una minaccia di espulsione incombente e permanente. Frequentano una scuola di fortuna a Jinba.

Quella è la loro terra, è lì che hanno sempre vissuto e non vogliono andare altrove.

Dei circa 1.300 palestinesi costretti ad abbandonare gli otto villaggi di Masafer Yatta, almeno 500 sono minori.

La storia.

Il braccio di ferro per l’area è iniziato negli anni ’80, quando funzionari israeliani hanno rivendicato diversi territori della Cisgiordania per creare campi di addestramento militare.

“L’importanza vitale di questa zona di tiro per le forze di difesa israeliane deriva dal carattere topografico unico dell’area, che consente metodi di addestramento specifici sia per unità piccole che grandi, che si tratti di un piccolo gruppo di soldati o di un battaglione”, si legge negli atti del tribunale, come riporta The Times of Israel.

Sull’altro versante gli attivisti per i diritti umani, sia palestinesi che israeliani, sostengono che l’obiettivo reale dietro la creazione delle zone di tiro sia lo sgombero dei residenti arabi, per rafforzare la presenza di Israele nei territori palestinesi. Varie volte, infatti, in passato, queste decisioni hanno preceduto l’espansione di insediamenti israeliani, considerati illegali dalla maggior parte della comunità internazionale.

A sostegno di questa ipotesi i verbali archiviati di un incontro, avvenuto nel 1981, recentemente trovati da ricercatori sul conflitto israelo-palestinese, in cui l’allora ministro dell’agricoltura – successivamente primo ministro – , Ariel Sharon, sottolinea l’importanza di rallentare “l’espansione degli abitanti dei villaggi arabi dalle colline”, come citato in un articolo pubblicato nel 2020 da Haaretz.

«Abbiamo interesse a espandere e ampliare le zone di tiro per mantenere nelle nostre mani quelle aree che sono vitali», si legge.

Il documento è stato presentato e incluso come prova nella documentazione depositata presso la Corte suprema.

Per i funzionari israeliani i residenti dei villaggi nella Zona 918 non possono dimostrare di essere proprietari di quella terra, né che la abitavano permanentemente quando è stata dichiarata zona di tiro.

Nel corso degli anni i residenti e i loro avvocati difensori hanno ripetutamente chiesto permessi per costruire case, poter avere accesso all’acqua (che viene trasportata da automezzi) e installare linee elettriche invece di continuare a utilizzare batterie e alcuni pannelli solari. Alle domande, ripetutamente respinte, hanno puntualmente fatto seguito demolizioni per abbattere le strutture “illegali”.

I primi ordini di sfratto, per 700 persone, sono stati emessi nel 1999, ma dopo un ricorso dell’Associazione per i diritti civili in Israele (ACRI) la Corte suprema ha emesso un’ingiunzione che consentiva di tornare fino a quando non fosse stata presa una decisione definitiva.

Con la sentenza del 4 maggio la Corte suprema ha stabilito che le famiglie palestinesi non fossero riuscite a dimostrare di poter avanzare diritti su quella terra o di avervi vissuto prima che fosse designata come poligono di tiro.

«C’è una legge che funziona per gli ebrei, ma che per noi è inesistente», ha detto al Washington Post Nidal Younes, capo del consiglio del villaggio di Masafer Yatta, constatando amaramente come un vicino avamposto dei coloni israeliani non sia soggetto anch’esso a sgombero in base allo stesso pronunciamento della Corte.

«La sentenza del tribunale è una decisione razzista presa da un giudice colono [David Mintz, che vive in un insediamento illegale in Cisgiordania]», ha sottolineato.

Negli ultimi anni i residenti di Masafer Yatta sono stati, inoltre, oggetto di attacchi sempre più intensi da parte delle adiacenti comunità di coloni israeliani illegali.

Una testimonianza cruciale distorta.

A nulla sono serviti testimonianze e filmati aerei per dimostrare che i villaggi di Masafer Yatta esistessero prima del 1981 e che quella zona non fosse utilizzata esclusivamente per il pascolo ma anche come residenza permanente. I tre giudici non hanno voluto tener conto che le grotte naturali fossero da tempo vere e proprie abitazioni.

