Israele, «depositi di bambini» per i figli degli immigrati africani

334783CTel Aviv-AFP/Ma’anÈ l’ora del sonnellino all’asilo Felizia, un appartamento sudicio che dà su una strada di Tel Aviv. Della musica pop a tutto volume copre il pianto delle decine di neonati e bambini stipati al suo interno.

Gestito da una Ghanese corpulenta, è una delle numerose strutture non autorizzate che si sono moltiplicate nella capitale commerciale israeliana e che forniscono un servizio di custodia economicamente “sostenibile” per migliaia di lavoratori africani clandestini. Ambienti sudici e squallidi, i gruppi per la difesa dei diritti umani e i media li hanno definiti «depositi di bambini».

Quest’anno, in questi “asili”, sono morti cinque neonati, tutti di pochi mesi di vita, e, secondo i gruppi per i diritti che prestano aiuto agli Africani richiedenti asilo, decine sono morte nel corso degli anni o per negligenza o per carenza di un’adeguata assistenza.

Sebbene queste strutture per la custodia dei bambini non siano tecnicamente illegali e la loro esistenza sia ben nota a livello locale, non sono soggette alla supervisione delle autorità. Maya Peleg, direttrice dell’Unitaf, sostiene che non vengono fatte chiudere perché costituiscono l’unica alternativa per molti lavoratori immigrati. La sua organizzazione offre un servizio di accoglienza dei figli degli immigrati e dei rifugiati a un costo accessibile, ma il numero dei centri è insufficiente rispetto alla domanda. Anche se il consiglio locale iniziasse a chiudere le strutture prive di licenza, al loro posto ne aprirebbero altre da tanto è alta la richiesta.

«Queste strutture costituiscono soprattutto un lavoro per le donne che le gestiscono, la maggior parte delle quali proviene dall’Africa occidentale» afferma Maya Peleg, la cui associazione è finanziata dal Consiglio della città di Tel Aviv.

Secondo i dati dell’ONU, Israele ospita circa 53.000 rifugiati africani e richiedenti asilo, la maggior parte dei quali si è introdotta nel Paese illegalmente attraversando il confine con l’Egitto. 36.000 provengono dall’Eritrea e 14.000 dal Sudan. Per loro, Israele è l’unico Paese con una qualità della vita elevata che può essere raggiunto a piedi. Lo Stato israeliano, però, non è disposto ad accettarli e raramente concede loro asilo politico, lasciando la stragrande maggioranza in un limbo legale, abbandonati a se stessi ai margini della società. La maggior parte non può permettersi un servizio di assistenza riconosciuto, che si tratti di una scuola materna o di una baby-sitter, poiché il costo ammonta a circa 655 $ al mese, una cifra notevole per chi campa con una paga di gran lunga al di sotto del salario minimo. La tariffa di queste “baby-sitter”, invece, è di appena 153 dollari.

«Il loro obiettivo è di lavorare più ore possibile, occupandosi del maggior numero di bambini con meno personale possibile e spendendo l’indispensabile in cibo e attrezzatura» sostiene Maya Peleg. E aggiunge: «A Tel Aviv si contano circa ottanta di queste strutture che accolgono più o meno 3.000 bambini al di sotto dei tre anni».

Biberon sporchi e pannolini maleodoranti

Al Felizia, i lavandini sono pieni di biberon sporchi e l’ingresso è occupato da cartelle e borse in plastica piene di giochi. I più piccoli, circa una decina, e molti in lacrime, si aggrappano alle sbarre dei lettini senza però ricevere la minima attenzione da Felizia o dalla giovane aiutante, anche lei di origini ghanesi. Un odore acre di pannolini sporchi riempie una stanza di circa dieci metri quadrati dove un’altra decina di bambini un po’ più grandi è ammassata sul pavimento con lo sguardo incollato alla televisione. In un’altra stanza, di dimensioni analoghe, una ventina di bambini tra i sei e i nove anni siede di fronte a un’altra televisione.

Maya Peleg sostiene che la preoccupazione maggiore è per i più piccoli che a volte trascorrono l’intera giornata nei loro lettini. «Il numero di adulti è decisamente insufficiente per dar da mangiare a un neonato alla volta. A volte vengono appoggiati a un cuscino con il biberon appeso al collo», spiega. «È così che, recentemente, un neonato è morto soffocato».

«Un ritardo irreversibile»

Yael Meir, ricercatrice di psicologia all’Università di Tel Aviv e coautrice di uno studio sull’impatto dei “depositi di bambini”, sostiene che la permanenza in questi luoghi può compromettere lo sviluppo del bambino.

«I bambini che hanno trascorso mesi o anni in queste strutture, a volte soffrono di un ritardo irreversibile dello sviluppo», ha dichiarato ad AFP. «La mancanza di stimoli si ripercuote su tutti i livelli dello sviluppo: motorio, sociale, cognitivo ed emotivo. Questi ritardi emergono quando i bambini cominciano a frequentare la scuola e spesso devono essere assegnati a strutture educative speciali».

A seguito della morte di cinque neonati all’inizio dell’anno, il governo ha deciso di stanziare 14 milioni di dollari in quattro anni per la costruzione di asili analoghi a quelli gestiti dall’Unitaf. Secondo Maya Peleg «Si tratta di una cifra notevole, ma bisognerà vedere se basterà per costruire un numero sufficiente di strutture che consenta di chiudere definitivamente gli “asili” abusivi».

 

Traduzione di Silvia Durisotti