Tra i documenti presentati da entrambe le parti coinvolte c’è un testo, scritto 40 anni fa, “Life in the Caves of Mount Hebron” (La vita nelle grotte del monte Hebron), scritto da un antropologo ed ex dipendente del ministero della Difesa israeliano, Yaakov Havakook, che in qualche maniera ha contribuito a segnare il destino dei circa 1.300 palestinesi residenti a Masafer Yatta.

La motivazione principale dei giudici per il respingimento del ricorso dei palestinesi si è basata, infatti, sull’etnografia scritta da Havakook che, per Israele, dimostra come non ci fossero “abitazioni permanenti” a Masafer Yatta nel 1980, quando l’area è stata dichiarata zona di tiro.

Ciononostante, recentemente, come riportato da +972 Magazine, Havakook, all’oscuro dell’importanza del suo libro ai fini della decisione della Corte suprema a scapito dei residenti palestinesi di Masafer Yatta, ha contraddetto la narrazione dello Stato che, secondo l’autore, ne avrebbe fatto un uso strumentale a propri fini.

Durante l’udienza dell’Alta Corte di aprile, lo Stato ha affermato che le mappe utilizzate da Havakook nel suo libro avevano riconosciuto i villaggi palestinesi di Masafer Yatta come “insediamenti stagionali”, indicando una permanenza temporanea di pochi mesi all’anno. Lo stesso giudice David Mintz ha fatto riferimento ad alcune pagine dello studio per riconoscere la posizione dello Stato.

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Tutto questo acquista rilevanza se si considera che secondo la legge militare israeliana, le “zone di tiro” non possono essere istituite dove vivono residenti permanenti.

Come riferito da +972 Magazine Havakook non è d’accordo con questa interpretazione, in particolare sull’uso della definizione “insediamenti stagionali”.

L’autore ha raccontato che nel 2000, dopo essere stato contattato dall’avvocato Shlomo Leker, ha anche cercato di presentare alla Corte suprema un parere contro le espulsioni. Ma il ministero della Difesa, presso il quale Havakook lavorava all’epoca, gli proibì di presentare una dichiarazione giurata oltre a numerose fotografie che aveva scattato che mostravano chiaramente l’esistenza dei villaggi negli anni ’70 e ’80.

«Pochi giorni dopo, ricevetti una telefonata dalla procura generale», ha spiegato Havakook. «Un avvocato mi informò che mi era stato vietato di presentare una deposizione e che se lo avessi fatto senza approvazione, sarei stato sottoposto a provvedimento disciplinare. Ero un impiegato statale, non volevo essere danneggiato».

La legge israeliana non vieta ai dipendenti statali di testimoniare o di presentare deposizioni ai tribunali. È a discrezione del procuratore generale dare o meno l’autorizzazione.

Nella sua attività di antropologo, Havakook ha studiato la vita degli abitanti delle grotte naturali nelle colline a sud di Hebron, vivendo con loro tra il 1977 e il 1981, nel periodo in cui l’esercito ha dichiarato la Zona di tiro 918. Per questo motivo, la sua opinione ha un enorme peso legale.

«Ho cercato di vivere la vita quotidiana con i residenti», ha ricordato sorridendo. «Le persone, anche quelle che sospettavano di me, hanno poi accettato di aprire le loro case. Mangiavo con loro, dormivo nelle loro case, mi vestivo lì, ascoltavo le loro storie, ero coinvolto nelle loro discussioni, andavo al pascolo con i loro figli. Le cose che ho imparato negli anni trascorsi con loro, non avrei potuto impararle in nessuna università».

Havakook ha tracciato la posizione di questi villaggi in una mappa disegnata per il suo libro dove si può trovare Jinba, per esempio, insieme ad altri villaggi attualmente all’interno della zona di tiro, come Fakheit, Taban e al-Markaz, che sia nel libro che nella mappa sono segnalati come “insediamenti stagionali”.

Con questa definizione l’antropologo si riferisce alle famiglie che vivevano in quei villaggi dai sei agli otto mesi all’anno, durante la stagione del pascolo, per poi tornare al villaggio ‘madre’. Oltre a ogni luogo indicato nella mappa, sono segnalate anche le famiglie che vivevano in grotte abitate, ritenute un insediamento. Le colline dove vivevano poche famiglie (una o due) non sono state, invece, inserite nella mappa.

Contrariamente all’interpretazione data da Israele, Havakook ha spiegato che questi nuclei familiari vivevano nei villaggi nel 1980, specificando, inoltre, come alcuni residenti abbiano mantenuto uno stile di vita migratorio tra due case: da sei a otto mesi nelle grotte, nei villaggi nella zona di Masafer Yatta, e il resto dell’anno nei rispettivi villaggi ‘madre’.

«Le famiglie arrivavano regolarmente, sempre nella stessa grotta, e quando non c’erano loro nessuno vi accedeva», ha detto. «[Le grotte] Non venivano abbandonate, né abitate casualmente. Era chiaro a tutti che questo fosse il loro villaggio e che una grotta appartenesse a una certa famiglia».

«Ci sono stati casi – prosegue – anche nei ruderi che ho segnato nella mia mappa, di residenti per l’anno intero. Tutti quegli insediamenti erano in via di costituzione. Si trattava di un processo naturale», ha detto Havakook, che ha spiegato come non ci fosse “più spazio per vivere o pascolare” nei villaggi madre che nel frattempo si erano trasformati in città. Di conseguenza i residenti più giovani rimanevano nei villaggi di Masafer Yatta tutto l’anno e non solo durante la stagione del pascolo.

«Non c’è un modo per classificare questa comunità», conclude Havakook. «Non tutto è definito secondo i criteri occidentali di Tel Aviv o Ramat Gan, con tasse sulla proprietà, elettricità, acqua e documenti. Il giurista, con tutto il rispetto, resta seduto in una grande stanza alla luce di un neon. Sa leggere le clausole legali ed è bravo a formulare le cose in un linguaggio contorto, ma non le vive. Non ha respirato l’odore del fumo del fuoco all’interno di una grotta, non è stato attaccato da una capra… giudicare uno stile di vita attraverso gli occhi di un’altra cultura sembra strano, incomprensibile, e per questo quell’interpretazione può essere falsata».

Le reazioni.

Le demolizioni, come riferisce il Washington Post hanno suscitato preoccupazioni da parte di Washington in vista della prossima visita in Israele del presidente statunitense Joe Biden prevista inizialmente a fine giugno e poi rimandata a luglio, in un momento di crescente instabilità nella coalizione di governo israeliana, e dopo la recente approvazione di oltre 4.000 nuove unità abitative negli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Ned Price, rispondendo a una domanda sulla sentenza dell’Alta Corte israeliana, ha esortato sia gli israeliani che i palestinesi a evitare di intraprendere passi che aumentino le tensioni. «Questo include certamente gli sgomberi», ha detto.

Intanto un gruppo di parlamentari statunitensi ha chiesto all’amministrazione Biden di fare pressione sul governo israeliano affinché fermi le espulsioni incombenti a Masafer Yatta.

In una lettera indirizzata al Segretario di Stato, Antony Blinken, più di 80 membri democratici e indipendenti di entrambe le camere del Congresso hanno evidenziato come gli sgomberi potrebbero minare gli sforzi per raggiungere una soluzione a due Stati.

“Come sostenitori di una forte relazione tra gli USA e Israele, crediamo che queste espulsioni danneggino i nostri valori democratici condivisi, mettano in pericolo la sicurezza di Israele e ignorino i diritti umani e civili dei palestinesi”, si legge nella lettera.

“Chiediamo rispettosamente un impegno immediato con il governo israeliano per prevenire questi sgomberi e ulteriori esercitazioni militari nell’area”, prosegue il documento.

I firmatari hanno inoltre chiesto a Blinken di incoraggiare Israele ad approvare piani regolatori per i villaggi di Masafer Yatta che consentirebbero ai palestinesi di costruire case e di non distruggere quelle esistenti.

All’indomani della sentenza della Corte suprema anche l’Unione europea ha espresso grande disappunto.

“L’espansione degli insediamenti, le demolizioni e gli sfratti sono illegali secondo il diritto internazionale. L’UE condanna questi piani ed esorta Israele a cessare le demolizioni e gli sfratti, in linea con i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. L’istituzione di una zona di tiro non può essere considerata un “motivo militare imperativo” per trasferire la popolazione occupata.

Per l’UE demolizioni, sgomberi e trasferimenti minacciano gravemente la soluzione dei due Stati e non faranno altro che aggravare una situazione già tesa da cui nessuno può veramente trarre vantaggio, men che meno la popolazione di entrambe le parti.

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Gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno affermato che la decisione di Israele di sfrattare i palestinesi dalle loro case a Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata potrebbe costituire un crimine di guerra.

La decisione di trasferire con la forza i residenti palestinesi è una grave violazione delle leggi internazionali umanitarie e sui diritti umani. Secondo i tre esperti dovrebbe essere aperta un’indagine indipendente e imparziale sulla questione.

Sostenendo questa politica di cacciare i palestinesi da Masafer Yatta, il sistema giudiziario israeliano ha dato carta bianca al governo per perpetuare la pratica dell’oppressione sistematica contro i palestinesi, hanno dichiarato Francesca Albanese, Cecilia Jimenez-Damary e Balakrishnan Rajagopal, i tre relatori speciali delle Nazioni Unite in una dichiarazione congiunta.

La decisione del tribunale di consentire lo sgombero forzato è “tanto più sconcertante” in quanto assunta per permettere l’addestramento militare israeliano nell’area.

“Come si può dare priorità a questo, rispetto ai diritti dei residenti palestinesi? Israele non ha mostrato alcuna ‘necessità militare imperativa’ tale da dover liberare l’area. Lo sfollamento delle comunità di Masafer Yatta può quindi costituire un crimine di guerra”, hanno affermato i relatori.

Francesca Albanese, avvocata e Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, ha detto ad Al Jazeera che Israele non ha “rispettato i doveri di una potenza occupante”.

Quei doveri, che Israele ha violato, sono stabiliti nella Convenzione dell’Aja del 1907 e nella Quarta Convenzione di Ginevra, ha affermato Albanese.

«Invece, ha scelto di dare la priorità alla creazione di insediamenti e infrastrutture per soli ebrei nella Palestina occupata, che è di per sé un crimine di guerra in quanto viola il divieto assoluto contro il trasferimento forzato da parte di una potenza occupante di parti della sua popolazione civile in un territorio occupato», ha evidenziato.

«La potenza occupante non ha il diritto di farlo e dovrebbe invece svolgere l’addestramento militare nel proprio territorio metropolitano», ha aggiunto.

Secondo i dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), tra gennaio 2009 e giugno 2022 Israele ha demolito circa 8.471 edifici palestinesi, comprese infrastrutture residenziali, educative, commerciali e mediche, di cui 1.522 finanziate da donatori, causando lo sfollamento di 12.586 persone.

Allo stato attuale i residenti di Masafer Yatta hanno esaurito tutte le vie legali per impugnare l’ordine di sfratto, ha affermato Albanese, osservando che è in corso un’indagine da parte della Corte penale internazionale (CPI) sulla situazione in Palestina e che la Corte potrebbe indagare sugli sviluppi recenti.

Nella dichiarazione congiunta, i tre esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno anche espresso particolare preoccupazione per il fatto che la decisione della Corte suprema israeliana su Masafer Yatta abbia respinto come non rilevanti o non vincolanti norme e principi che sono alla base del diritto internazionale.

Secondo l’Alta Corte, infatti, quando il diritto internazionale contraddice quello israeliano prevale quest’ultimo.

Ma su questo punto gli esperti ONU sono perentori: una Corte che non fornisce giustizia basata sulle norme internazionali e che perpetua le violazioni dei diritti umani fondamentali di persone che sono sotto occupazione militare da 55 anni, “diventa essa stessa parte del sistema strutturale di oppressione”.

(Immagine di copertina di AFP/Hazem Bader).